Traduzione da Conflicts Forum.


E ora, che ci succederà senza i barbari?
Loro, bene o male, erano una soluzione.

C.P. Kavafis (1863-1933), poeta greco.

In AmeriKKKa si discute se la politica estera del Presidente Obama possa essere considerata come improntata ad una "realistica moderazione" o se invece non rientri nelle correnti di più recente sviluppo nell'àmbito della "egemonia liberale". Barry Posen del MIT considera Obama un moderato realista; altri invece mostrano come invece di fare un lavoro di preparazione -che è la premessa necessaria per qualsiasi cambiamento- presso il pubblico ameriKKKano in previsione del ritorno allo storico atteggiamento "non interventista" dell'AmeriKKKa, il Presidente a West Point abbia messo l'accento sullo "eccezionalismo" ameriKKKano e sulla "indispensabilità" della nazione, e come più tardi abbia prontamente denigrato il Presidente Putin, facendone una minaccia vera ed attuale per l'Europa e per l'Ordine Mondiale corrente. Questo fa pensare che la retorica utilizzata sia più quella di un "interventista liberale" che non di un "moderato".
La questione, tuttavia, non centra il punto. La nuova avventura di Obama in Medio Oriente, contro lo Stato Islamico, va inquadrata in una corrente del pensiero statunitense che non rientra fra quelle citate. Non si tratta né di "realismo" né di un rifacimento del Medio oriente improntato alla mera egemonia liberale. Piuttosto pare una guerra priva di qualunque strategia, concepita come un fallimento. Cominciata con difficoltà, si è già arenata. Cosa sta succedendo, dunque?
Richard Norton-Taylor ha ragione quando scrive che bombardare lo Stato Islamico è "inutile". Lo Stato Islamico ha messo piede sul terreno ben prima che i bombardamenti cominciassero; è un gruppo che ha adottato una struttura organizzativa piatta, orizzontale, il che significa che non dispone di grossi quartier generali,  di magazzini di battaglione, di centri di comando e controllo, e che non presenta bersagli evidenti. Lo Stato Islamico si comporta come un organismo dotato di rizomi. Si dia un'occhiata ai rapporti sui bombardamenti aerei: un paio di Humvee distrutti qui, o un blindato colpito là. Se i raid aerei abbiano immobilizzato o distrutto lo Stato Islamico non è neanche in discussione: lo Stato Islamico non soltanto non sta battendo in ritirata, ma si sta espandendo: ha conquistato due città nell'Iraq occidentale, travolto una base militare irachena in cui si trovavano centinaia di soldati, e continua a tenere la cittadina siriana di Kobané sotto assedio.
Sembra che la coalizione stia velocemente esaurendo i bersagli: di solito, i primi giorni di campagna sono occupati da una massiccia serie di bombardamenti aerei che li prevede tutti, come nel caso della guerra sionista in Libano nel 2006; il fatto è significativo. Individuare centinaia di nuovi bersagli ogni giorno è una cosa che supera le capacità di qualunque servizio di intelligence: identificare e validare i bersagli è un lavoro logorante e che richiede molto tempo.
E cosa succederà dopo la campagna aerea? Si dovrà mettere piede a terra. E chi se ne occuperà? Nella strategia questo è un grosso pezzo che manca, e che sta mettendo tutti in confusione oltre a dare credito alle teorie che vogliono che esista un altro piano oltre a questo: Turchia e stato sionista stanno ostentatamente facendo avanzare le loro priorità in questo vuoto programmatico. Come si presenterà dopo la guerra la valle superiore dell'Eufrate, ora sotto il controllo dello Stato Islamico e da sempre profondamente sunnita? Quale linea politica adotterà questo ampio vallone, e a chi apparterrà? Di questo non sappiamo niente.
Sul perché Washington stia combattendo una guerra priva di strategia non si possono avere risposte, per lo meno non nei termini delle categorie che circolano nel dibattito in corso a Washington. Probabilmente non serve nemmeno questo cercare un fantomatico piano al di là di quello esistente. E' verosimile che la spiegazione vada cercata altrove, e che abbia a che vedere con il concetto di negazione strutturale.
A Washington sono tutti d'accordo -e la cosa è stata riconosciuta, sia pure di mala voglia, anche da pensatori indipendenti come Jim Lobe- sul fatto che non c'è nulla che gli Stati Uniti possano fare per contrastare lo Stato Islamico senza l'indispensabile aiuto dell'Arabia Saudita e delle monarchie del Golfo. Il problema principale è questo: sembra che, anche dopo tante perdite di tempo, Washington non riesca a concepire l'idea che sia il caso di chiudere una volta per tutte con relazioni di un certo genere. Eppure, continuare l'alleanza con l'Arabia Saudita significa trovarsi davanti ad una scelta: o ci si disimpegna meglio che si può da questa guerra, e si arriva di fatto ad un accordo con lo Stato Islamico, oppure ci si addossa per intero il compito di sconfiggerlo, ma mandando sul terreno soldati propri.
Nel corso degli ultimi sessant'anni l'Arabia Saudita ha facilitato molti tra gli obiettivi della politica estera occidentale: ad essa va anche il credito, in buona parte non meritato, dell'aver avuto un ruolo da protagonista nella sconfitta dell'Unione Sovietica in Afghanistan e dunque di aver aiutato tra l'altro l'AmeriKKKa a vincere la guerra fredda. Solo che l'Arabia Saudita -questo il suo punto forte, in ogni situazione ed in ogni caso- ha sempre operato accendendo il radicalismo sunnita e diffondendo la militanza salafita, che in Arabia Saudita si incarna nello wahabismo.
Di questi sistemi, che consistono nell'incendiare il radicalismo sunnita e nel servirsene allegramente, chiudendo al tempo stesso ambedue gli occhi sul concomitante imporsi dello wahabismo come orientamento predominante nell'Islam, l'Occidente ha già fatto le spese un paio di volte. La prima volta che è stato appiccato il fuoco è stato negli anni Ottanta in Afghanistan, e la conseguenza sono state bombe a New York, bombe a Londra ed a Parigi e anche, non dimentichiamocene, bombe a Mosca, tramite i ceceni. Da allora sia l'Afghanistan che il Pakistan sono andati incontro ad una metamorfosi in senso salafita, e ad una radicalizzazione.
Oggi, l'Occidente ed il Medio Oriente sono rimasti bruciati malamente una seconda volta, con lo Stato Islamico e Jabat an Nusra; lo ha detto chiaramente il Vicepresidente degli Stati uniti Joe Biden. Nel 2012 scrivevamo che questo secondo massiccio incendio del radicalismo sunnita, appiccato per facilitare il rovesciamento del Presidente Assad, avrebbe avuto per l'Occidente conseguenze ancora più gravi, ancora più pericolose di quelle che gli sono venute dall'Afghanistan negli anni Ottanta.
Simon Henderson appartiene all'influente think tank neoconservatore ameriKKKano WINEP; poco tempo fa ha scritto: "oggi, i sauditi dicono che non stanno fornendo alcun sostegno ai terroristi e che anzi hanno decretato che è un delitto penale per i cittadini del regno combattere in Siria o aiutare i combattenti dell'opposizione. Ma questo contrasta con decenni di consuetudini saudite, che hanno portato giovani religiosi a combattere in Afghanistan, in Cecenia, in Bosnia ed altrove [il corsivo è nostro, n.d.a.]. E non sono questi i termini in cui Bandar ha parlato delle istruzioni che ha ricevuto da Re Abdullah quando fu nominato capo dei servizi: Bandar ha detto che aveva avuto l'incarico di sbarazzarsi di Bashar al Assad, di mettere dei limiti a Hezbollah in Libano, e di tagliare la testa del serpente (l'Iran). Sottolineando la chiarezza di intenti che l'Arabia Saudita nutre nei confronti della Siria, ha detto che avrebbe seguito le indicazioni del suo re, anche se questo avesse voluto dire 'arruolare qualunque figlio di buona donna di jihadista' su cui avesse potuto mettere le mani".
Adesso, i "decenni di consuetudini saudite" passati a scatenare la gioventù osservante sono diventati, e la cosa non sorprende, un movimento neowahabita: lo Stato Islamico. Lo Stato Islamico è un movimento che si colloca esplicitamente e con convinzione al di fuori della sfera di influenza dei sauditi, a differenza di Osama bin Laden che veniva tenuto a distanza dal re e dalla corte ma che non tagliò mai i legami che aveva con una certa corrente maggioritaria interna al regno. In poche parole, l'Arabia Saudita non può fare niente per aiutare l'AmeriKKKa in questa guerra. La sua prima preoccupazione sarà quella di evitare che i suoi giovani subiscano il fascino dello Stato Islamico.
Turki al Hamad è un saudita di orientamento liberale; poco tempo fa, scrivendo sul quotidiano Al Arab che ha base a Londra, ha riassunto così la situazione: "Ma come possono [i nostri studiosi] replicare allo Stato Islamico... e a tutti gli altri parassiti che abbiamo tirato su ai margini dell'Islam, dal momento che i suoi semi sono cresciuti presso di noi, dentro le nostre case, e siamo stati noi a nutrirne il pensiero e la retorica fino a quando non sono cresciuti rigogliosi?". Avrebbe potuto anche aggiungere, ma non lo ha fatto, che lo Stato Islamico sarà stato anche nutrito dall'Arabia Saudita, ma che questo non significa che una simile creatura si mostrerà docile, obbediente o anche solo grata.
Da un certo punto di vista la guerra in Medio Oriente è diventata una guerra tra lo wahabismo e gli altri orientamenti del salafismo come i Fratelli Musulmani, che adesso i sauditi cercano di incolpare della nascita dello Stato Islamico. E' una guerra di sunniti contro sunniti, della wahabita Arabia contro lo wahabita Qatar, della wahabita Jabat an Nusra contro lo Stato Islamico, della wahabita Arabia ed alcuni dei suoi alleati, contro i Fratelli Musulmani.
Una grande confusione. Se l'AmeriKKKa intende mettervi ordine, dovrà farlo da sola. Non può attendersi alcun aiuto dal suo alleato "irrinunciabile". L'Arabia Saudita è più occupata a pensare ai propri affari: manipolare la guerra di Obama in modo che "arrechi una sconfitta strategica all'Iran rovesciando il governo di Damasco", come spiega Simon Henderson. "Da punto di vista dei sauditi, il fatto che lo Stato Islamico abbia spostato forze in Iraq [è stata una cosa positiva, che contribuisce] alla rimozione di Nouri al Maliki a Baghdad, ritenuto in Arabia un burattino di Tehran. Nonostante Riyadh appoggi ufficialmente il nuovo governo di Baghdad, molti sauditi che disprezzano gli sciiti probabilmente pensano che lo Stato Islamico stia compiendo il volere divino".
L'AmeriKKKa è caduta nell'inganno di aver considerato i paesi del Golfo come animati da buone intenzioni? Lo stesso Simon Henderson prevede che "il concetto di autoconservazione dell'Arabia Saudita... contemplerà probabilmente una politica ipocrita nei confronti di Washington... la cautela con cui il Presidente Obama si sta muovendo è causa di esasperazione: [nel migliore dei casi] i sauditi collaboreranno di mala voglia. Nel peggiore, si atterranno strettamente a quelli che sono i loro interessi, e non importerà loro alcunché se questo significa danneggiare gli Stati Uniti".
Se il loro alleato si comporta in questo modo, per quale motivo tutta la strategia statunitense nei confronti dello Stato Islamico si basa sull'Arabia Saudita e sui paesi del Golfo? E' bene tenere presente che i video dello Stato Islamico in cui si vedono le decapitazioni sono stati quasi certamente realizzati con la precisa intenzione di indurre l'AmeriKKKa ad inviare truppe di terra. Una strategia per modo di dire, che si basa sulle presunte buone intenzioni che gli alleati del Golfo dovrebbero mettere nel loro sostegno alla coalizione, condurrà probabilmente proprio al punto in cui il Presidente non vuole che si arrivi, ed al quale invece lo Stato Islamico vuole portarlo: l'invio di truppe sul terreno. Se a Washington non se ne sono ancora accorti, stanno negando l'evidenza ed è il caso che si diano una regolata.
Edward Luce scrive sul Financial Times e sostiene che sarebbe ingenuo pensare che si possa mettere fine a questo negare l'evidenza: in Medio Oriente ci si è comportati nello stesso identico modo per troppo tempo. Nonostante questo, Luce recita poi una filippica su come ogni iniziativa mediorientale in cui gli Stati Uniti sono stati autori e svolta in stretta collaborazione con l'Arabia Saudita sia sempre finita con il piantare semi che sarebbero diventati problemi peggiori, e con il lasciare ancora più radicalismo. A suo modo di vedere, questa escalation inesorabile sta portando diritta a risultati esplosivi.
Smettere di negare l'evidenza aprirebbe agli Stati Uniti prospettive completamente diverse sul mondo islamico; esiste infatti un altro aspetto di questa alleanza, in gran misura mai riconosciuto e mai compreso: l'Occidente ha fatto propria a tal punto la narrativa saudita fatta di vittimismo e di usurpazione che molti editorialisti ameriKKKani ed europei rifiutano di sapere -lasciamo stare di capire- che possono esistere anche altre visioni del Medio Oriente che non la verità dei sauditi e dei paesi del Golfo.
La "verità" dei sauditi e dei paesi del Golfo dice che loro sono sempre le vittime dell'Iran e degli sciiti, e che la loro posizione in Medio Oriente è stata surrettiziamente usurpata dal risorto Iran. Un'altra verità però dice che le élite arabe dell'epoca post ottomana, in larga parte sunnite e in larga parte rimaste al loro posto anche dopo la seconda guerra mondiale, non hanno mai recuperato il prestigio perduto nella disastrosa guerra del 1967: la loro rovina è cominciata allora, e da allora non ha fatto che precipitare.
L'Occidente ha accolto senza pensarci minimamente la narativa wahabita, quella dell'"Asse del Male"; ha tacitamente fatto proprio il disprezzo e l'odio per gli sciiti che caratterizzavano Mohammad Abd al Wahhab, il fondatore dello wahabismo, ed è direttamente responsabile della recente polarizzazione cui abbiamo assistito in Medio Oriente. Sembrava che il Presidente Obama avesse capito qualcosa delle controindicazioni insite in questa visione parziale delle cose quando ha parlato della necessità di un riequilibrio tra sunniti e sciiti, aggiungendo che questo non avrebbe da solo risolto i problemi della regione, ma sarebbe servito ad allontanarne un po' dei veleni. Tuttavia, per Obama mettere insieme il ventaglio della sua coalizione di alleati arabi ha un prezzo: questo prezzo è probabile che sia il no ad un riavvicinamento all'Iran.
Negli ambienti presidenziali, probabilmente, capiscono il problema. Certo, alcuni editorialisti mediorientali pensano che i raid aerei statunitensi sembrano stranamente inutili e privi di efficacia. Probabilmente Obama è meno convinto della possibilità di distruggere lo Stato Islamico, e del fatto che esso verrà effettivamente distrutto, di quanto faccia pensare la retorica ufficiale. In altre parole, il Presidente farà l'atto di entrare in guerra, ma non entrerà davvero in guerra con lo Stato Islamico. Forse i funzionari capiscono la chiara vulnerabilità dell'Arabia Saudita, e simpatizzano con essa; non vogliono spingere il re saudita oltre i suoi limiti. Ma con lo Shah non era la stessa storia? Ci fu la mancata volontà dei funzionari di spingerlo oltre le sue prospettive, e c'erano i limiti di manovra di un alleato stretto; sappiamo tutti come è andata a finire. Forse, anche stavolta finirà allo stesso modo.
In questo caso forse i barbari, ovvero lo Stato Islamico, finiranno anch'essi per essere "una soluzione" come nella poesia di Kavafis, per l'Arabia Saudita e per tutto il mondo sunnita. Dopotutto le maggiori svolte nella storia provengono (e conducono) da episodi distruttivi che nessuna civiltà in sé è mai riuscita ad identificare.