Traduzione da Conflicts Forum.

Non sappiamo se Repubblica Islamica dell'Iran e "cinque più uno" arriveranno ad un accordo: questo tipo di negoziati rischia sempre di saltare anche all'ultimo minuto. Non sappiamo nemmeno quali potranno essere i termini dell'accordo, se mai ci si arriverà. Quello che filtra fa pensare che il primo obiettivo degli Stati Uniti -e cosa fondamentale per lo stato sionista e per il Congresso statunitense- sia che la cosiddetta "capacità di break out", il tempo necessario ad accumulare materiale sufficiente alla costruzione di un'arma, rimanga superiore ad un anno; questo stesso prerequisito, a sua volta, è responsabile di molte altre variabili che sono il tipo ed il numero delle centrifughe ammissibili, l'imposizione di un tetto alla quantità ammessa di uranio a basso arricchimento, limiti alla percentuale più alta di arricchimento, l'eliminazione di tutte le scorte di uranio che superino questi limiti, ed un sistema per la verifica di tutto questo. Inoltre, l'amministrazione statunitense ha anche, come seconda priorità, l'obiettivo di congelare la capacità di break out iraniana per dieci o più anni, sperando che dopo che l'attuale classe politica iraniana avrà abbandonato la scena l'Iran possa nuovamente essere attratto nella sfera occidentale. Di fatto il Presidente Obama ha presentato questo congelamento decennale della capacità di break out come se si trattasse di un ultimatum, nell'intevista pubblicata alla vigilia del discorso di Netanyahu al Congresso.
La questione del break out deriva da un aspetto tecnico al centro dei negoziati, anche se ve ne sono altri oltre a questo; se su questo punto si raggiunge un qualche accordo, è possibile che esso possa fare da base per un documento in cui inquadrare ulteriori negoziati inerenti un campo più propriamente politico. E proprio il campo politico si presenta spinoso, perché in esso le distanze restano grandi: quanto a lungo deve durare questo congelamento? Quando e come verranno tolte le sanzioni? E soprattutto, quale sarà il significato di un simile gesto? In cosa consisterà davvero la "normalizzazione" delle relazioni tra Iran e Stati Uniti? In altre parole, arrivare senza problemi in fondo al periodo di verifica permetterà di dire che il contenzioso tra i due paesi è arrivato alla fine? O forse si continueranno a sollevare altre questioni, magari quella dei diritti umani, e a bloccare l'accettazione da parte dell'Occidente dell'Iran come potenza regionale di primaria importanza?
Perché in AmeriKKKa si teme tanto un esito tanto ambiguo ed irrisolto? E i negoziati come sono impostati oggi, davvero raggiungerebbero gli obiettivi desiderati? Quale potrebbe essere il loro impatto sull'orientamento geopolitico dell'Iran? Potrebbero alla fine portare una nuova generazione di iraniani a guardare verso Occidente?
Fondamentalmente, il punto di partenza essenziale per capire il desiderio di arrivare a segnare qualche punto di vantaggio contro l'Iran si trova nei fallimenti politici e militari dell'AmeriKKKa in Medio Oriente (Afghanistan, Iraq, Libia e Siria). In tutti questi casi gli Stati Uniti non sono riusciti a far sì che le loro indubitabili capacità militari diventassero conquiste politiche consolidate: anzi, l'uso della forza militare ha portato ad esiti politici opposti a quelli voluti. Comprensibilmente, a Washington non c'è molta voglia di ricorrere alla propria decisiva potenza militare per arrivare ad un altro risultato del genere, in special modo per quanto riguarda l'Iran. Detto altrimenti, in AmeriKKKa non si crede più che un intervento militare di forza permetta di arrivare a risultati politici: di qui la guerra fatta sotto copertura, con i droni, a livello telematico e geofinanziario. Si pensa che il ricorso a questi metodi possa permettere all'AmeriKKKa di arrivare almeno a qualche risultato politico, che è venuto invece a mancare sul campo dell'intervento militare di tipo classico.
Nel caso dell'Iran, la situazione è più complicata. Non esiste alcuna garanzia che un'azione militare risoluta da parte degli Stati Uniti (che escluda giusto l'utilizzo delle armi atomiche) contro il programma nucleare iraniano si rivelerebbe un successo militare -i siti sono molti, fortificati e sotterranei- e meno che mai che porterebbe a risultati politici soddisfacenti. La distruzione del programma nucleare iraniano potrebbe di fatto rivelarsi al di là delle capacità militari ameriKKKane, ed anche al di là della stessa volontà politica. Per dirla con Rumsfeld, "il noto sconosciuto" è questo. Questo dato di fatto -e la maggioranza degli alti gradi dell'apparato di sicurezza sionista è d'accordo su un'azione militare limitata- lascia sostanzialmente all'AmeriKKKa una sola realistica possibilità, che è quella di cercare di arrivare, con l'Iran, ad un accordo che preveda delle limitazioni. Vista la condizione politica in cui si trovano gli Stati Uniti, non esistono davvero altre alternative. I toni frustrati che cogliamo nelle comunicazioni che l'amministrazione ha indirizzato ad un Netanyahu insofferente della strategia del dialogo sono dovuti a questo; è come se Obama dicesse sarcastico a Netanyahu "allora, hai qualcosa di meglio da suggerirci? Non sei di nessun aiuto". Sullo Washington Post Fardiz Zakariya ha scritto che "Netanyahu si trova letteralmente nel paese delle meraviglie: ha ritratto uno scenario che non ha alcun rapporto con la realtà".
Sicuramente la narrativa rimane quella che vede nelle sanzioni il fattore essenziale che ha spinto l'Iran al tavolo del negoziato: e le sanzioni possono anche essere inasprite. Ma è vero che sono state le sanzioni a indurre l'Iran a negoziare? A portare l'Iran ai negoziati è stato un sentimento condiviso da una fazione ramificata e relativamente rivolta all'Occidente che vede nello stile relazionale e nella battagliera diplomazia dell'Iran un qualcosa che più di ogni altra rafforzava le sanzioni. Questa corrente, sostenuta dal Presidente Rohani, pensava che cambiando lo stile e la sostanza della diplomazia si potesse arrivare ad un accordo, e di questo è riuscita a convincere l'elettorato. In effetti ha peccato di troppo ottimismo: il fatto di "non essere Ahmadinejad" non è stato di per sé sufficiente a far sì che la politica occidentale cambiasse.
Arrivare ad un accordo con l'Iran sarebbe importante per l'AmeriKKKa anche per un altro motivo: aiuterebbe l'amministrazione ad uscire dal ginepraio rappresentato dalla gestione di un Medio Oriente che non sta più insieme. Il mondo è cambiato sempre più velocemente davanti ad un'AmeriKKKa che non intende impelagarsi oltre nei complessi e ramificati conflitti mediorientali, né osa abbandonare del tutto la regione.
L'AmeriKKKa è dunque in cerca di una posizione nuova e meno ambiziosa: sta cercando una soluzione basata sul bilanciamento dei poteri, una soluzione che sa di diciannovesimo secolo, che magari le permetta di cogliere l'esito di conflitti limitati e congelati sul nascere ma senza azzardare nulla di più. Questi conflitti limitati sono considerati come potenziali strumenti che possano aiutare il raggiungimento di questo equilibrio; possono essere usati per far pendere da una parte o dall'altra in modo corrispondente agli interessi ameriKKKani l'equilibrio tra le quattro potenze della regione, che sono lo stato sionista, l'Arabia Saudita, la Turchia e l'Iran. L'AmeriKKKa sta facendo il vecchio gioco imperiale del divide et impera, ed in questa macchina di bilancieri e controbilancieri l'Iran è un ingranaggio essenziale. Il fatto che lo stato sionista lamenti la perdita del proprio ruolo di alleato privilegiato, dunque, non desta meraviglia. Nel coro dei poteri lo stato sionista è stato declassato al rango di voce tra le altre.
Nel caso gli Stati Uniti raggiungessero i loro obiettivi nell'àmbito di un accordo quadro, la cosa trapelerebbe? Nei fatti l'inconfondibile atteggiamento con cui l'AmeriKKKa si approssima ai colloqui può paradossalmente portare l'Iran a rivolgersi ad est piuttosto che ad ovest. Se le sanzioni non verranno tolte, ma solo sospese ogni sei mesi per decreto per un periodo di vari anni, nessun grosso investitore occidentale nel campo dell'energia cercherà di impegnarsi a lungo termine in Iran a fronte di un orizzonte temporale breve e rinnovato di sei mesi in sei mesi, che rappresenta di fatto una spada di Damocle rinnovata ogni volta e destinata a durare per più di dieci anni. A conferma di tutto ciò si nota che i cinesi, che si erano temporaneamente ritirati facendo pensare che vi fosse spazio per un discusso ritorno degli europei, hanno ricominciato a frequentare l'Iran in gran numero. Un congelamento decennale da parte dell'Occidente finirà quasi certamente per fissare l'Iran, nuove generazioni comprese, nel suo orientamento euroasiatico, sia dal punto economico che dal punto di vista culturale.
Ci sono ancora più dubbi su tutta l'idea che il Medio Oriente così com'è oggi possa essere controllato basandosi sul bilanciamento dei poteri, come se fosse un cubo di Rubik. Nell'Europa del diciannovesimo secolo il concetto ha funzionato in parte perché vi esistevano stati nazionali ben definiti, e perché vi erano una certa stabilità, una visione del mondo relativamente condivisa e anche un certo grado di consenso sulle regole del gioco. Nel Medio Oriente di oggi non esiste nulla di tutto questo. Nessuna delle quattro potenze principali tributa particolare rispetto agli Stati Uniti, nessuna è particolarmente disposta a fare il gioco degli interessi occidentali, ed alcuni tra i principali attori sulla scena non sono neppure degli stati nazionali. Soprattutto non esiste alcuna stabilità: anzi, si assiste al suo continuo erodersi, ovunque. In che modo un approccio basato sul bilanciamento dei poteri potrebbe aiutare a risolvere la situazione in Libia, per esempio?
Che altro potrebbe fare l'AmeriKKKa? La domanda, forse, non ha risposta. E' più probabile che saranno gli stati della regione a cercare di raggiungere una situazione di equilibrio per proprio conto, senza alcun riguardo per i progetti degli Stati Uniti.
E l'Iran, quali possibilità ha? E' o non è tagliato fuori dal sistema finanziario globale occidentale, escluso dalla cosiddetta comunità internzionale e colpito dalle sanzioni? In realtà l'Iran non è così isolato, anzi. Russia e Cina non chiedono di meglio che di stabilire relazioni strategiche con l'Iran, e la gran parte del mondo non occidentale è disposto a stabilire relazioni politiche e commerciali più strette. La situazione strategica dell'Iran in Medio Oriente è consolidata e si sta rafforzando in Iraq, in Siria e nello Yemen. SUl fronte interno in Iran la società si presenta più coesa, dopo i disordini del 2009. L'Iran ha presentato domanda per entrare nell'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione e potrebbe esservi ammesso a partire dalla prossima estate.
Le sanzioni e il crollo nel prezzo del petrolio hanno sicuramente avuto i loro effetti, ma le esportazioni di beni petroliferi e non hanno continuato a crescere bene. Ancora più significativo è il fatto che i mutamenti sul piano geoeconomico stanno cambiando anche i calcoli iraniani: la Cina ha proposto un corridoio economico euroasiatico che passa dalla Turchia e che ha offerto al Medio Oriente un polo di attività economica alternativo a quello europeo. I percorsi e le opportunità commerciali stanno subendo mutamenti sostanziali a causa della volontà russo-cinese di realizzare un sistema finanziario, commerciale e di transazioni alternativo a quello basato sul dollaro.
L'Iran ha già abbandonato il dollaro come moneta commerciale. Il sistema economico non basato sul dollaro si espande, perché è già stato lanciato un sistema di transazioni finanziarie SWIFT alternativo che prevede scambi tra banche centrali in valute che non sono il dollaro ed anche un ipotetico sistema bancario "a giurisdizione non-dollaro" attualmente in fase di messa a punto a cura di Cina e Russia. Gli iraniani adesso possono cercare un'alternativa con più calma, e cominciano ad essere stanchi di rimanere attaccati all'eterno dilemma sull'abolizione o meno delle sanzioni.
L'Iran, dunque, un'alternativa pensa di averla. Ma l'Iran potrebbe anche acconsentire ad un accordo di tipo politico, ad un accordo che non risolve il conflitto in corso con gli Stati Uniti. Per quale motivo? Perché l'Iran sa bene che almeno per adesso gli Stati Uniti non stanno cercando di inasprire i toni, tutt'altro. L'AmeriKKKa ha bisogno dell'Iran per uscire più agevolmente dall'Afghanistan, ha bisogno dell'iniziativa parallela che l'Iran sta conducendo per contenere o per sconfiggere lo Stato Islamico, ha bisogno dell'Iran per trovare una soluzione in Siria, in Libia e nello Yemen. In altre parole, l'AmeriKKKa avrà bisogno dell'aiuto discreto dell'Iran in molti campi, e questo comporta la conferma, sia pure indiretta, del suo status di potenza regionale. Sul campo stanno accadendo cose che già mostrano che in Medio Oriente vige un nuovo equilibrio dei poteri sul terreno; un accordo politico rifletterebbe in qualche misura questo cambiamento, e forse farebbe scendere la tensione con l'AmeriKKKa anche se la situazione delle sanzioni rimane in gran parte la stessa.
Se in AmeriKKKa si prende un'altra strada perché la campagna per le elezioni presidenziali promette di rispolverare la retorica dell'interventismo, o se il Congresso inasprisce le sanzioni, l'Iran riprenderà probabilmente il suo programma di arricchimento, e ricomincerà ad arricchire uranio al venti per cento.