Da Consortium News, 4 novembre 2017.

Sembra che in Medio Oriente si stia venendo a capo di qualcosa. Per molti paesi e per la regione nel suo complesso il prossimo periodo sarà probabilmente determinante per il futuro. Una cosa che nell'immediato indica l'incombere di un periodo decisivo è la proposta, avanzata con rapidità dai russi, di una conferenza da tenersi a Sochi e cui dovrebbe partecipare quasi tutto lo spettro dell'opposizione siriana; se tutto va come previsto, questo potrebbe significare che dal 18 novembre arriveranno a Sochi circa mille delegati.
Il governo siriano ha acconsentito a partecipare. Ovviamente quando si sente parlare di partecipazione con numeri del genere non si deve pensare ad un incontro in cui si lavora con impegno, ma ad una situazione in cui i russi avanzeranno una loro visione puramente accademica sulla costituzione, sul sistema di governo e sulla tutela delle minoranze. A seguire c'è il fatto che la Russia vuole che si facciano alla svelta queste maledette elezioni, vale a dire entro sei mesi. In breve si tratta dell'ultima passerella per i personaggi dell'opposizione: o salgono a bordo subito o verranno lasciati fuori al freddo.
Sono in molti a premere per questa iniziativa, appoggiata personalmente dal Presidente Putin; tuttavia non esiste alcuna garanzia di successo. Sia l'Iran che la Turchia, i garanti di Astana, possono avere le loro private obiezioni perché non sanno che cosa hanno di preciso in mente i russi. L'Iran vuole che la Siria conservi un governo forte e centralizzato mentre la Turchia teme probabilmente che i curdi possano ricevere troppe concessioni da Mosca, oltre ad avere le proprie riserve sul mettersi allo stesso tavolo con i curdi siriani dello YPD, in Turchia considerati poco più che un PKK con il nome cambiato, a sua volta visto come un'organizzazione terrorista. Se la Turchia non partecipa, a non partecipare sarà anche un importante settore dell'opposizione.
Nella storia i momenti delicati sono soliti rivelarsi meno delicati di quello che si pensava; questa iniziativa tuttavia segna davvero l'inizio della fine della guerra in Siria e del ventennale progetto per il "Nuovo Medio Oriente" come lo intendevano il governo statunitense e quello sionista. Sarà la reazione che ciascun paese avrà verso di essa a definire il panorama mediorientale per i prossimi anni.
 
 
Gli ultimi fuochi
 
La settimana scorsa l'Esercito Arabo Siriano ha finito di conquistare la città di Deir ez Zor; con le spalle ormai al sicuro l'esercito può adesso procedere lungo i trenta chilometri circa che lo separano da Abu Kamal (Al Bukumal), l'ultimo centro urbano in mano allo Stato Islamico, e il vitale posto di frontiera con l'Iraq a ridosso dell'Eufrate. Si possono stimare in circa tremilacinquecento i combattenti del Da'ish -altro nome dello Stato Islamico o ISIS- ad Abu Kamal. La cittadina gemella di Abu Kamal sul lato iracheno della frontiera, Al Qaim, è stata presa dalle Forze di Mobilitazione Popolare, milizie governative irachene, venerdì 3 novembre. Gli iracheni stanno ora bonificando la cittadina da circa mille e cinquecento combattenti del Da'ish.
L'Esercito Arabo Siriano, fiancheggiato da diverse migliaia di combattenti di Hezbollah recentemente giunti in zona d'operazioni, è deciso ad entrare in Abu Kamal nei prossimi giorni da due lati; da sud, una concomitante avanzata verso nord e verso la cittadina da parte delle Forze di Mobilitazione Popolari contribuirà a formare una tenaglia.
Le Forze Democratiche Siriane, milizie sostenute dagli USA, stanno anch'esse cercando di arrivare ad Abu Kamal da est. Gli USA, sotto pressione da parte dello stato sionista, vorrebbero isolare e chiudere il posto di frontiera. Le forze alleate degli USA possono muoversi più velocemente perché funzionari ameriKKKani stanno cercando di corrompere (con denaro saudita) capi tribali della zona che a suo tempo avevano giurato fedeltà allo Stato Islamico affinché cambino casacca, o almeno consentano alle milizie di avanzare senza essere attaccate dallo Stato Islamico, come successo nei dintorni di Deir ez Zor.
Insomma, sul piano militare e dopo sei anni di guerra la situazione in Siria è ormai decisa; ora tocca alla politica. Saranno gli sviluppi su questo piano a determinare il peso relativo delle forze che plasmeranno il Medio Oriente nei prossimi anni. Probabilmente l'esito sarà se la Turchia potrà essere spinta nuovamente nei ranghi della NATO da minacce come quelle del generale Petr Pavel, capo del comitato militare della NATO che ha parlato di "conseguenze" per i tentativi fatti dalla Turchia di acquistare sistemi di difesa aerea di produzione russa, o se invece la determinazione dei turchi di mettere un limite alle aspirazioni curde vedrà la Turchia allinearsi all'Iran e all'Iraq, che condividono uno stesso interesse.
Il ruolo della Turchia a Idlib, dove ha compiti di supervisione in una zona di de-escalation, resta poco chiaro. Di fatto i militari turchi sono dislocati in maniera da controllare più il "cantone" curdo di Anfrin che non il funzionamento della de-escalation. Probabilmente Recep Tayyip Erdogan spera di avvalersi dei soldati turchi per incassare una zona cuscinetto lungo la frontiera con la Siria, in aperta violazione degli accordi di Astana. In questo caso andrà allo scontro sia con Mosca che con Damasco, senza che questo implichi per forza un suo ritorno nel campo della NATO.
 
 
Il futuro della Siria
 
Le trattative di Sochi metteranno più in chiaro se la Siria sarà un forte stato centralizzato, come preferirebbe l'Iran, o uno stato più largamente federale come preferirebbero gli USA e probabilmente anche la Russia. Sochi sarà una specie di cartina di tornasole per misurare fino a che punto l'influenza ameriKKKana può plasmare gli esiti nel Medio Oriente di oggi. Ora come ora sembra che Mosca e Washington stiano agendo di concerto per arrivare velocemente a degli accordi politici in Siria, a una dichiarazione di vittoria sullo Stato Islamico da parte degli USA, ad elezioni in Siria e ad un'uscita degli Stati Uniti dal teatro siriano.
Probabilmente i risultati della conferenza metteranno in chiaro se i curdi siriani sosterranno infine il progetto del CentCom statunitense per una presenza stabile degli USA nel nord est della Siria (come desidera lo stato sionista) o se invece si accorderanno con Damasco, dopo aver assistito alla distruzione del progetto per l'indipendenza curda di Barzani ad opera delle potenze confinanti.
Se si verifica il secondo caso, gli argomenti a favore del mantenimento di una presenza statunitense a lungo termine nel nord est della Siria perderanno forza. I sauditi saranno costretti ad accettare la sconfitta, o a comportarsi da guastafeste cercando di rimettere in azione i combattenti che ancora gli rimangono a idlib. Per questo però il regno avrebbe bisogno del benestare dei turchi, che può anche non essere dietro l'angolo.
Anche l'Iraq, irritato dai commenti del Segretario di Stato Rex Tillerson in cui si insinua che le Forze di Mobilitazione Popolare siano iraniane e che devono "andare a casa", ha già mostrato segni di riorientamento verso la Russia. Ultimamente  l'Iraq ha firmato con la Russia un corposo accordo nei campi dell'energia e dell'economia, dopo aver rivendicato il controllo delle frontiere e delle risorse energetiche del paese, e sta anche acquistando armamenti russi. Prova palese degli stretti rapporti che l'Iraq intrattiene con la Siria, la Turchia e l'Iran, la rapidità con cui è stata messa la parola fine all'avventura indipendentista dei curdi.
Tuttavia, è lo stato sionista quello che si trova alle prese col dilemma più grande sul come andranno le cose in Siria. Alex Fishman, che nello stato sionista è decano degli editorialisti di cose militari, ha scritto che lo stato sionista non si è adeguato ai mutamenti strategici e si trova imprigionato in un'angusta mentalità da guerra fredda.
I siriani lanciano razzi in zone aperte, lo stato sionista distrugge artiglieria siriana come ritorsione; gli iraniani minacciano di schierare truppe sciite in Siria, lo stato sionista proclama 'linee rosse' e minaccia una guerra; Fatah e Hamas intrattengono sterili colloqui sulla creazione di un governo unico, il primo ministro dichiara che lo stato sionista sospende il dialogo coi palestinesi. E tutti giù ad applaudire gli alti papaveri della sicurezza e della politica: 'Ecco, gli abbiamo fatto vedere cosa vuol dire deterrenza', [ripete il premier sionista].
In realtà stiamo assistendo a una politica difensiva provinciale, alla falsa rappresentazione di una leadership che non vede a un palmo dal proprio naso e che passa tutto il tempo ad agitare le acque.
Si tratta di un premier che considera la sicurezza nazionale in una ristretta ottica regionale. Come se tutto quello che c'è oltre Hezbollah, Hamas e l'Iran non esistesse proprio. Come se il mondo che ci circonda non fosse cambiato negli ultimi decenni. Ed eccoci prigionieri di un'epoca in cui la principale attività nel settore della politica e della sicurezza è fatta di soluzioni aggressive che si presentano come bastone e come carota. Gli attuali vertici nella politica e nella sicurezza non stanno risolvendo i problemi, non li stanno affrontando; li stanno solo posticipando, rimandandoli alla prossima generazione.
 
 
La mancanza di un quadro strategico
 
Fishman si riferisce ad una questione che ha ramificazione profonde. Lo stato sionista ha conseguito qualche vittoria tattica contro i vicini, ovvero contro i palestinesi in generale, e ha indebolito Hamas, ma non ha più presente il quadro strategico generale. In concreto lo stato sionista ha perso la propria capacità di dominare il Medio Oriente. Voleva una Siria debole e frammentata, voleva che Hezbollah si impelagasse nel pantano siriano e che l'Iran si trovasse circondato da sunniti settariamente ostili verso gli sciiti in generale. Non è probabile che ottenga alcuna di queste cose. Anzi, lo stato sionista si scopre vittima della deterrenza, invece che autore di essa, perché si accorge che oggi come oggi non può rovesciare la propria debolezza strategica -che è data dal rischio di una guerra su tre fronti- a meno che l'AmeriKKKa non intervenga a suo fianco in qualsiasi conflitto. Proprio questo fa preoccupare gli alti quadri della sicurezza e dei servizi: l'AmeriKKKa di oggi prevede di intervenire in maniera decisiva a fianco dello stato sionista, a meno che non sia a rischio la sua stessa sopravvivenza?
I funzionari sionisti ricordano che nel 2006 gli USA non entrarono in guerra contro Hezbollah in Libano; dopo 33 giorni fu lo stato sionista a cercare un cessate il fuoco.
Fishman ha ragione anche quando dice che attaccare fabbriche e postazioni radar siriane "secondo la vecchia prassi" non risolve nulla. La cosa può essere gabellata al pubblico sionista come deterrenza, ma in realtà è un giocare col fuoco. La Siria ha iniziato a rispondere, lanciando vecchi missili terra aria (gli S200) contro gli aerei sionisti. Questi missili possono anche non aver ancora colpito nessuno, e magari non sono neppure stati lanciati con questo scopo. Il messaggio dei siriani è comunque chiaro: saranno anche vecchi, ma hanno un raggio maggiore degli S300 più recenti. Potenzialmente, è sufficiente ad arrivare all'aeroporto Ben Gurion alla periferia di Tel Aviv.
E lo stato sionista è sicuro che Siria e Hezbollah non dispongano di missili più moderni? E' sicuro che l'Iran o la Russia non gliene forniranno? Il Ministro della Difesa russo era molto irritato durante la sua visita nello stato sionista; come regalo di benvenuto all'atterraggio si era ritrovato un attacco di rappresaglia contro una postazione radar e missilistica siriana. Alle sue rimostranze la controparte sionista, il Ministro della Difesa Lieberman, ha detto con degnazione che lo stato sionista non aveva bisogno di consultarsi con nessuno per quanto riguardava la propria sicurezza. Pare che il generale Sergey Shoygu non abbia gradito.
Lo stato sionista è in grado di venire a patti con la sua nuova situazione strategica? Sembrerebbe di no. Ibrahim Karagul, un editorialista politico turco e voce autorevole del Presidente Erdogan, ha scritto sullo Yeni Safak che "nella nostra regione si stanno ponendo le premesse per nuove frammentazioni [e] nuove divisioni. 'Stiamo passando all'Islam moderato', annuncia l'Arabia Saudita: un'affermazione che implica un azzardo pericoloso. L'asse fra USA e stato sionista sta formando un nuovo fronte." Prosegue Karagul: "Da qualche tempo ormai stiamo assistendo agli strani sviluppi della situazione in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti, in Egitto, nello stato sionista e negli Stati Uniti. Nella regione si è venuta a creare una situazione nuova, che sappiamo essere [principalmente rivolta] contro l'Iran; tuttavia essa ha di recente assunto un atteggiamento apertamente contrario alla Turchia, il cui intento è quello di limitare l'influenza turca in Medio Oriente... Vedrete, l'annuncio dell''Islam moderato' sarà seguito immediatamente da un improvviso e inatteso rafforzarsi del nazionalismo arabo. Questa ondata non farà differenze tra arabi sunniti e arabi sciiti, ma isolerà il mondo musulmano arabo dal mondo musulmano nel suo insieme. Questa separazione sarà avvertita soprattutto dagli arabi sciiti iracheni. Iraq e Iran andranno allo scontro con questo nuovo raggruppamento [cioè reagiranno vigorosamente per contrastarlo]. La permanenza al potere del Primo Ministro iracheno Haider al Abadi è anch'essa, con ogni probabilità, legata [al risultato di] questa resa dei conti."
 
 
L'avallo statunitense
 
Per ottenere l'avallo ameriKKKano a questa iniziativa, lo stato sionista e l'Arabia Saudita stanno mettendone al centro lo Hezbollah libanese, che gli USA hanno dichiarato organizzazione terroristica nonostante il movimento facesse parte del governo libanese capeggiato dal Primo Ministro Saad Hariri, che si è ignominiosamente dimesso il 4 novembre. Hariri, che ha la doppia cittadinanza libanese e saudita, lo ha annunciato da Riyadh.
Il ministro saudita per gli affari del Golfo Thamer al Sabhan, che era a Beirut nel corso della prima settimana di novembre, ha invocato "il rovesciamento di Hezbollah" e ha promesso sviluppi "sconcertanti" per "i prossimi giorni. Chi crede che i messaggi che scrivo su Twitter rappresentino un'opinione personale rimarrà deluso... si preparano sviluppi davvero sconcertanti."
Al Sabhan ha aggiunto che l'impegno dell'Arabia Saudita contro Hezbollah potrebbe assumere varie forme che "di sicuro colpiranno il Libano. Politicamente, potrebbero essere colpite le relazioni del governo con il resto del mondo. Sul piano economico e su quello finanziario, potrebbero essere colpiti gli scambi commerciali e i fondi, mentre il piano militare potrebbe comportare un attacco contro Hezbollah da parte della coalizione capeggiata dagli USA, che considerano Hezbollah un'organizzazione terroristica." Un commento: quest'ultimo concetto probabilmente è stato espresso più come una speranza che come una previsione. L'Europa e gli USA si impegnano in maniera considerevole per mantenere stabile il Libano.
Karagul presenta altre riflessioni sull'iniziativa di USA, paesi del Golfo e stato sionista:
Questo progetto dell'Islam moderato è stato tentato soprattutto in Turchia. Abbiamo sempre detto che questo è "l'Islam dell'AmeriKKKa" e ci siamo opposti ad esso. L'intervento militare del 28 febbraio è prodotto di questo piano, al quale hanno partecipato l'estrema destra statunitense e sionista e i suoi fiancheggiatori sul piano interno. L'organizzazione terroristica di Fetullah è il risultato di questo piano, e gli attacchi del 17 e del 25 dicembre, oltre a quello del 15 luglio, sono stati sferrati per questa ragione. Il loro scopo era sempre quello di intrappolare la Turchia nell'asse di USA e stato sionista.
La resistenza a livello locale e a livello nazionale della Turchia ha avuto ragione di ogni attacco. Adesso sono tutti a  mettere in mezzo l'Arabia Saudita per cercare di portare a termine lo stesso piano. Ecco come presentano i loro scopi. Io non credo che sia possibile affrontare un'incombenza similen per i sauditi; si tratta di un compito impossibile sia per il carattere del governo saudita, sia per la struttura sociale del paese. Un compito impossibile a causa del pasticcio statunitense e sionista.
Questo discorso del passare all'Islam moderato causerà grande confusione nell'amministrazione saudita e pesanti reazioni a livello sociale. Lo scontro vero e proprio sarà uno scontro interno all'Arabia Saudita. E il governo di Riyadh non ha alcuna possibilità di successo nell'esportare qualcosa nel resto de Medio Oriente, o nel presentarsi come un esempio.
In special modo, una volta che verrà fuori che anche stavolta tutta l'iniziativa ha al centro la sicurezza, che si è formata una nuova linea del fronte e che è tutto frutto di una macchinazione statunitense e sionista, il fallimento sarà sicuro. Per l'Arabia Saudita è un progetto suicida, un progetto per la distruzione; un piano che la distruggerà, a meno che non cominci a ragionare sul serio.
 
Karagul centra bene il punto: il tentativo di plasmare l'Islam secondo l'immagine della Westfalia cristiana ha una storia disseminata di disastri. La metafisica islamica non è la metafisica cristiana. E Mohammed bin Salman non può far diventare "moderata" l'Arabia Saudita semplicemente ordinandoglielo. Occorrerebbe intraprendere una vera e propria rivoluzione culturale per cambiare le basi del regno e allontanarle dai rigori dello wahabismo facendole approdare ad un Islam laicizzato di un qualche genere.
 
 
Ancora guerra?
 
Tutto questo sta portando il Medio Oriente alla guerra? Può darsi. Ma il Primo Ministro sionista Benjamin Netanyahu non è famoso per la propria audacia, è famoso per i toni della sua retorica, che spesso si sono dimostrati privi di sostanza. E i funzionari preposti alla sicurezza dello stato sionista si comportano con cautela, anche se ambo le parti si stanno davvero preparando per quella che Karagul chiama "una resa dei conti fra grandi potenze". Sembra comunque, a giudicare da questa e da altre dichiarazioni provenienti da ambienti turchi, che la Turchia starà dalla parte dell'Iran e dell'Iraq, contro l'AmeriKKKa e contro l'Arabia Saudita.
E il Presidente Trump? Trump è davvero e comprensibilmente preoccupato per la guerra a bassa intensità che gli stanno facendo sul piano interno. Probabilmente Trump va a dire a Netanyahu qualunque cosa possa aiutarlo in questa contesa, specie al Congresso dove Netanyahu esercita influenza. Insomma: se Bibi vuole un discorso infuocato contro l'Iran all'ONU, perché non farlo? A discorso fatto si può anche andare dal terzetto di generali della Casa Bianca e dirgli di "sistemare la cosa", come nel caso dell'accordo sul nucleare iraniano, passato al senato perché lo "sistemasse", ben sapendo che i generali una guerra contro l'Iran non la vogliono.
Il pericolo è che qualcosa cambi le carte in tavola. Cosa succede se lo stato sionista continua ad attaccare le installazioni militari e industriali in Siria (cosa che succede quasi tutti i giorni) e la Siria abbatte davvero un aereo sionista?