Traduzione da Asia Times.

"Sono un generale dell'esercito degli Stati Uniti, ed ho perso la guerra globale al terrorismo". Il luogotenente generale Daniel Bolger inizia così la sua storia delle guerre in Iraq ed in Afghanistan. "E' come dagli Alcolisti Anonimi: il primo passo consiste nell'ammettere di avere un problema. Bene: io ho un problema. E ce l'hanno anche i miei pari grado. Grazie a questo, adesso tutta l'AmeriKKKa ha un problema di cui prendere atto: due campagne militari perdute, ed una guerra in cui tutto è andato storto".
Bolger intende dire che i generali statunitensi, soprattutto David Petraeus, hanno propinato a politici in stato confusionale qualche rimedio provvisorio, destinato a diventare in futuro un problema anche peggiore.
Molti recensori hanno perso di vista questa conclusione; Andrew Bacevich sul New York Times e Mark Moyar sullo Wall Street Journal hanno scritto che è ai civili che tocca parte, e forse la maggior parte, della colpa.
Bachevich e Moyar non hanno alcun senso dell'umorismo, figuriamoci dell'ironia. Bolger dà la colpa ai militari, e raffigura i presidenti George Diabolus Bush e Barack Obama come disgraziatamente mal consigliati. La missione era impossibile, fin dal principio. Quando annunciò il "giro di vite" del 2007 contro l'insurrezione sunnita, il presidente Bush disse che gli Stati Uniti volevano trasformare l'Iraq in una "democrazia funzionante ed in grado di controllare il proprio territorio, che fa rispettare la legge, che rispetta i diritti umani fondamentali e sa dare risposte al proprio popolo".
Il problema, come spiega Bolger, è che un governo di maggioranza in Iraq significa guerra permanente. "Le questioni concrete -e spinose- erano ancora lì. Via Saddam, qualsiasi consultazione elettorale avrebbe portato al potere una maggioranza sciita. I sunniti non avrebbero più governato, in Iraq. In fin dei conti è stato questo a scatenare l'insurrezione. Senza lo sterminio degli arabi sunniti, le cose sarebbero andate come prima".
Il libro di Bolger dovrebbe essere pubblicato anche in russo ed in cinese. In entrambi i paesi esiste una solida corrente di pensiero, cui dànno sostegno alcuni eminenti esperti di politica estera, che pensa che gli Stati Uniti abbiano intenzionalmente agito in modo da destabilizzare la regione. Ora che l'AmeriKKKa è quasi autosufficiente per le risorse petrolifere, intende interrompere il rifornimento di petrolio alla Cina in modo da ribadire la propria egemonia mondiale.
Si tratta di conclusioni paranoiche e campate in aria, ma sono riflesso dell'incredulità con cui osservatori russi e cinesi hanno assistito allo spettacolo di un'AmeriKKKa apparentemente intenta a distruggere con le sue mani il proprio ruolo mondiale. Com'è stato possibile che gli ameriKKKani si siano comportati in modo tanto stupido? E' stato possibile eccome, e stupidi lo siamo stati. Bolger illustra dall'interno la catena di errori di valutazione che hanno portato alla situazione attuale; si tratta di spiegazioni convincenti, che andrebbero fatte circolare come antidoto ai pensieri paranoici.
Qualche tempo fa un rispettato esperto cinese ha sostenuto in un seminario di politica estera tenutosi a Pechino che prova del fatto che l'AmeriKKKa ha scientemente agito in modo da destabilizzare il Golfo Persico è che lo Stato Islamico è guidato da graduati sunniti armati e finanziati dal generale David Petraeus, che era comandante statunitense durante il "giro di vite" del 2007-2008. A dire il vero, si tratta di una constatazione fondata. Lo Stato Islamico dimostra una impressionante capacità di leadership e riesce a dispiegare tattiche che contemplano il dispiegamento di grandi unità e l'utilizzo di equipaggiamenti sofisticati. Molte di queste cose le ha imparate dagli ameriKKKani. Il fatto è che gli ameriKKkani si sono comportati tenendo presente l'espediente politico a breve termine piuttosto che gli effetti negativi nel medio periodo.
Secondo Bolger, l'AmeriKKKa non si doveva imbarcare in una missione sbagliata.
La guerra di Bush iniziò con il letterale schiacciamento di Al Qaeda e dei suoi sostenitori talebani in Afghanistan. Dopo poche settimane dall'Undici Settembre gli obiettivi principali erano stati raggiunti: non del tutto, non completamente, ma in una buona misura probabilmente sì. Se a quel punto ci fossimo fermati e fossimo tornati alla metodica caccia ai gruppi terroristici e ai loro sostenitori islamisti, al lavoro lento e lungo dei tempi di Clinton, probabilmente saremmo riusciti nel nostro intento... Con la rapida cattura di Baghdad ci si presentò ancora una volta l'occasione avuta dopo la caduta di Kabul: chiudere con le operazioni militari su vasta scala, ed intraprendere di nuovo il lento, costante, quotidiano lavoro di pressione per contenere le minacce islamiste a livello mondiale. Anche quel momento passò. Invece di fare questo... dopo un dibattito interno ridotto a poche battute, in cui -cosa importante- dagli ambienti militari non si levò alcuna obiezione, l'amministrazione decise di intraprendere due lunghe campagne antiinsurrezione tutt'altro che decisive.
Bisogna sapere quello che si vuole: ora nel 2006 gli USA avevano sostenuto le elezioni nazionali in Iraq, e avevano portato al potere il leader sciita Nouri al Maliki. La prima cosa che al Maliki fece fu espellere i sunniti dall'esercito. I sunniti iracheni, temendo la vendetta sciita, si rivoltarono e l'Iraq si dissolse nelle violenze. In risposta a tutto questo un gruppo di ufficiali inferiori che operava nella provincia di al Anbar, a maggioranza sunnita, ideò la macchinazione che fece da nucleo per il "giro di vite". Furono dislocati altri ventimila soldati per reprimere l'insurrezione sunnita, ma ad avere gli effetti migliori fu il pagare i sunniti perché si astenessero dall'impugnare le armi per tutto il tempo dell'intervento. Come riferisce Bolger,
I gruppi tribali della provincia di al Anbar avevano sempre aiutato Al Qaeda in Iraq... I singoli sceicchi che non si dicevano d'accordo, perdevano la testa. Le famiglie venivano aggredite, le loro case distrutte, le loro auto bruciate. Gli uomini di Al Qaeda in Iraq iniziarono ad imporre una disciplina wahabita: basta scommesse sui cavalli, basta alcol, basta fumo. Insomma, alla fine i capi di Al Qaeda in Iraq riuscirono ad imporsi: i purosangue filopersiani di Baghdad erano lontani. Rimanevano gli ameriKKKani, ma si interessavano poco a quello che gli sceicchi combinavano insieme alle loro tribù. Costretti a scegliere tra il giogo di Al Qaeda e l'esercito ameriKKKano, i leader tribali scelsero di provare con gli ameriKKKani.
L'espediente funzionò. Petraeus, che stava brigando per ottenere il comando della piazza dal suo posto di ufficiale organico a Leavenworth, in Kansas, ascoltò con attenzione quello che gli ufficiali inferiori gli proponevano. Bolger non mostra alcuna indulgenza per i maneggi di Petraeus. "La bassa ufficialanza si chiedeva quali fossero le sue vere intenzioni: erano motivi di servizio o di carriera personale? Con Petraeus non si poteva mai essere sicuri, ma il più delle volte si poteva pensare che si trattasse di voglia di far carriera, il che voleva dire guai". 
I gradi più alti dell'esercito si opponevano in blocco all'intensificare le operazioni; il presidente Bush si mise in cerca di un graduato che potesse migliorare le cose in Iraq, e lo trovò in Petraeus. Bolger aggiunge che
Nel corso dell'estate del 2007, insieme all'aumentata presenza di truppe a Baghdad, l'operazione "Risveglio Sunnita" pose effettivamente fine al bagno di sangue settario. La resistenza sunnita si trovò divisa, e rimase divisa per tutto il restante tempo della campagna statunitense. Non fu una vittoria, almeno non lo fu sceondo alcuno dei criteri che gli ottimisti ameriKKKani si erano dati nel 2003, che pareva un'altra vita. Comunque, era un qualche cosa che somigliava ad un progresso.
...L'operazione "Risveglio Sunnita" si espanse rapidamente... Sempre consapevole dell'importanza che ha il saper vendere, [il comandante in Iraq generale David] Petraeus e le figure a lui più vicine cercarono un nome più evocativo. Con l'approvazione del Primo Ministro Nouri al Maliki, i sunniti furono ribattezzati "I Figli dell'Iraq".
In AmeriKKKa a far notizia era l'aumentata presenza di truppe statunitensi; in Iraq, invece, l'operazione "Risveglio Sunnita" definì una volta per tutte le differenze in materia di tassi di logoramento. 
...I Figli dell'Iraq si mostrarono oltremodo leali. Il movimento Sahwa poteva contare su un migliaio di uomini, per metà dislocati dentro e attorno a Baghdad; permetteva ai sunniti di girare armati legalmente e di essere stipendiati; in questo modo eliminava molti degli incentivi che spingevano verso una "resistenza onorevole". In Iraq, è stato di gran lunga il programma per l'impiego di maggiore ampiezza e di maggior successo... Il Sahwa, comunque, pagò decine di migliaia di arabi sunniti per ammazzarsi a vicenda. Non erano ameriKKKani. A costo di sembrare cinici, era impossibile non concordare con i risultati. I Figli dell'Iraq riuscirono a schierare un numero di sunniti in armi sei volte superiore alle stime della forza avversaria. La cosa mostrò la potenziale ampiezza, e la capacità di resistere ai rovesci, possedute dall'insurrezione sunnita.
La questione potrebbe essere sintetizzata in modo anche più spiccio: finanziando ed addestrando i "Figli dell'Iraq", Petraeus e i suoi hanno messo in piedi gli elementi della nuova insurrezione sunnita che oggi usa il nome di Stato Islamico, detto anche Stato Islamico in Iraq e nel Levante.
Andrew McGully descrisse per France Presse il primo incontro delle tribù sunnite con Petraeus ed i suoi, avvenuto nel 2007 vicino a Baghdad.
"Dite come posso aiutarvi", chiede il maggiore generale Rick Lynch, comandante della coalizione a guida statunitense nell'Iraq centrale... Uno [dei capi tribù] parla di armi, ma il generale insiste: "Posso darvi denaro, perché lavoriate al miglioramento nella zona. Quello che non posso fare -questo è molto importante- è darvi armi".
L'atmosfera seria del consiglio di guerra, che si tiene in una tenda nella base avanzata Statunitense di Camp Assassin, si allenta per qualche secondo: uno dei capi locali iracheni afferma, con l'aria di uno che scherza ma che sa quello che sta dicendo: "Nessun problema: le armi in Iraq costano poco".
"E' vero, è proprio vero", risponde ridendo Lynch.
In un saggio scritto per Asia Times nel 2010 ed intitolato "Il generale Petraeus alla guerra dei trent'anni" affermavo che "dopo aver fornito armamenti a tutte le parti in conflitto e dopo averle tenute separate con la minaccia delle loro armi, gli Stati Uniti vorrebbero ora disimpegnarsi lasciando in piedi qualche governo di riconciliazione nazionale, che dovrebbe persuadere milizie ben armate e ben organizzate ad attenersi alle regole. Si tratta, con ogni probabilità, della cosa più demenziale che una potenza imperialista abbia mai fatto. Gli inglesi, almeno, praticavano il divide et impera: gli ameriKKKani invece vorrebbero dividere e sparire. Prima o poi tutta questa architettura mal congegnata finirà col crollare, e nessuno lo sas meglio del generale Petraeus".
Nel 2010 il generale Stanley McChrystal dirigeva le forze statunitensi in Afghanistan con lo stesso obiettivo, che era l'edificazione di un sistema-nazione. Bolger ha il dente particolarmente avvelenato nei confronti di McChrystal e del suo insistere sulla propria "coraggiosa compostezza" che significava accettare che gli Stati Uniti soffrissero maggiori perdite pur di ridurre il numero di vittime civili in Afghanistan, che a lungo andare poteva provocare una "perdita del sostegno popolare".
Per i rudi uomini delle trubù pashtun, tutto questo non significò disciplina o compostezza, ma debolezza. Non si capiva perché mai una parte significativa della popolazione afghana avrebbe finito con solidarizzare con migliaia di stranieri infedeli. La popolazione locale il più delle volte odiava i talebani, ma gli insorti talebani erano di quelle parti mentre le truppe dell'ISAF non lo erano. Come succede con le "sconfitte stratgiche", McChrystal confuse i quotidiani sproloqui di Hamid karzai [il presidente afghano] con il parere di chi vive nei villaggi dell'Afghanistan. La maggior parte dei pashtun comuni si rivelò fatta di un materiale più coriaceo, ed accettò il fatto che in una guerra a volte gli innocenti ci rimettono la vita. Gli afghani non avrebbero mai amato l'ISAF, ma potevano ben temere e rispettare le truppe di occupazione. Invece, con una guida improntata a criteri del genere, anche questo era diventato poco probabile.
Secondo Bolger, le operazioni controinsurrezione funzionano soltanto se la potenza occupante è disposta a rimanere sul terreno a tempo indeterminato, come hanno fatto gli Stati Uniti in Corea. In tutti gli altri casi la guerriglia finisce per prevalere, e l'AmeriKKKa non aveva lo stomaco per sopportare un'altra decina d'anni di guerra. Il governo di al Maliki, che pure doveva la sua esistenza al burattinaio statunitense, non voleva ameriKKKani nel paese e ha fatto giorno di festa nazionale della data in cui gli ameriKKkani se ne sono infine andati.
Il libro di Bolger è redatto con intelligenza e con indiscutibile accuratezza. Merita attenzione, perché si tratta del documentato punto di vista di qualcuno che è soldato e storico al tempo stesso, e che ha partecipato agli eventi narrati. E' verosimile che avrà un suo posto, nel più ampio dibattito politico su cosa è andato male in Iraq ed in Afghanistan.
Secondo la corrente principale del partito repubblicano, ammettere gli errori di cui Bolger riferisce in modo documentato mette a rischio la reputazione di troppi repubblicani. Nonostante questo, una corrente piuttosto consistente sta abbandonando le posizioni della maggioranza. Uno tra gli ultimi ad averlo fatto è l'editorialista conservatore George F. Will, che il 13 novembre ha scritto che sarebbe un bene che le posizioni eterodosse riemergessero, all'interno del dibattito repubblicano sulla politica estera.
Gli ameriKKKani in generale, ed i repubblicani in modo particolare, stanno guardando al mondo con occhi nuovi. L'ultimo libro di Henry Kissinger, World Order, identifica con abilità la condizione mentale di bipolarismo che contraddistingue l'AmeriKKKa in materia di politica estera; una condizione ineliminabile e congenita. "La convinzione che i principi ameriKKKani abbiano validità universale", afferma Kissinger, "ha introdotto un elemento di sfida all'interno del sistema internazionale perché implica il fatto che i governi che non mettono in pratica gli stessi principi abbiano una legittimazione incompleta". Questo "fa pensare che una considerevole parte del mondo viva in qualche modo in condizioni poco soddisfacenti e provvisorie, dalle quali sarà un giorno liberata; fino a quando questo non succederà, le loro relazioni con la maggiore potenza mondiale devono per forza comprendere un qualche elemento che è ad essa latentemente avverso."
Questa visione utopistica descritta da Kissinger sta perdendo consensi, secondo Wills:
Gli ultimi undici anni sono stati fitti di dure lezioni. L'invasione dell'Iraq nel 2003 è stata la peggior decisione in politica estera in tutta la storia degli Stati Uniti ed è giunta in concomitanza con lo stagnare della missione in Afghanistan (la costruzione di un sistema-nazione). Entrambe le cose hanno rafforzato quella che possiamo chiamare la fazione dei repubblicani alla John Quincy Adams: l'AmeriKKKa "non va altrove per cercare mostri da distruggere. L'AmeriKKKa è benevolente tutrice della libertà e dell'indipendenza di tutti. Essa è campione e vendicatrice solo di se stessa".
John Quincy Adams fu quinto presidente degli Stati Uniti. Il fatto che Wills lo citi viene da un saggio di politica estera scritto da Angelo Codevilla, il cui ultimo libro To Make and Keep Peace è stato da me recensito alcuni mesi fa su Claremont Review of Books. Ora, una nuova generazione di repubblicani si sta contendendo la guida del partito: basti pensare a Ted Cruz e a Scott Walker. E' una generazione che non porta il peso di alcuna complicità nei disastri in politica estera commessi ai tempi di Bush.
Nel corso degli ultimi dieci anni il partito repubblicano ha portato il peso dei peccati dell'amministrazione Bush come se fosse la catena che il fantasma di Marley è costretto a portare nel Racconto di Natale di Charles Dickens. George Willis scrive che "la politica estera statunitense può ripartire con nuove basi". Bolger ha contribuito in modo importante al dibattito, e merita una lettura attenta da parte di tutti coloro che vogliono capire in che modo l'AmeriKKKa intende muoversi nella attuale confusione.
Bolger ha ricevuto anche delle critiche; i suoi critici farebbero meglio a dotarsi di senso dell'ironia, la stessa ironia che Bolger ha fatto propria e che viene dalle avventure picaresche ambientate ai tempi della Guerra dei Trent'Anni che Hans Christoffel von Grimmelshausen ha descritto nel suo L'avventuroso Simplicissimus.


Why We Lost: A General's Inside Account of the Iraq and Afghanistan Wars, Daniel P Bolger. Houghton Miflin Harcourt (Novembre 2014). ISBN-10: 0544370481. 544 pagine.

David P Goldman è Senior Fellow al London Center for Policy Research ed Associate Fellow al Middle East Forum. Il suo libro How Civilizations Die (and why Islam is Dying, Too) è uscito per Regnery Press nel settembre del 2011. Un volume di saggi su argomenti culturali, religiosi ed economici intitolato It's Not the End of the World - It's Just the End of You, è stato pubblicato da Van Praag Press.