Domanda: l’immigrazione fa davvero bene all’economia? Risposta: sicuramente sì. Al di là delle motivazioni etiche che stanno sotto l'apertura delle frontiere, le motivazioni economiche sono ancora più evidenti: a trarre vantaggio dall'immigrazione di lavoratori, anche di quelli non specializzati, non sono soltanto le (sempre più ristrette) élites urbane che acquistano collaboratori domestici a basso prezzo, ma l'intero sistema economico, sociale, previdenziale.
Nonostante quello che si può far dire alle statistiche (torturate i numeri ed essi vi diranno qualunque cosa) il peso di tasse e servizi, il minor impiego per i lavoratori locali e l'aumento dei salari per quelli che riescono a mantenere il proprio posto a tutto possono essere dovuti meno che ai lavoratori immigrati o agli immigrati in generale. In particolare andrebbe chiarito il ruolo che in questo processo ha avuto, negli ultimi venticinque anni, la crisi dell'industrializzazione, che ha colpito pesantemente lo stato che occupa la penisola italiana. In pratica non c'è grande industria, dalla chimica all'elettronica, che non sia stata negli anni ridimensionata, smantellata, "finanziarizzata", che non sia andata incontro a perdite di know how difficili da colmare. Ci vollero poi più di dieci anni per battere la nuova figura operaia che a partire dal 1967, con le sue lotte radicali, era arrivata a mettere in discussione il sistema stesso della fabbrica, della produzione e del lavoro: per arrivare a questo è stato necessario cambiare completamente il sistema di produzione e diminuire drasticamente la consistenza numerica della classe operaia, togliendo ad essa l'egemonia sociale e politica ed aprendo la porta ad uno sviluppo basato sull'industria dell'effimero e sul precariato elevato a condizione ordinaria. In queste condizioni, ovvio che senza il protezionismo monetario e statale reso possibile dal contesto geopolitico dei decenni precedenti, l'economia peninsulare avrebbe risentito più di altre dell'edificazione della Unione Europea.
Il fatto che l'immigrazione comporti un aumento degli affitti e del costo della vita non è confermato da alcuno studio serio. Anzi, la vulgata instancabile che i media "occidentalisti" ci propinano ogni giorno sottolinea con insistenza il fatto che la sola presenza di "immigrati" in un quartiere -presenza che ai disumanizzati occhi "occidentali" appare puramente e semplicemente antiestetica- concorre alla perdita di valore degli immobili. Quegli immobili che in tempi più normali si chiamavano case e che ora sono stati declassati a "soluzioni abitative" dall'esercito che ci mangia sopra.
Checché ne dica il professor Robert Rowthorn, celebrato e forse legittimato soprattutto in quanto "ex di sinistra" e probabilmente perché ha fornito a "Libero" (libero da cosa, ci chiediamo da anni) il sudato frutto delle sue ricerche, l'immigrazione concorre in maniera determinante nel far crescere l'economia del Regno Unito, e specialmente quella dai paesi recentemente entrati nell'Unione Europea. La tesi è sostenuta, con buoni argomenti, da un suo contendente di nome Peter Spencer, portato alla nostra attenzione dalla lettura di un blog qualunque, il quale riporta anche altre interessanti conclusioni.
La prima è che la figura di immigrato senz'arte né parte, sulla quale si basano le conclusioni di Rowthorn, sia in realtà minoritaria; la seconda mette bene in luce un altro aspetto dell'ottica da studente di legge con la quale gli "occidentalisti" impostano e presentano qualunque problema, e con la quale pretendono di spiegare ogni aspetto dei rapporti sociali e della vita quotidiana in genere: così come nessuno fu chiamato al voto per deliberare in materia di rivoluzione industriale, nessuno sarà chiamato seriamente ad esprimersi sull'immigrazione. Immigrazione cui va attribuita una potenzialità rivoluzionaria almeno pari a quella delle altre rivoluzioni economiche degli ultimi due secoli e mezzo. Con buona pace dell'ossessione securitaria "occidentalista" e della sua utilità in campagna elettorale.