Joshua Landis intervistato da John Judis per TalkingPointsMemo.com. Intervista pubblicata il 10 gennaio 2017.
 
Joshua Landis presiede il Centro Studi Mediorientali all'Università dello Oklahoma e scrive per l'autorevole blog Syria Comment. Probabilmente è il più importante esperto statunitense di questioni siriane. E' stato spesso nel giusto nel prevedere gli eventi degli ultimi cinque anni. Mentre la maggior parte di quanti dettavano la linea politica di Washington prevedevano la caduta del Presidente siriano Bashar al Assad, Landis affermava che sarebbe rimasto al potere. Liberali e conservatori invocavano un intervento militare in Siria per cacciare Assad, e Landis invece raccomandava prudenza. In questa intervista esprime delle valutazioni sulla politica dell'amministrazione Obama in Siria e sulle prospettive della nuova amministrazione Trump in un momento in cui la Russia e l'Iran consolidano la propria presa sul quadrante settentrionale del Medio Oriente. A mio modo di vedere si tratta della più chiara e più completa analisi sui motivi che hanno condotto la politica statunitense in Siria al fallimento e su quello che gli Stati Uniti dovrebbero fare adesso (John Judis).
 
Judis: Che giudizio dà dell'intervento dell'amministrazione Obama in Siria? Com'è andato? Si è trattato di un successo o di un fallimento?
Landis: Io penso che sotto un aspetto importante si sia trattato di un successo. Obama è riuscito a reggere il freno e resistere a quello che ha definito il copione delle conventicole della politica estera di Washington, che è quello di farsi risucchiare dalle guerre civili della regione. Gli Stati Uniti non potevano in nessun modo risolvere il problema siriano con risultati costruttivi, e il fatto che sia stato possibile lasciarli fuori nella misura in cui ci è riuscito Obama è di per sé un ottimo risultato.
Tutti volevano che fossimo noi a risolvere i problemi che avevano con la Siria, che si trattasse del Libano, dello stato sionista, della Turchia o dell'irata, perché non avevano idea di come fare a risolverlo di propria iniziativa. L'Arabia Saudita e i paesi del Golfo avevano tutti un'idea propria di chi avremmo dovuto aiutare e di come sarebbe dovuta essere la Siria così come sarebbe uscita dall'altro lato del tritacarne. Se anche gli Stati Uniti vi si fossero infilati non è che ne sarebbe venuta fuori una macinata migliore. Abbiamo visto che rovesciarne il governo non si è rivelata una buona idea.
 
Obama invoca il rovesciamento del governo
J.: Ma Obama in effetti è intervenuto. Nel 2011 invitò il presidente siriano Bashar al Assad a fare un passo indietro. Il fatto di aver rilasciato una simile affermazione impegnava gli Stati Uniti a muoversi in qualche modo?
L.: Sì, ed è stato un errore. La dichiarazione di Obama secondo cui Bashar al Assad doveva farsi da parte era una aspirazione generica. Obama non ha mai inteso impegnare l'America affinché si arrivasse a tanto. È facile capire perché l'abbia detto; tutto il mondo aveva gli occhi puntati sull'America durante i primi giorni della primavera araba per vedere come si sarebbe comportata politicamente. L'America non sapeva quale significato attribuire alla primavera araba. Sia i mass media che i mezzibusti occidentali sia gli attivisti arabi del Medio Oriente avevano convinto il mondo occidentale che la primavera araba era una lotta per la democrazia. Andavano dicendo che era come il 1848, che era come 1968 a Parigi[1], che era come la caduta del comunismo nel 1990. Potremmo andare a lungo avanti con le metafore. I giornalisti si attaccavano ad ogni metafora e ad ogni episodio paragonabile nella storia occidentale per dimostrare che il popolo arabo si stava finalmente sollevando contro i cattivi governanti chiedendo democrazia e chiedendo di essere più simile all'Occidente. Nel suo interessante testo del 1991 intitolato La terza ondata Samuel Huntington sosteneva che il mondo moderno ha conosciuto tre momenti di liberalizzazione e di democratizzazione. Gli osservatori occidentali e i liberali arabi speravano allo stesso modo che la sollevazione, dal loro considerata una primavera, confermasse le loro aspettative e annunciasse una quarta ondata. L'unico problema è che le sollevazioni nei paesi arabi non tendevano in prima istanza alla democrazia e neppure al liberalismo. Da richiesta di democrazia non aveva un ruolo centrale nelle richieste invocate dagli slogan dei manifestanti. Dignità, in arabo qarama e libertà, o hurriya, erano le consegne fondamentali usate dalla Tunisia fino alla Siria; così c'erano slogan del tipo "abbasso il governo" o "Bashar vattene". I manifestanti concordavano all'unanimità nel fatto che volevano sbarazzarsi dei dittatori oppressivi e corrotti che li governavano. Il bello di queste richieste generiche era che gli islamici, che volevano il califfato o la legge sacra, potevano appropriarsene con la stessa prontezza dei liberali che condividevano i valori occidentali.
J.: ricordo il discorso di Obama al Dipartimento di Stato nel maggio del 2011, quando esaltò la primavera araba e disse: "la politica degli Stati Uniti... Sarà quella di sostenere i processi di transizione verso la democrazia".
L.: [L'amministrazione Obama] Prese per buona l'idea che avrebbe dovuto impegnarsi nel rovesciamento dei governi per aiutare questi movimenti democratici ad avere successo. Il problema è che non si trattava di un movimento per la democrazia. Era un movimento per il cambiamento. La gente invocava dignità, ma si trattava di un moto molto disorganizzato e caotico. Il guaio è che nei paesi arabi una volta che si distrugge la fragilissima struttura statale messa in piedi dopo la prima guerra mondiale e dopo lo smantellamento dell'impero ottomano non è che salta fuori una versione locale del George Washington che tiene insieme le tredici colonie. Saltano fuori la frammentazione e un mucchio di signori della guerra e di emiri. Il nazionalismo non fornisce un'identità abbastanza forte da tenere insieme il popolo della Libia dello Yemen della Siria o dell'Iraq. Se è per questo non va bene neppure per il popolo della Palestina. Si sono affermati invece in mezzo alla popolazione di ciascun paese identità di livello inferiore e superiore a quello nazionale che hanno indebolito il sentimento nazionale comune. La lealtà verso il clan, verso il villaggio, verso la regione, verso il gruppo tribale e verso la religione hanno tormentato le sollevazioni nei paesi arabi. Ecco per quale motivo il movimento di opposizione in Libia o in Siria si è tanto frammentato. Ecco perché in Siria si sono formate migliaia di milizie. Gli Stati Uniti non avevano alcun potere per unificarle. Si tratta dello stesso fenomeno che l'AmeriKKKa ha dovuto affrontare in Iraq dopo aver distrutto il governo di Saddam. La stessa cosa successe in Libia. In Libia i politici occidentali pensavano che l'opposizione fosse sufficientemente unita da permetterci di far pendere la bilancia dalla loro parte. Sulla base di questo falso assunto abbiamo convinto noi il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a dichiarare che le forze di opposizione erano il legittimo governo del paese e a reindirizzare tutto il denaro che era appartenuto allo stato di Gheddafi verso l'opposizione libica. Ovviamente l'opposizione non era affatto unita. Eravamo noi che volevamo che lo fosse. Fu tutta propaganda. La stessa propaganda con cui abbiamo perso in Iraq con Ahmed Chalabi.
J.: Insomma, nella misura in cui considerava che il ruolo dell'AmeriKKKa in Medio Oriente fosse quello di promuovere la democrazia di rovesciamento dei governi, l'amministrazione Obama ha continuato a comportarsi come si era comportata quella di George W. Bush.
L.: La democrazia è la nostra regione nazionale. Quando ci troviamo davanti ad un dubbio ci rifacciamo ai punti fondamentali della nostra democrazia, e questo è quello che Obama ha fatto. È una questione di fede. Non aveva idea di cosa diavolo stesse succedendo in Siria. Mi invitarono a partecipare a un sacco di confabulazioni della CIA e di ottimistiche pianificazioni politiche nei primi mesi dell'insurrezione. Tutti quanti nei servizi pensavano che Assad sarebbe caduto rapidamente. Erano tutti fuori di testa. Ciascuno stava soltanto proiettando sull'insurrezione i propri interessi e le proprie teorie preferite. Era ovvio che le nostre aspettative avrebbero surclassato ogni analisi basata su dati concreti. Non potevamo contare su molti dati di fatto. La situazione stava evolvendo rapidamente. Ci trovavamo davanti al cambiamenti senza precedenti, così fu facile restare invischiati ad immaginare ogni sorta di trasformazione. Obama risentì anche della pressione di gruppi di interesse interni al paese e di paesi alleati del Medio Oriente affinché risolvesse subito la questione della caduta di Assad. In Egitto Obama era stato criticato per aver sostenuto Mubarak fino all'ultimo secondo; non voleva fare lo stesso errore in Siria, e non doveva farlo. A differenza dell'Egitto la Siria è sempre stata una spina nel fianco dell'AmeriKKKa ed è stata un nemico fin dai tempi in cui si è opposta alla decisione degli Stati Uniti di sostenere la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Per questo Washington ha sostenuto vari colpi di stato in Siria dopo il 1949. Quando due tentativi di colpo di stato uno di seguito all'altro fallirono nel 1956 nel 1957, Damasco si rivolse decisamente verso la sfera di influenza di Mosca, e non ha più cambiato orientamento. L'esercito siriano è per intero armato ed addestrato dalla Russia. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla Siria fin dagli anni Settanta. Da parte sua la Siria ha sempre sostenuto i nemici dell'AmeriKKKa: Hezbollah, i vari gruppi palestinesi, la Repubblica Islamica dell'Iran. Come se tutto questo non bastasse Assad si è attivamente opposto all'occupazione ameriKKKana dell'Iraq. Tutte ragioni per cui la pretesa di Obama di pretendere che Assad si facesse da parte era una bagatella.
Il problema era che nessuno a Washington aveva un'autentica comprensione dell'opposizione siriana non si poteva indicare un solo gruppo di opposizione che avesse un qualche sostegno all'interno del paese. C'erano un sacco di manifestazioni e molta gente che chiedeva con vigore che le cose cambiassero, ma Assad controllava ancora l'esercito, l'aeronautica e i servizi, i cui ranghi superiori erano zeppi di simpatizzanti che non lo avrebbero abbandonato. Assad ha a disposizione un sacco di risorse e da la determinazione necessaria a utilizzarle. C'erano molte ragioni per pensare che sarebbe sopravvissuto a lungo e per dubitare della convinzione occidentale che avesse perso legittimità. Tutti intendevano parlare del "popolo siriano" ma non esisteva un "popolo siriano" che parlasse con una sola voce. I siriani si dividono profondamente secondo criteri regionali, religiosi, etnici e di classe. Chiunque fosse vissuto in Siria per un po' di tempo sapeva bene che molti siriani avrebbero sostenuto Assad fino alla morte, specialmente se avessero avuto la sensazione che gli islamici potessero giungere al potere. Io avevo scritto vari articoli su l'opposizione siriana prima del 2011, ed ero arrivato alla conclusione che fosse divisa al di là di ogni speranza e minata da lotte intestine. Gli oppositori si odiavano l'un l'altro e non sarebbero mai arrivati ad un accordo per un'alternativa ad Assad. La classe liberale e filo occidentale in Siria era poco numerosa. Sarebbe finita rapidamente distrutta tra il martello dei gruppi islamisti e l'incudine dell'apparato di sicurezza di Assad.
 
Il Presidente Barack Obama mentre legge il discorso sul Medio Oriente
al Dipartimento di Stato a Washington, 19 maggio 2011 (AP photo, Charles Dharapack)
 
Sarebbe servito armare i gruppi ribelli?
J.: Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton stavano nutrendo delle illusioni quando fondarono, nell'agosto del 2011, il Consiglio Nazionale Siriano inteso come organo di transizione verso un nuovo governo in Siria?
L.: Sicuramente. La scommessa era quella di creare una opposizione siriana unita. Gli oppositori siriani ci stavano raccontando che la Siria non era comperata o come il Libano, che la mentalità commerciale dei siriani era fatta di compromessi e di moderazione e che anche l'Islam siriano era moderato, dominato dal sufismo e dagli oppositori all'ideologia salafita. L'estremismo non avrebbe avuto la meglio, assicuravano. La Siria non si sarebbe radicalizzata, né frammentata. Il presidente Obama prese per buoni i pii desideri sulla probabile caduta di Assad e il desiderio di sostenere la democrazia, i diritti umani dell'opposizione alle dittature, ma si oppose fermamente al coinvolgimento degli Stati Uniti in un'altra guerra civile regionale in cui non si intravedeva una chiara strategia di uscita. Iniziò a frenare su questo punto appena diventato chiaro che Assad non sarebbe caduto velocemente. Respinse ogni pretesa di un serio impegno economico da parte degli Stati Uniti. Abbiamo speso vari miliardi di dollari l'anno in Siria tra aiuti umanitari, armi non letali e sostegno militare all'opposizione, ma non abbiamo certo fatto come in Iraq, dove ogni settimana spendevamo cinque miliardi di dollari.
J.: Hillary Clinton afferma che se avessimo armato i cosiddetti ribelli moderati nel 2012 come volevano lei e David Petraeus i risultati sarebbero stati differenti.
L.: I ribelli siriani si stavano radicalizzando, non importava quanto sarebbero stati generosi gli ameriKKKani nell'inviare armi. L'idea che gli Stati Uniti avessero il potere di orientare l'opposizione siriana con il loro denaro è priva di fondamento. Molti attivisti e molti appartenenti ai think tank di Washington pensano che i radicali hanno avuto la meglio in Siria perché erano meglio finanziati delle milizie moderate; i paesi del Golfo hanno inviato denaro ai radicali al tempo stesso in cui gli Stati Uniti all'Europa tenevano i moderati a stecchetto. Non esiste nulla che lo provi. I radicali hanno ottenuto fondi perché vincevano. Combattevano meglio, avevano una migliore visione strategica ed erano più popolari. L'idea che se Washington avesse riversato miliardi di dollari su milizie moderate selezionate quelle avrebbero ucciso gli estremisti e distrutto il governo di Assad è un'idiozia.
J.: Vero, ancora lo scorso anno la Clinton affermava più o meno la stessa cosa.
L.: Un ragionamento che era un castello in aria. Non esiste niente che lo sostenga. Se consideriamo il Medio Oriente nella sua interezza, ogni volta che un governo è stato rovesciato, che fosse in Iraq, in Libia, nello Yemen o in Afghanistan, c'è stato un periodo di grazia lungo tre o sei mesi nel corso del quale l'intera società ha vissuto come sotto shock e si è quietata per vedere quali sarebbero state le conseguenze del rovesciamento del governo. Gli americani avrebbero pensato loro a sostituire per magia le istituzioni ed i servizi dello Stato? Quando poi si capisce che gli Stati Uniti sono impotenti e il disordine prevale, la gente comincia ad organizzarsi. Gli islamici spingono da parte di gruppi della società civile preferiti dagli Stati Uniti perché sono intenzionati a combattere. Hanno un'ideologia ed un progetto preciso dispongono di buoni combattenti e di fiancheggiatori radicati. Al Qaeda ed altri gruppi radicali hanno combattuto per rovesciare l'ordine mediorientale e i suoi governi laici per interi decenni. Assad è riuscito a tenere il campo col nazionalismo laico e con concetti come la separazione tra Chiesa e Stato. Gli elementi nazionalisti moderati dell'opposizione non sono riusciti ad avanzare una visione convincente di una Siria basata sull'inclusione, e non basata sulla legge sacra, che trattasse alla pari le minoranze religiose e i non arabi. Nessuno dei gruppi dell'opposizione portava la bandiera del laicismo. Gli islamici hanno vinto la battaglia ideologica per il cuore e per la mente e la bandiera nera dell'Islam è stata velocemente issata più in alto del tricolore siriano dai principali gruppi dell'opposizione. L'AmeriKKKa ha effettivamente cercato di organizzare i "moderati". Ha fallito non perché non ci ha provato, ma perché i moderati che si era scelta erano incompetenti e impopolari. Appena hanno cominciato a prendere soldi ed ordini dall'AmeriKKKa i radicali li hanno tacciati di essere agenti della CIA, corrotti e traditori della rivoluzione. L'AmeriKKKa era veleno, tutto quello che toccava diventava sabbia.
Per mettere in piedi una opposizione moderata in Siria sono state seguite tre diverse strategie; sono fallite tutte e tre, una in maniera più spettacolosa dell'altra. Il segretario di Stato Hillary Clinton fece di tutto per mettere insieme  i novantasette paesi chiamati "Amici della Siria" e per cominciare ad offrire sostegno diplomatico e finanziario all'opposizione siriana in conferenze ed incontri internazionali. Il suo intento era quello di dare all'opposizione una forma tale che l'AmeriKKKa e all'Occidente potessero sostenerla: farla diventare qualcosa di moderatamente liberale, di mentalità aperta e nazionalista. Con l'aiuto del Qatar agevolò l'affermarsi del Consiglio Nazionale Siriano, che agisse come rappresentante politico dell'opposizione. Nelle consultazioni elettorali del Consiglio vincevano sempre i Fratelli Musulmani, perché erano quelli meglio organizzati, e l'AmeriKKKa cercava sempre scuse per non riconoscerne la supremazia. Lo sforzo degli USA per mettere in piedi e per promuovere una strategia militare per l'opposizione è fallito in maniera ancor più plateale. L'AmeriKKKa promosse nel 2012 la costituzione di un Supremo Consiglio Militare, che agisse come braccio militare del Consiglio Nazionale Siriano.
Il Supremo Consiglio Militare del Libero Esercito Siriano era guidato da un certo Salim Idris, a quanto pare un disertore dell'Esercito Siriano dal carisma pari a zero. Sovrintendeva a una quantità di magazzini stipati di equipaggiamenti forniti da varie agenzie dei servizi, ed avrebbe dovuto passarli alle milizie moderate nel tentativo di comprarne la lealtà e, teoricamente, riunirle sotto il suo comando. Idris non conquistò mai alcuna autorità sul nugolo di formazioni che aiutò ad equipaggiarsi. Quando alcune milizie islamiche radicali stabilirono che non era abbastanza generoso marciarono sui depositi li saccheggiarono. Presero tutti gli equipaggiamenti ed ogni altra cosa che era stata fornita dagli Stati Uniti. Trattarono gli uomini di guardia come se fossero i loro sguatteri, li incaprettarono e li lasciarono a rotolarsi per terra. Neppure una delle milizie del Libero Esercito Siriano si mosse per difenderlo; anzi, sui social media lo presero in giro per le sue disavventure. Idris dovette filarsela di corsa in Turchia, e dalla Turchia a chi diede la colpa...? A Washington. Idris invocò la stessa scusa trita e ritrita che gli attivisti siriani avevano accampato per i loro fallimenti: Washington non era abbastanza generosa. La verità era tutt'altra. Washington aveva destinato loro troppi equipaggiamenti, che adesso si trovavano nelle mani di al Qaeda e compagnia. In Iraq gli Stati Uniti furono infinitamente più larghi di di manica nell'armare i cosiddetti "moderati" e sappiamo tutti la vergognosa faccenda dello Stato Islamico che ha sottratto alle formazioni addestrate dagli ameriKKKani centinaia di carri armati, di Humvee e di pezzi di artiglieria quasi sempre senza che venisse sparato un colpo. Per la CIA e per gli Stati Uniti è stato uno smacco tremendo. Quindi intrapresero una nuova strategia, che consisteva nel contattare direttamente in Siria gruppi di capi milizia. Abbiamo sostenuto questa gente per diverso tempo, fino a marzo 2015; solo che questi, soprattutto il movimento Hazm e il Fronte Rivoluzionario Siriano di Jamal Maarouf, sono stati fatti a pezzi da An Nusra, l'Al Qaeda siriana, e da Ahrar al Sham, che è una formazione salafita alleata di An Nusra. Ancora una volta le formazioni che gli AmeriKKKani controllavano sul terreno si univano agli jihadisti e ad altri gruppi islamici, oppure abbandonarono il campo di battaglia e lasciavano che le loro armi finissero in mano alle formazioni radicali. I detrattori hanno sostenuto che gli Stati Uniti stavano di fatto armando al Qaeda, sia pure senza volerlo. 
L'ultimo grosso sforzo fatto da Washington per aiutare i ribelli è stato un'iniziativa ufficiale del Ministero della Difesa, chiamata "addestra ed equipaggia"; costo dell'operazione, un miliardo e mezzo di dollari. Decidemmo che avremmo portato singoli individui fuori dalla Siria per adeguatamente organizzzarli, addestrarli ed armarli in campi situati in Giordania ed in Turchia. Queste brigate avrebbero operato sotto diretto controllo ameriKKKano. Solo che in Turchia abbiamo addestrato ed equipaggiato a malapena sessantacinque combattenti, e sono crollati appena entrati in azione! Il comandante dei soldati organizzati da noi ha disertato ed ha aderito ad al Qaeda portandosi dietro le armi e molti dei suoi uomini meglio addestrati. Insomma, tutte e tre le strategie tentate per unire, armare, equipaggiare ed addestrare ribelli contro Assad sono fallite miseramente.
Le formazioni radicali non hanno vinto perché l'AmeriKKKa non si è curata di quelle moderate e le ha abbandonate a se stesse. Hanno vinto perché potevano contare su combattenti migliori, maggiormente dediti alla causa e meglio comandati da combattenti esperti, che avevano un'idea precisa della società e dell'assetto governativo che intendevano realizzare. Sono state padrone del campo di battaglia. Ecco perché lo Stato Islamico nel 2014 ha imperversato in tutto l'est della Siria ed ha inglobato la maggior parte dell'Iraq sunnita senza bisogno di sparare un colpo. L'ideologia islamica è risultata essere l'unica in grado di unire i siriani a livello nazionale, unendo le formazioni ribelli dal nord fino al sud del paese.
I cosiddetti di moderati erano semplicemente dei capibastone locali che riunivano attorno a sé cugini, appartenenti allo stesso clan e combattenti provenienti dal loro paese e dai paesi vicini. Bastava allontanarsi di due o tre villaggi, e venivano visti come estranei rompiscatole, venali e propensi alla razzia. Erano dei signori della guerra. Pochi potevano mettere insieme più di un migliaio di combattenti; i più ne avevano assai di meno. Non avevano un'ideologia precisa e non potevano esplicitare un'idea per la Siria. Ecco perché gli sforzi degli ameriKKKani di unificare il Libero Esercito Siriano sono finiti con un pugno di mosche. La società siriana è frammentata. Sia Assad che lo Stato Islamico sono in grado di reggersi in piedi facendo largo ricorso alla costrizione, alla corruzione e al clientelismo, che si dicano nazionalisti laici o fautori del califfato islamico. L'AmeriKKKa in un ambiente del genere non può costruirsi una via che la porti al successo.
 
 
Ribelli siriani in addestramento a Maaret Ikhwan, vicino a Idlib in Siria. 
L'addestramento è parte del tentativo di trasformare un'armata Brancaleone
in una forza combattente disciplinata (foto AP, Muhammed Muheisen).
 
Obama e la linea rossa
J.: Anche chi non era favorevole ad armare i ribelli nel 2012 potrebbe sempre dire che quando nel corso dello stesso anno Obama ha indicato nell'utilizzo di gas benefici da parte di Assad una "linea rossa" da non superare ed un anno dopo ha mancato di dar seguito alla cosa con un attacco aereo contro il governo siriano, gli Stati Uniti hanno perso un'occasione per mettere il governo all'angolo e costringerlo ad un qualche compromesso.
L.: Tutti quelli che nutrivano la speranza che l'America avrebbe in qualche modo distrutto il governo di Assad e riunito nuovamente la Siria hanno sempre proiettato su Obama questi loro desideri. Obama è andato dicendo fin dal principio che non intendeva rimanere coinvolto e che l'AmeriKKKa non avrebbe messo piede in Siria. Obama ha sempre sottolineato che gli Stati Uniti avrebbero al massimo condotto attacchi aerei di ritorsione, ma che non avrebbero cercato di cambiare l'equilibrio dei poteri nella guerra civile. Obama diceva che avrebbe considerato valida la norma internazionalmente accettata secondo cui non si dovrebbero utilizzare armi chimiche ed armi di distruzione di massa ed ha mantenuto la parola.
J.: Quindi Obama è stato coerente quando ha rifiutato di condurre attacchi aerei ed ha deciso invece di negoziare con i russi con i siriani?
L.: Assolutamente. Se non avesse negoziato con i russi e con Assad per eliminare dal campo di battaglia roba del genere, se avesse invece deciso di bombardare duecento soldati siriani e di far saltare alcuni depositi di armamenti chimici in un attacco punitivo la cosa avrebbe anche potuto non avere alcun effetto. Se invece, per ipotesi, avesse destabilizzato il governo di Assad e ne avesse causato la caduta, a prendere Damasco sarebbero state le milizie radicali all'epoca predominanti. Ci saremmo ritrovati con un migliaio di gruppi armati diversi a trafugare armamenti chimici dai depositi sparsi per tutto il paese. L'intero Medi Oriente sarebbe diventato un gigantesco deposito di gas sarin e di agenti nervini di ogni genere; sarebbe stato un disastro. Il fatto che Obama sia riuscito a far sparire quegli armamenti è stato una gran cosa per i siriani, e più in generale per il Medio Oriente per il mondo occidentale.
J.: A partire da quel momento la strategia del governo statunitense è stata implicitamente quella di lasciare Assad al potere e di concentrarsi invece sulla sconfitta dello Stato Islamico?
L.: Senza dubbio, perché è diventato sempre più chiaro che se Assad fosse caduto i radicali avrebbero verosimilmente avuto la meglio. Ci si poteva ritrovare con al Qaeda -o in seguito con lo Stato Islamico- a Damasco. Si pensi a che disastro sarebbe stato se una grossa capitale mediorientale fosse caduta nelle mani dell'una o dell'altro. Almeno in Iraq siamo stati capaci di organizzare l'esercito iracheno per riprendere Mossul, una città che è grande meno della metà di Damasco. Ma in Siria, chi avremmo potuto armare? Non riusciamo a riprendere allo Stato Islamico neppure la città di Raqqa, una polverosa capitale provinciale di poche centinaia di migliaia di abitanti. L'esercito statunitense avrebbe cercato di riprendere Damasco da solo? Oppure avrebbe cercato di ricostruire un Esercito Siriano che fungesse da alleato? Si pensi a quanto sarebbe stato imbarazzante dover fare una cosa del genere. Se lo Stato Islamico si fosse sistemato a Damasco, il Libano sarebbe sicuramente caduto e la Giordania sarebbe entrata in guerra contro di esso. Sto parlando dell'effetto domino.
Ci sono diplomatici sauditi, attivisti siriani e molti analisti a Washington che continuano a dire che per distruggere lo stato islamico gli Stati Uniti devono prima distruggere Assad. Dicono che se Assad resta al suo posto tutto il Medio Oriente andrà in rovina perché è stato Assad a creare lo Stato Islamico. Questa è un'idea. In effetti Assad ha liberato molti islamici dalle sue carceri nel 2011 e parecchi tra di loro hanno aderito allo stato islamico, ma si tratta di pesci piccoli se pensiamo agli alti comandi dello stato islamico, che invece sono stati liberati dalle carceri controllate dagli ameriKKKani. Lo stesso califfo Al Baghdadi era detenuto in Iraq, a Camp Bukka. Dello Stato Islamico è sicuramente il capo indiscusso. Si potrebbero anche citare i due marocchini liberati da Gitmo, che sono andati in Siria, hanno messo in piedi delle milizie ed hanno ucciso migliaia di siriani innocenti. Se ci rifacciamo a questo criterio delle carcerei, si fa prima a sostenere che lo Stato Islamico è stato creato dagli Stati Uniti piuttosto che da Assad. Non ho mai sentito nessuno a Washington affermare che una soluzione al problema dello Stato Islamico potrebbe essere distruggere il governo ameriKKKano.
Il punto centrale del problema è che l'ideologia salafita radicale si è diffusa in tutto il Medio Oriente. Essa rappresenta una forza preponderante in molti luoghi dove Assad è sconosciuto. Il violento rovesciamento dei governi è stato la prima causa della diffusione dei gruppi radicali islamici, e non andrebbe considerato invece come una soluzione a questo problema. Certamente i cattivi governi, la crescita economica stagnante, l'oppressione e la dittatura possono aver contribuito a rendere popolari le ideologie radicali, ma gli USA non sanno quale sia la causa dello jihadismo. Washington non ha idea di come togliere di mezzo le condizioni che sono all'origine dell'affermarsi dei dittatori. Ogni volta che abbattiamo un dittatore diffondiamo il caos e facciamo moltiplicare gli jihadisti. Le soluzioni che Washington si è risolta a provare per combattere il terrore e la dittatura in Medio Oriente sono fallite. Dovremmo smettere di rifarci sempre agli stessi vecchi sistemi, primo tra tutti il rovesciamento dei governi.
 
Trump e il programma russo per la Siria.
J.: E il ruolo della Russia in Siria? Nel settembre 2015 i russi vi hanno schierato l'aviazione...
L.: Infatti. Appena i russi si sono accorti che Assad rischiava, hanno aumentato il proprio impegno. L'Iran ha fatto lo stesso. La Russia dispone di una grande base navale a Tartus ed è un alleato storico della Siria; ma soprattutto la Siria è l'ultimo retaggio della massiccia presenza russa in medio oriente dei tempi della guerra fredda. Dopo la caduta del comunismo nel 1990 la Russia è stata costretta a ritirarsi dalla regione, ma il presidente russo Vladimir Putin sta ricostruendo questa presenza. Putin considera la Siria come il cardine di una sfera di influenza assai più vasta a sud della Russia. La Siria ha una posizione centrale, si trova al confine con lo stato sionista e per i russi è una sorta di cabina di regia per rimettere insieme una nuova struttura di sicurezza nel settore nord del medio oriente, dall'Iran al Libano. Putin è diventato un attore di primo piano sulla scena mondiale grazie al suo ruolo dominante in Siria. Si è avvalso di questa posizione di importanza per sedere al tavolo dei negoziati col segretario di Stato John Kerry oltre trenta volte, a Ginevra ed in altre occasioni.
Anche la Russia ha ottimi motivi a sostegno della strategia seguita in Siria. Putin è convinto che le società mediorientali non siano pronte per la democrazia. Ha constatato che la politica ameriKKKana di promozione della democrazia ha provocato caos diffuso e l'ascesa dello jihadismo. È convinto che il Medioriente abbia bisogno di uomini forti, come sicuramente ne ha bisogno la Russia. La Russia sa come gestire questo genere di cose. Che si tratti di Erdogan in Turchia, di Saddam Hussein in Iraq o della monarchia saudita, Putin è convinto del fatto che un'autorità statale forte sia necessaria. Liberarsi di una classe di dittatori corrotta non farà nascere una democrazia come la intendeva Jefferson. Putin ha accusato l'AmeriKKKa di star diffondendo il caos ed il radicalismo. Ha detto che non ha intenzione di lasciare che l'AmeriKKKa faccia la stessa cosa in Siria, perché in Siria stanno combattendo più di tremila ceceni ed altri cittadini russi; teme che rientrino in patria e che attacchino i russi diffondendo il terrore.
J.: Cosa farà adesso Trump?
L.: non è facile capire qualcosa della politica estera di pappagallo per il medio oriente dalle poche stringate dichiarazioni che ha rilasciato. Comunque ci si può provare. Trump non è un promotore della democrazia, e probabilmente condivide la convinzione di Putin che la democrazia non sia adatta al Medio Oriente. Allo stesso modo non ha neppure una gran considerazione dei musulmani. Trump è un isolazionista. Per certi versi rappresenta un ritorno ai fautori del "prima l'AmeriKKKa" degli anni Trenta. Crede che gli Stati Uniti dovrebbero intervenire solo se direttamente minacciati. È anche contrario al rovesciamento dei governi. Le sue critiche nei confronti della politica mediorientale nascono da quanto è accaduto in Libia, che gli ha permesso di fare facilmente le pulci alla Clinton. Trump ha statuito che la Libia è stata un disastro. Tutto quello che la Clinton è riuscita a fare distruggendo un dittatore, sia pure uno odioso come Gheddafi, è stato far peggiorare la situazione. Il rovesciamento del governo è stato un disastro, ha concluso Trump.
J.: Ma Trump non aveva cominciato attaccando Jeb Bush e suo fratello sull'invasione dell'Iraq, enumerandone le disastrose conseguenze? È successo nel 2015, alle primarie.
L.: Trump all'inizio era riluttante a criticare il retaggio della presidenza Bush, ma si è preparato a farlo e alla fine l'ha fatto davvero. Ha affermato che l'Iraq era diventato "la Harvard dello jihadismo"; in un certo senso stava facendo proprie le critiche dei russi. È arrivato alla conclusione che l'AmeriKKKa non dovrebbe intraprendere il rovesciamento dei governi e che dovrebbe invece prendere atto del fatto che gli uomini forti sono necessari per mantenere l'ordine. In questo senso Trump ha riportato il partito repubblicano ai tempi precedenti l'affermarsi dei neocon. Nelle sue dichiarazioni si può avvertire l'eco dell'ex ambasciatore all'ONU Jeane Kirkpatrick[2]. Durante la presidenza di Ronald Reagan ebbe a sostenere che certe dittature sono meglio di altre cose. E in questo caso "le altre cose" sono gli islamici. Avremmo dunque dovuto lasciar perdere Gheddafi, Saddam ed Assad.
Trump ha anche detto che forse dovremmo lasciare che siano i russi a sbrigarsela in Siria. I russi stanno distruggendo lo Stato Islamico; facciamo squadra con loro e lasciamo Assad al potere. Sarà anche un tremendo dittatore, ma è meglio delle alternative. Insomma, Trump ha dato un'occhiata al programma dei russi e ha detto che è azzeccato! Le critiche di Trump hanno trovato eco presso la popolazione ameriKKKana, che le ha accolte con calore. Gli ameriKKKani sono stanchi di dover pagare per avventure lontane e mal condotte. Persino il senatore Ted Cruz, che stava seguendo pari pari il manuale di Bush, ha fatto una virata di centoottanta gradi! Quasi tutti i repubblicani hanno fatto proprie le argomentazioni di Trump. Un voltafaccia avvincente...
J.: Quindi c'è da aspettarsi che da presidente continuerà a rifarsi al programma dei russi?
L.: Il problema è che Trump non è affatto circondato da isolazionisti.  In AmeriKKKa un partito isolazionista non esiste più dagli anni Trenta, per cui non è che esistano dei quadri formati da isolazionisti da cui è possibile attingere. Anzi, per formare il governo sta pescando fra un sacco di generali. Anche se non sono dei neoconservatori, sono di sicuro favorevoli ad una politica estera statunitense più muscolare. Non sono isolazionisti. Sono nella loro interezza contro l'Iran e per lo più sembrano anche antirussi, a dispetto delle inclinazioni di Trump; difficile sapere cosa farà.
 
Il predominio iraniano e russo
J.: Cosa potrebbe fare Trump in Siria?
L.: Parecchi vorrebbero che la Russia e l'Iran venissero cacciati dalla Siria; almeno, questo è quello che suggeriscono. L'unico modo per farlo sarebbe quello di scatenare i ribelli. E non dovremmo farlo perché è una cosa che non ha funzionato, sarà il caso di farsene una ragione. Ma lasciate che dica la mia da un altro punto di vista, su come si sono messe le cose per Washington.
Nella zona settentrionale del Medio Oriente è in atto la costruzione di una nuova architettura di sicurezza, in cui predominano l'Iran e la Russia. Questo è in gran parte successo a causa degli errori di calcolo fatti dagli USA in Iraq. Quando in Iraq abbiamo infranto la supremazia sunnita di Saddam e abbiamo aiutato gli sciiti ad arrivare al potere abbiamo aperto la strada alla formazione di una "mezzaluna sciita" estesa dall'Iran al Libano.
Abbiamo sempre detto che l'Iran è una potenza malvagia ed aggressiva che sta cercando di affermarsi con la forza in Medio Oriente e che è dunque necessario arginare. Ma la nostra strategia militare è diametralmente opposta a questo obiettivo proclamato a parole. Sul piano militare noi abbiamo aiutato la diffusione del potere sciita ed iraniano; stiamo bombardando lo Stato Islamico, che costituisce la parte più valida della ribellione sunnita. Abbiamo inficiato ogni tentativo di rovesciare il governo filoiraniano di Bagdad. La Russia in Siria sta facendo esattamente la stessa cosa. Per combattere l'estremismo sunnita ed il terrorismo gli Stati Uniti e la Russia si sono avvicinate all'Iran. Stanno usando eserciti e milizie a predominanza sciita per distruggere lo stato islamico ed al Qaeda. 
In Iraq, per sconfiggere lo stato islamico ed al Qaeda che colpiscono gli ameriKKKani gli europei e gli Stati Uniti non hanno altra possibilità che quella di allearsi con le milizie sostenute dall'Iran. Gli Stati Uniti muoiono dalla fretta di distruggere lo stato islamico. Alcune settimane fa il luogotenente generale Stephen Townsend, che è al comando delle forze della Coalizione in Iraq, ha espresso apprezzamento per i rapidi progressi compiuti dalle milizie sciite irachene addestrate dall'Iran e ha detto che "sono avanzate più rapidamente di quanto ci aspettavamo, ed hanno fatto un buon lavoro."
L'esercito iracheno che l'AmeriKKKa aveva addestrato ed equipaggiato era inteso per essere leale ad una costituzione e ad una nazione irachena in cui pochi confidavano. Davanti allo Stato Islamico si è liquefatto. L'AmeriKKKa non aveva compreso la natura del potere militare in Medio Oriente, che si fonda su un concetto tradizionale di lealtà. Un concetto che implica il difendere il proprio gruppo settario, il proprio clan, il proprio villaggio, la propria proverbiale tribù. Le milizie sciite locali credono che se non sconfiggeranno lo Stato Islamico lo Stato Islamico spazzerà via loro, e sarà così. Non è il fervore religioso a guidarle, ma un insieme di patti condivisi, all'interno di una cultura religiosa comune. Per certi aspetti la religione costituisce il nuovo profilo etnico del Medio Oriente. Con il crollo delle dittature laiche che dominavano dai tempi della seconda guerra mondiale, le identità religiose hanno preso sempre più il sopravvento rispetto a quelle nazionali.
J.: I paesi sunniti però non acconsentiranno a questo mutamento negli equilibri di potere.
L.: La guerra civile siriana, come quella in Iraq, si è trasformata rapidamente in una guerra settaria: le parti hanno cercato sostenitori in base a linee religiose. Entrambe le parti temono che l'altra possa darsi alla pulizia etnica o addirittura al genocidio. La competizione geostrategica tra Iran ed Arabia Saudita non ha fatto che esacerbare questa polarizzazione secondo criteri religiosi. Le due potenze regionali hanno finanziato o addestrato milizie settarie. Ma nella zona che va dall'Iran al Libano sono ora gli sciiti ad avere la meglio, e questo sta mandando i sunniti fuori dai gangheri: gli sembra che il mondo si sia capovolto.
Il mondo arabo è sempre stato un mondo sunnita. L'impero ottomano era un impero sunnita. Gli sciiti erano luridi bifolchi ufficialmente discriminati. Che siano passati da una situazione di discriminazione all'essere la forza politica dominante in Iraq, in Siria, ed in Libano è una cosa scioccante. Una cosa che a molti sembra contraria all'ordine divino. In Iraq molti sunniti hanno reagito col rifiuto al nuovo stato di cose. Non hanno accettato il fatto che gli sciiti fossero la maggioranza della popolazione irachena molti sciiti sono stati accusati di essere persiani, e non iracheni veri e propri.
Il linguaggio dispregiativo usato da gran parte dell'opposizione per parlare degli sciiti e degli alaWiti in Siria indica fino a che punto la contesa è diventata settaria. I leader delle milizie non considerano gli sciiti come veri musulmani; al contrario, li accusano di essere arfad, colpevoli di rifiuto, coloro che non riconoscono i padri fondatori del vero Islam. Siccome appartengono alla religione sbagliata vengono correntemente considerati come appartenenti al popolo sbagliato. Un vocabolo comunemente usato in Siria per indicare gli sciiti è Majous, traducibile con Magi: gli sciiti sarebbero dei cripto persiani e non dei veri arabi.
Hezbollah nella quasi totalità dei video diffusi dall'opposizione siriana non viene denominato "il partito di Allah", come dovrebbe essere correntemente tradotta la sua denominazione, ma come "partito del diavolo", Hezbolshaitan. Gli sciiti vengono spesso indicati come najis, "sporco". Il vocabolo si trova nel Corano, e sul piano religioso significa impuro. Diversi capi ribelli in Siria hanno pubblicamente parlato di purificare la Siria dallo sporco sciita che la sconcia, e di buttare gli alawiti in mare. Ovviamente parte di questa retorica può anche essere derubricata a propaganda pura e semplice, utile ad attizzare lo spirito combattivo.
In ogni caso al conflitto sulle identità religiose si è accompagnato quello per il potere a livello nazionale. Si tratta di una stazione pericolosa, perché può sfociare nella pulizia etnica e anche nel genocidio. Abbiamo assistito a conflitti etnici e religiosi dello stesso genere portati all'estremo in Europa centrale durante la seconda guerra mondiale, nel corso della quale 6 milioni di ebrei sono stati sterminati in nome del nazionalismo ed in cui la pulizia etnica ha coinvolto, si pensa, 35 milioni di persone. 
J.: Ma per quale motivo gli sciiti stanno vincendo? Solo perché l'AmeriKKKa li ha involontariamente aiutati contro loro nemici?
L.: Indubbiamente, nel settore nord del Medio Oriente gli sciiti stanno vincendo. Le ragioni per cui stanno vincendo sono quattro. All'inizio i servizi segreti occidentali hanno previsto che i ribelli sunniti avrebbero vinto; hanno commesso tutti lo stesso errore di considerare la Siria come un monoblocco circondato da frontiere impermeabili. Hanno preso per buona questa previsione perché gli arabi sunniti sono il 70% della popolazione siriana egli alawiti solo il 12%, per cui i sunniti avrebbero vinto. La guerra in Siria, anche se fosse diventata una battaglia di logoramento, avrebbe favorito i sunniti perché erano più numerosi.
Questo si è rivelato un errore di calcolo, perché tutta la regione è diventata un campo di battaglia. Se consideriamo gli equilibri a livello settario di tutti gli arabi che vivono tra il Mediterraneo e la frontiera iraniana, sono gli arabi sciiti ad essere più numerosi. Gli arabi sciiti del Libano, della Siria e dell'Iraq superano gli arabi sunniti della stessa regione sia pure di poco. Direi che questo spiega almeno in parte perché i sunniti stanno perdendo. Gli sciiti sono di più.
Il sostegno di Hezbollah ed iracheno nei confronti di Assad è stato fondamentale per la sopravvivenza dell'Esercito Arabo Siriano. Per tacere dei massicci ed insostituibili aiuti dell'Iran sciita. Tutti costoro sono convinti che se gli sciiti lasciano che i sunniti taglino in due la "mezzaluna sciita" distruggendo il controllo di Assad sulla Siria ed imponendovi quello sunnita ne usciranno gravemente indeboliti. Non possono permettere che i nemici del Golfo Persico, dello Stato sionista e della Turchia -per tacere dell'Occidente- infliggano loro una sconfitta. La cospirazione cui Assad e gli altri fanno sempre riferimento è questa.
Il governo siriano ha trasformato velocemente la rivolta in un conflitto armato riuscendo così a consolidare la fedeltà delle elite cittadine. I sunniti di città delle classi più elevate sostengono il governo. Hanno dovuto soppesare i vantaggi che venivano loro da sostenere i pretoriani alawiti che disprezzano, piuttosto che dallo schierarsi con le milizie islamiche delle campagne, che invece temono. Le sanzioni occidentali non sono riuscite a convincere i ricchi ad abbandonare il governo e a mettersi dalla parte dei poveri che vivono perlopiù nelle campagne. Ad Aleppo, che è la città industriale della Siria, i ricchi hanno constatato che i ribelli non avrebbero avuto alcuna misericordia di loro. Oltre un migliaio di fabbriche nei sobborghi e nel distretto industriale di Aleppo è stato saccheggiato e depredato dalle milizie nei primi mesi del conflitto. I cittadini ricchi sono stati presi come ostaggi e rapinati delle loro cose. Insomma, come dice il vecchio adagio, "ai ricchi le rivoluzioni non piacciono".
Dandosi allo jihadismo salafita le milizie dapprima si sono precluse il pieno appoggio dell'Occidente, e poi hanno fatto sì che Obama e gli altri le abbandonassero. Gli USA hanno rinunciato al loro ruolo di poliziotti del mondo per concentrarsi sulle zone per loro più importanti; altre potenze hanno dunque ricominciato a reclamare le proprie zone di influenza. In questo caso Iran e Russia rivendicano il corridoio Siria - Iraq - Libano; in mancanza di un'espressione migliore è quello che viene chiamato "mezzaluna sciita".
J.: Non è pericoloso lasciare che Russia ed  Iran espandano il loro potere?
L.: Ci sono analisti a Washington che sostengono che gli USA devono distruggere questo nuovo arco di influenza russo-iraniano. Il problema è che il potere nella regione russi ed iraniani lo hanno consolidato proprio con l'aiuto ameriKKKano. L'unico modo per distruggerlo sarebbe quello di scatenare gli insorti sunniti che in questo momento sono per la gran parte fuori combattimento. Farlo sarebbe un errore. Non solo non funzionerebbe, ma potrebbe anche portare alla pulizia etnica delle popolazioni sunniti se non si calmano gli animi e non si ripristina la stabilità.
J.: Il recente accordo tra Russia, Turchia e Siria indica un ulteriore passo avanti verso la riconquista del paese da parte di Assad ed il consolidamento delle posizioni russe nella regione?
L.: Senz'altro. Proprio la scorsa settimana Turchia, Russia ed Iran hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si afferma che tutti devono rispettare la sovranità della Siria. Se ne deve concludere che la Turchia è pronta a mettere la sordina all'opposizione siriana a patto che Assad la aiuti a contrastare l'affermarsi di uno stato curdo indipendente nel nord della Siria.
 
Le possibilità di Trump in Siria
J.: Cosa significa tutto questo per la presidenza Trump?
L.: Bisognerebbe sapere se Trump intende rassegnarsi ai nuovi equilibri delineatisi, al fatto che Iran e Russia saranno i protagonisti nel nord della regione. Penso che debba concedere questo ruolo alla Russia. Innanzitutto la Siria è sempre stata un alleato dei russi; in secondo luogo, Obama ha già preso una decisione in questo senso. Quando i russi si sono gettati nella guerra in Siria nel 2015 Obama ha deciso che gli USA non avrebbero combattuto una guerra per procura contro i russi per la supremazia in Siria. Nel momento stesso in cui lo ha affermato ho avuto la certezza che per i ribelli siriani era finita. Ormai era deciso. Solo una escalation statunitense avrebbe potuto impedire all'esercito di Assad di prendersi la rivincita.
La critica che ora circola presso i partecipanti ad alcuni think tank di Washington è che Assad è troppo debole per riconquistare la Siria e che gli USA devono quindi intromettersi, specie se vogliono sconfiggere velocemente lo Stato Islamico. Sostengono che la Siria sia un paese in cui coesistono molti ambienti sociali e culturali diversi. La Century Foundation, la New AmeriKKKa Foundation e il Center for a New AmeriKKKan Security hanno pubblicato politiche in cui perorano in un modo o nell'altro a favore del mantenimento sul terreno di forze speciali statunitensi e del sostegno ai gruppi di insorti della regione. L'idea è quella di ricavare delle zone autonome che permetterebbero agli USA di esercitare pressioni e magari di costringere la Russia ed Assad a negoziare. Rifiutano di affermare che sono favorevoli alla divisione della Siria, e parlano invece di una struttura fatta di regioni autonome ma alla fin fine si tratta esattamente della stessa cosa: si dovrebbe mantenere il controllo di alcune zone della Siria per consentire agli USA di essere della partita.
Assad sta riconquistando la Siria, villaggio dopo villaggio. Gli insorti ancora al loro posto non possono reggere contro un esercito che ha il sostegno dei russi. Dare ai ribelli siriani la speranza di poter resistere sarebbe, da parte dell'AmeriKKKa, un inganno.
La coalizione sorta attorno all'AmeriKKKa e che comprende i paesi del Golfo e la Turchia ha rovesciato sulla Siria oltre venti miliardi di dollari di armamenti per i ribelli. Senza tutto questo denaro Assad avrebbe vinto molto più velocemente, meno siriani sarebbero rimasti uccisi, e molti meno siriani avrebbero dovuto fuggire dalle loro case.
J.: Adesso parliamo di nuovo di Trump. Cos'è che può fare?
L.: Trump, in fin dei conti, ha bisogno di stringere i denti esattamente come ha fatto Obama, e deve evitare di farsi risucchiare in un contesto sociale estremamente frammentato ed in una guerra civile. I russi ed Assad stanno ristabilendo il controllo di Assad sulla Siria. Si tratta di una realtà molto dura ma a questo punto la maggior parte dei siriani vuole la stabilità e la sicurezza, e sono pronti a gettarsi tra le braccia di un'autorità in grado di offrirle. L'AmeriKKKa non può cambiare la situazione, quindi non dovrebbe tenere accese le ceneri di questa rivoluzione.
La prossima amministrazione avrà il problema di come porsi nei confronti della Siria di Assad. Voltare le spalle al paese e costringere Russia ed Iran alla ricostruzione? Continuare ad imporre devastanti sanzioni al governo? Dal punto di vista emotivo la cosa porterebbe delle soddisfazioni. I nostri assunti di base, secondo cui la Siria dovrebbe essere una democrazia e l'AmeriKKKa non dovrebbe sostenere dittature ne uscirebbero intatti. Ho appena assistito ad una conferenza al Baker Institute in cui la maggior parte dei relatori era dell'idea che Russia ed Iran dovrebbero essere lasciati cuocere nel loro brodo. Il punto di vista predominante pare quello di cercare di trasformare la Siria in un pantano, in modo da punire l'Iran e la Russia. Una cosa del genere però condanna i siriani a lunghe sofferenze e gli impedirebbe per sempre a molti profughi di tornare a casa. In alternativa potremmo cercare di conseguire qualche piccolo successo offrendo ad Assad un allentamento delle sanzioni. Dopotutto in Siria l'America non avrebbe comunque la parte del leone. È un ruolo cui essa ha rinunciato; cosa possono mai sperare di ottenere gli Stati Uniti? Una possibilità sarebbe quella di inviare nelle carceri siriane osservatori della Croce Rossa per stilare liste di detenuti ed impedire gli abusi peggiori che sappiamo vi si verificano. Potremmo aiutare il sistema educativo. Ogni futura speranza di ricostruire una società civile e una democrazia in Siria infatti passa attraverso l'istruzione. E perché invece non aiutare il restauro e la ricostruzione dei centri storici distrutti ad Aleppo e a Homs? E i siti patrimonio dell'umanità come Palmira?
Gli Stati Uniti dovrebbero cercare di impegnarsi in cosa del genere, che richiederebbero una qualche intesa con il governo di Assad? O dovremmo uscirne con le mani pulite e dire "al diavolo la Siria"? Questa è la scelta che abbiamo. Non è un granché, ma penso si tratti dell'unica risposta corretta. Prima ci rassegneremo all'idea che non possiamo rovesciare il governo siriano, prima saremo in grado di fare qualche cosa di buono, sia pure di modesta portata. Le sofferenze e le privazioni per i siriani sono durate abbastanza.
 
[1] Nel 1848 una serie di rivoluzioni antimonarchiche si sviluppò in tutta Europa. Furono represse, ma in molti paesi furono i precursori di governi su base parlamentare. Nel 1968 tra gli studenti delle scuole superiori si diffuse un movimento di rivolta contro Charles de Gaulle che si diffuse alla classe operaia e fini col portare de Gaulle alle dimissioni.
 
[2] Nel 1979 Jeane Kirkpatrick ha scritto un importante saggio, Dictatorships and Double Standards, in cui affermava che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto esitare a fornire sostegno ad un regime autoritario nel caso l'alternativa fosse stata il comunismo.