Traduzione da Conflicts Forum

Insomma, arriva un po' di luce su quello che hanno in mente a Washington e a Mosca. Già da qualche tempo, a cominciare dalla visita del signor Kerry a Soci, è chiaro che i rapporti diplomatici tra USA e Russia hanno smesso di andare al ribasso e che hanno invece registrato un'impennata, almeno per la frequenza delle loro relazioni, che in gran parte avrebbero avuto nella Siria il loro argomento centrale. A non essere molto chiara, ancora, era la sostanza di tutto questo tramestìo.
Un po' di tessere del mosaico stanno finalmente andando a posto e il quadro generale pare essere quello di una iniziativa di ampio respiro per ridefinire tutto il panorama della sicurezza mediorientale, con particolare riguardo alla situazione della Turchia e dell'Arabia Saudita, in considerazione dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante. Se tutto va bene, il Presidente Obama potrà finalmente dire di avere una politica credibile per sconfiggere lo Stato Islamico e magari anche per gettare le basi di una ricomposizione regionale del conflitto siriano. Per Putin sarebbe invece l'occasione buona per reimpostare le relazioni con Washington, dato l'aiuto fornito dai russi per il raggiungimento dell'accordo sul nucleare iraniano, su canali propriamente diplomatici anziché su quelli di una crescente militarizzazione (Ucraina).
Quello che non è chiaro è se l'apparente virata di centoottanta gradi che Erdogan ha compiuto nei confronti dello Stato Islamico (sotto forti pressioni statunitensi) è qualche cosa di autentico o se egli non stia coprendo le sue vere intenzioni dietro la cortina fumogena di una ridefinzione dei rapporti con lo Stato Islamico fatta per metter buono l'Occidente. Erdogan sta contemporaneamente cancellando il processo di pace con il PKK, attaccandone ed arrestandone i sostenitori in Turchia e bombardando i suoi collaterali dello YPG in Siria ed in Iraq: si direbbe che il suo vero obiettivo sia quello di polarizzare la politica interna del suo paese incendiando il nazionalismo turco, in contrapposizione al PKK ed anche allo Stato Islamico, soprattutto dopo che un attacco suicida ha ucciso trentun giovani attivisti turchi. Il governo ne ha attribuito la responsabilità allo Stato Islamico, e questo ha causato una levata di scudi presso certi settori dell'opinione pubblica.
E' ragionevole sospettare che Erdogan stia cercando di usare il montante fervore nazionalista per dragare consensi a favore del suo AKP e per ottenere una netta maggioranza alle elezioni anticipate. Secondo la costituzione turca se il governo ad interim non riesce a formare una coalizione entro un determinato limite di tempo, si convoca una nuova consultazione parlamentare. Se la nuova tornata elettorale porterà l'AKP ad una netta maggioranza sui rivali è materia dibattuta: di sicuro c'è il fatto che il presidente del partito MHP e il vicepresidente dello AKP chiedono che allo HDP venga impedito di partecipare. Lo HDP è un partito curdo che alle passate consultazioni politiche ha ottenuto il dodici per cento dei voti. Si chiede che venga messo al bando perché avrebbe affermato che due poliziotti uccisi dal PKK nel sud est del paese avrebbero svolto attività in favore dello Stato Islamico.  
Un'altra cosa da chiarire è se questo riposizionamento generale salverà in ultima analisi il re saudita Mohammed bin Salman dal suo continuo scendere sul sentiero di guerra: a tutt'oggi si è imbarcato in quattro conflitti per affermare la predominanza dell'Arabia Saudita sul mondo sunnita, e con un fallimento si giocherebbe l'avvenire politico, suo e di tutta la famiglia reale.
Innanzitutto ecco un po' di retroscena e di contestualizzazione. Abbiamo già detto che la caduta di Tal Abayad ha consentito ai curdi siriani dello YPG di controllare una fascia di territorio che va da quella cittadina (una borgata alla frontiera con la Turchia, in precedenza in mano allo Stato Islamico) fino agli estremi confini orientali del paese, dove inizia il Kurdistan iracheno. Se i curdi riuscissero a conquistare il centinaio di chilometri che li separano dal "cantone" curdo che si trova a nord ovest della Siria, l'intera zona a nord del paese sarebbe controllata da forze ostili allo Stato islamico. In prospettiva, questo taglierebbe le linee di rifornimento che dalla Turchia raggiungono sia al Qaeda (an Nusra) che lo Stato Islamico. Inoltre -e soprattutto- una simile estensione di territorio potrebbe essere considerata come una nuova "zona autonoma" curda che sarebbe parzialmente contigua alle aree curde sotto sovranità turca. A suo tempo abbiamo avanzato l'ipotesi che al solo pensiero di una "zona autonoma" del genere Erdogan sarebbe uscito di testa.
La nuova zona a divieto di sorvolo lunga novanta chilometri e larga quaranta lungo la frontiera siriana serve solo a questo. Istituita col pretesto di creare un'area libera dallo Stato Islamico, in realtà serve solo a far sì che la Turchia impedisca allo YPG di realizzare un corridoio senza soluzione di continuità che va dall'oriente siriano al confine con le aree curde in Iraq fino, in prospettiva, al Mediterraneo. E' chiaro che gli aerei e l'artiglieria turchi stanno bersagliando lo YPG più che lo Stato Islamico; d'altro canto la "repressione dello Stato Islamico in Turchia" che ha portato a cinquecentonovantatré arresti tra i quali si contano solo trentadue possibili sostenitori dello Stato Islamico è diretta più che altro contro il PKK.  
Per quale motivo Washington ha acconsentito a questa no fly zone, dopo esservisi nettamente opposta per tanto tempo? Innanzitutto perché la Turchia è stata obbligata a concedere agli statunitensi l'uso della base aerea di Incirlik nel sud del paese: da tempo il Pentagono ambiva di avervi accesso per poterla usare nelle sortite contro lo Stato Islamico in Iraq ed in Siria. La ragione vera però, almeno ufficialmente, è che la Turchia doveva passare all'offensiva contro lo Stato Islamico nella zona interdetta al sorvolo.  Alla base di tutto questo ci sono gli eventi dello scorso maggio: le forze speciali statunitensi compirono un'incursione contro il cosiddetto "ministro del petrolio", quello Abu Sayyaf che controllava il contrabbando di greggio per conto dello Stato Islamico. "Un esperto funzionario occidentale in buoni rapporti con il personale dei servizi che affollava la residenza del leader ucciso ha detto che era innegabile l'esistenza di contatti diretti tra funzionari turchi e quadri dello Stato Islamico". Allo Observer quel funzionario riferì che erano state trovate "centinaia di penne flash e di documenti". "Adesso le stiamo analizzando, ma i legami sono già così evidenti che la cosa potrebbe finire per avere profonde implicazioni sul piano politico nei rapporti tra noi ed Ankara".
In poche parole, gli USA avrebbero trovato la "pistola fumante" dei saldi legami che legano Ankara allo Stato Islamico e della cui esistenza si sospettava da tempo. Una nutrita delegazione di funzionari statunitensi si è recata ad Ankara il sette luglio, e ha detto a Erdogan che altre scelte non ce n'erano: era stato beccato, e ora doveva darsi da fare contro lo Stato Islamico.
A mettersi sul serio contro lo Stato Islamico Erdogan si prenderebbe un grosso rischio perché oggi come oggi la Turchia ha con lo Stato Islamico lo stesso tipo di rapporti che negli anni Ottanta il Pakistan aveva con il radicalismo sunnita. In Pakistan gli estremisti esercitarono tali pressioni che il paese, da allora, non è più uscito da una situazione di cronica instabilità. Erdogan si metterà davvero contro lo Stato Islamico? O forse si limiterà a mostrare i muscoli intanto che cerca di fare il doppio gioco mantenendo i legami con lo Stato Islamico e allo stesso tempo cercando di convincerlo -per evitarne le possibili ritorsioni- che si trova in condizioni da dover per forza esercitare una specie di repressione di facciata?
Anche Mohammed bin Salman si trova davanti a scelte non facili. E' chiaro che gli serve qualcosa cui aggrapparsi per uscire dal ginepraio yemenita in cui è rimasto impelagato: gli serve anche l'aiuto di Mosca, che ha validi contatti con tutte le parti in causa nello Yemen. In realtà, se possibile, bin Salman si trova in una situazione anche peggiore: cercando di mostrare le capacità di leadership della nuova generazione e di atteggiarsi a uomo d'azione ha di fatto permesso ai suoi gregari di definire esattamente come un jihad il conflitto con l'Iran e con i suoi alleati ed ha iniziato una politica di condiscendenza verso il clero wahabita più conservatore, sperando magari che esso insisterà sul concetto di quella obbedienza civile che è dovuta alla "legittima autorità". Il fatto è che invocando una guerra di religione contro l'Iran e contro i suoi "fiancheggiatori" egli rischia di aprire il vaso di Pandora del radicalismo wahabita anche sul fronte interno, e non solo all'estero.
Opporsi a parole allo Stato Islamico potrebbe essere una soluzione, intanto che in concreto si combatte da alleati con al Qaeda nello Yemen, ed altrove con altre compagini dell'Islam sunnita. In pratica il re potrebbe buttare sul tavolo la carta dello Stato Islamico e tenere le altre carte sunnite che si ritrova in mano, e che sono Al Qaeda e gli altri movimenti vicini ai Fratelli Musulmani adducendo a pretesto il fatto che Al Qaeda e le sue filiazioni sarebbero diventate dei movimenti "nazionalisti" che oggi come oggi non rappresentano dei gravi pericoli per l'Occidente. Ma il problema arriva a questo punto: invocando uno jihad wahabita contro l'Iran il re pone le basi per quella sinergia su base religiosa che può ampliare il sostegno di cui lo Stato Islamico gode all'interno del regno saudita: lo Stato Islamico e lo wahabismo saudita cui si è infusa nuova energia sono fatti della stessa sostanza.
Putin sta cercando di cavare sangue da rape del genere. Gli USA gli hanno di sicuro fatto sapere di aver trovato la pistola fumante che dimostra la collusione della Turchia con lo Stato Islamico e magari gli hanno anche comunicato il loro sgomento a fronte della gravità della cosa. Putin avrà anche saputo della decisione degli USA di costringere Erdogan a troncare ogni complicità con lo Stato Islamico. Probabile che Putin abbia saputo direttamente da Mohammed bin Salman che lo Stato Islamico viene considerato una vera minaccia per la casa dei Saud.
Sembra che Putin abbia davvero intravisto, assieme agli Stati Uniti, l'occasione per ridefinire da capo gli equilibri del mondo sunnita (Turchia, Arabia Saudita, Giordania) per farlo diventare una forza più efficace contro lo Stato Islamico. Mosca sta cercando di riplasmare l'islam sunnita come forza di opposizione allo Stato Islamico: un impegno politico sicuramente molto pesante per la Russia. Se si potessero tagliare le vie di rifornimento con la Turchia e chiudere i rubinetti del finanziamento saudita, lo Stato Islamico si indebolirebbe e forse potrebbero emergerne le condizioni per un accordo onnicomprensivo in Siria.
Le nostre sono tutte ipotesi, ma, come riferisce il quotidiano libanese As Safir, qualcosa si sta muovendo. Il Ministro degli Esteri siriano è stato invitato a Mosca per presenziare all'annuncio di una nuova rete internazionale per la sicurezza, e pochi giorni dopo il governo siriano si è detto interessato a parteciparvi. I delegati della nuova coalizione hanno già iniziato a tenere i loro incontri a Mosca. Per adesso l'Iran non è compreso in questa operazione di riconfigurazione del mondo sunnita, ma l'altro pilastro della lotta contro lo Stato Islamico, composto da Iran, milizie irachene, Hezbollah e gli Houti, sta già agendo in stretto coordinamento con Mosca.
Fin qui tutto bene, ma pare che l'abbandono dei curdi alla merce' della Turchia da parte di Washington sia compreso tra i costi di questa nuova coalizione. Nella prima settimana di agosto l'aeronautica turca ha compiuto centocinquantanove sortite contro quattrocento bersagli del PKK in Iraq, senza che a Washington si facesse una piega davanti a quella che è l'incoercibile affermazione del "diritto" di Ankara di attaccare il PKK. Possiamo anche ricordare che gli attacchi aerei verso cui si è tanto indulgenti vengono sferrati contro le stesse forze che si sono rivelate le più efficaci nella lotta allo Stato Islamico in Iraq, e che sono alleate dello stesso YPG con cui gli Stati Uniti agiscono in stretto coordinamento.
Gli Stati Uniti hanno operato di concerto con i curdi siriani dello YPG sin dai tempi dell'assedio di Kobane da parte dello Stato Islamico. Sicuramente il Pentagono ha appprovato l'interruzione delle linee di approvvigionamento dello Stato Islamico praticata dallo YPG e si è prestato all'operazione. Solo che forse in materia di intervento statunitense i curdi siriani fanno un calcolo politico opposto rispetto al PKK iracheno. In risposta ai bombardamenti e ai cannoneggiamenti turchi il leader dei curdi siriani si è formalmente offerto di riconciliarsi con il governo siriano: in pratica, i curdi siriani non hanno mai davvero voltato le spalle ad Assad. A Washington la cosa potrebbe anche andare abbastanza a genio perché se i curdi siriani cessassero del tutto di sostenere l'esercito siriano la cosa potrebbe comportare un significativo mutamento degli equilibri in Siria.
In complesso si tratta di questioni politiche complesse, in cui molte cose possono andare a catafascio in qualsiasi momento. La Turchia e l'Arabia Saudita azzereranno davvero la loro politica? Occorre osservare con molta attenzione le azioni concrete di Erdogan. Già il Pakistan ha tentato di fare il doppio gioco con gli Stati Uniti e con i mujaheddin: solo che questi ultimi sono riusciti ad usare il governo pakistano almeno quanto il Pakistan era riuscito ad usare loro. Non c'è dubbio che sia i russi che gli ameriKKKani si dimostreranno attenti osservatori.