Traduzione da Consortium News, 29 gennaio 2018.

La scorsa settimana i leader politici dello stato sionista erano in brodo di giuggiole mentre il vicepresidente Mike Pence asseriva che, come cristiano sionista, era più sionista dei sionisti che siedono alla Knesset (a fare ovvia eccezione, i deputati arabi scacciati, si veda qui). Ci si potrebbe però domandare cosa stessero pensando i più sobri personaggi nei ranghi degli organismi di sicurezza dello stato intanto che ascoltavano il discorso di Pence alla Knesset, infarcito di citazioni bibliche e di attestazioni della sua "ammirazione verso il Popolo del Libro".
Magari si stavano chiedendo fino a che punto sarebbero stati in grado di spingersi nell'influenzare Pence e il suo padrone Donald Trump perché ricorressero al potere militare degli USA per portare avanti gli interessi dello stato sionista.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, per mezzo degli intermediari della famiglia Trump -Jared Kushner e gli avvocati di famiglia- ha sicuramente acquisito una certa influenza a Washington. Il panorama mediorientale è considerevolmente cambiato nel corso degli ultimi dodici mesi, ma il problema è proprio la natura di questo cambiamento. Quanti di questi cambiamenti sono andati verso gli interessi della sicurezza dello stato sionista o degli USA?
Quando il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) ha dato il via lo scorso giugno al colpo di stato che avrebbe alla fin fine portato questo trentunenne ad assumere il potere assoluto, il Presidente Trump se ne prese come al solito tutto il merito. "Abbiamo messo in cima il nostro uomo!" ebbe a vantarsi con gli amici secondo Michael Wolff, che ne parla nel suo Fire and Fury. E Trump aveva ragione. Beh, in parte.
L'uomo è arrivato in cima, ma a fare il grosso del lavoro perché la consolidata preferenza statunitense verso il successore al trono principe bin Naif cambiasse di verso sono stati Netanyahu -che manovrava dietro le quinte- e l'uomo di Mohammed bin Zayed (MbZ) a Washington, l'ambsciatore degli Emirati Arabi Uniti Youssef al Otaiba. E soprattutto è stato MbZ ad avvertire MbS che per diventare principe ereditario era condizione necessaria e sufficiente godere del sostegno dello stato sionista. Netanyahu e lo stato sionista non possono respingere una certa quale responsabilità per le condizioni in cui si trova adesso il regno.
E i sionisti, che hanno un atteggiamento solitamente più assennato, sono sempre a congratularsi con se stessi per il loro "uomo nuovo al comando"? E' lecito dubitarne perché l'Arabia Saudita si sta trasformando in un ordigno a orologeria fatto di rancori interni, familiari e tribali, e gli Emirati alla sua periferia si stanno chiedendo cosa succederà in questa nuova epoca in cui l'Arabia Saudita mostra in politica estera un attivismo sovraeccitato, o quale futuro li aspetta nel caso la bomba saudita dovesse esplodere ("Niente di bello", è la loro probabile conclusione.)
Inoltre, per quanto riguarda il secondo essenziale tratto dell'influenza dello stato sionista sull'amministrazione statunitense, basta prendere in considerazione i curdi. Il Ministro della Giustizia dello stato sionista Ayelet Shaked ha detto subito prima del referendum sull'indipendenza di Massud Barzani che "la fondazione dello stato del Curdistan è interesse sostanziale dello stato sionista e dei paesi occidentali". Ha poi aggiunto "credo che sia giunto il momento che gli USA sostengano questo processo". Anche Netanyahu ha sostenuto l'iniziativa curda, e sembra che abbia esortato Barzani ad andare avanti, nonostante le voci contrarie degli stessi curdi e di tutti i paesi confinanti. Un piano che non ha funzionato molto bene.
Innanzitutto Barzani ha fatto fiasco: la sua iniziativa è andata in fumo in ventiquattro ore costringendo a ricorrere al piano B, uno staterello curdo nella Siria settentrionale che sta anch'esso vacillando. Lo stato sionista non è riuscito ad ottenere le zone cuscinetto che avrebbe voluto a ridosso della linea armistiziale del Golan o alla frontiera tra Iraq e Siria. Non è riuscito neppure a tenere chiusa quella frontiera, per cui ha fatto sì che degli USA condiscendenti impiantassero una zona curda nel nord est della Siria. L'obiettivo è quello di mantenere la Siria in condizioni di debolezza, negando al governo centrale risorse petrolifere e di gas naturale e mantenendo il paese diviso e in condizioni di tensione oltre che quello di mantenere aperti i collegamenti fra il "progetto di stato" in miniatura nel nord della Siria e le zone curde dell'Iraq settentrionale.
Il "progetto" sionista per i curdi è molto concreto e di lunga data. Fu formalizzato con molta chiarezza nel 1982 nel cosiddetto piano Oded Yinon, in cui si prospettava la frammentazione del Medio Oriente secondo le logiche della divisione settaria. Quando il Ministro Shaked ha invocato uno stato curdo, dicendo che avrebbe fatto parte integrante degli sforzi dello stato sionista volti a riplasmare la regione, molto probabilmente lo fa fatto tenendo presente il piano Yinon, in cui si prospettava la frammentazione dell'Iraq in stati distinti.
Ma ancora una volta, e nonostante il fallimento di Barzani, ci si è spinti troppo in là. Mosca e Damasco hanno offerto ai curdi un compromesso che consentirebbe loro un certo grado di autonomia, ma insiste sulla tutela della sovranità statale in tutta la Siria. I curdi hanno di forza rifiutato, a quanto pare credendo che Washington li sostenesse. Anche il Centcom statunitense si è esposto troppo: ha fornito ai curdi armi anticarro avanzate, e anche missili antiaerei spallabili.
I turchi ovviamente hanno avuto quello che volevano. Armamenti del genere in mano curda cambiano l'intero equilibrio strategico. Quelle armi non hanno nulla a che fare con lo spingere il Presidente Assad a consentire modifiche alla costituzione siriana: questa versione dei fatti non è plausibile. La fornitura di queste armi serve a potenziare i curdi nel senso previsto dallo Oded Yinon, non solo in Siria e in Iraq, ma come un cuneo in grado di indebolire e frantumare anche la Turchia. Non c'è da meravigliarsi che i curdi di Anfrin si mostrassero così sicuri di se stessi. E non sorprende che esperti osservatori turchi come Ibrahim Karagul (un editorialista importante, vicino a Erdogan) abbiano chiaramente detto che dietro la volontà di mandare in pezzi lo stato turco c'è la mano dello stato sionista.
Che risultati si sono raggiunti, allora? Ormai ad Ankara è passata di brutto, e probabilmente senza rimedio, qualsiasi infatuazione nei confronti di Washington. Damasco sta riprendendo con calma Idlib da cui sono spariti i gruppi dell'opposizione armata, mandati d'imperio da Ankara a dare una mano ad Anfrin. Il Presidente Assad soffre di meno pressioni e la Turchia si è orientata ancor più deliberatamente verso l'asse Russia - Iran - Iraq. Washington si sta pentendo di aver suscitato la rabbia dei turchi, ma che altro si aspettava? Era dalla conferenza stampa del 19 maggio tenuta dal generale Mattis che si sapeva come sarebbe finita.
Ed ecco il terzo importante campo dell'influenza di Netanyahu sulla politica statunitense: l'incoraggiamento per Trump affinché affossi l'accordo sul nucleare iraniano. In questo, ad essere sinceri, Bibi ha sfondato una porta aperta: sembra proprio che il suo desiderio possa trasformarsi in realtà. Pence ha detto che Trump rifiuterà di firmare l'alleviamento della sanzioni statunitensi il prossimo maggio. Ma come oggi Washington deve pentirsi della reazione turca alle proprie iniziative in Curdistan, così è probabile che lo stato sionista dovrà pentirsi di aver affossato l'accordo. Davvero la leadership sionista crede che il minuscolo Mohammed bin Salman, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti avranno la meglio sull'Iran e sui suoi alleati? E le forze armate sioniste davvero credono nel pieno sostegno ameriKKKano, nel caso si arrivasse ad un conflitto regionale?
Infine, c'è la questione dell'"accordo del secolo". Ecco, spedire Pence a minacciare la Giordania, l'Egitto e i palestinesi di azzerare loro i finanziamenti completa un quadro in cui lo stato sionista è intento a tracciare una linea molto stretta e molto di parte per il sostegno ameriKKKano e in genere mondiale. Una linea che contempla Jared Kushner -il genero di Trump- David Friedman -il suo specialista in questioni di bancarotta- e Jason Gleenblatt -un avvocato specializzato in questioni immobiliari, ex capo dell'ufficio legale al lavoro per varie società di Trump.
Lo stesso Haim Saban, fondatore del Saban Center alla Brookings e sionista acceso, ha fatto notare il mese scorso a Kushner (secondo quanto scrive lo American Lawyer):
 
"Un pugno di ebrei ortodossi che non hanno alcuna concezione di alcunché", è la definizione della compagine di Kushner data dall'uomo d'affari sionista-statunitense Haim Saban nel corso di un question time al forum della Brookings Institution a Washington nel corso di questa settimana.
"Della squadra fanno parte un imprenditore, che sei tu, un avvocato immobiliarista e uno specializzato in questioni di bancarotta. Non so come tu abbia fatto a reggere per otto mesi con una formazione del genere. Non c'è un solo macher di Medio Oriente in questo gruppo," ha detto Saban usando il termine in yiddish per pezzo grosso.
Kushner, oratore principale della giornata, ha risposto che la squadra, pur "non convenzionale", era "assolutamente competente". Poi si è messo a descrivere Friedman come "uno dei massimi esperti legali di questioni di bancarotta, amico intimo mio e del Presidente."
Haim [Saban] ha rilevato che in effetti la situazione in Medio Oriente non è mai stata tanto alla bancarotta come oggi."
Magari Netanyahu giungerà a pensare che nel tracciare una linea tanto stretta è finito col mettere lo stato sionista in una posizione precaria. Può anche compiacersi per come Trump e Pence stanno umiliando i palestinesi oggi come oggi, ma catalizzando la politica estera ameriKKKana in senso profondamente contrario alla regione nel suo complesso -non solo all'Iran, alla Siria, al Libano e all'Iraq, ma al punto di minacciare anche paesi interlocutori come la Giordania e l'Egitto- il Primo Ministro sionista non fa che andare verso una prossima crisi: lo stato sionista può ritrovarsi isolato e senza amici. Persino gli Stati del Golfo stanno cambiando orientamento -o ricollocandosi, se si preferisce- a fronte della profonda incertezza che domina in Arabia Saudita.
L'AmeriKKKa di oggi è profondamente polarizzata: entrambi i poli si oppongono in maniera riflessa e denigrano a vicenda in modo instancabile i rispettivi punti di vista su ogni questione di politica estera e di politica interna. Anche nel più ampio filone del nazionalismo culturale oggi in vista in AmeriKKKa e in Europa la ristretta compagine che Trump ha messo a occuparsi di Medio Oriente non è neppure rappresentativa della cultura della "destra alternativa" in senso generale, quella che in fin dei conti forma la base di Trump. Prova di questo, dato l'insistere della destra alternativa sulle condivise radici giudaico-cristiane, è il fatto che la destra alternativa considera i propri fondamenti culturali in modo ancor più ristretto. Il sostegno a tutto campo su cui lo stato sionista pensa di poter contare potrebbe rivelarsi molto evanescente.
A Washington in generale saltano agli occhi gli errori di valutazione; le conseguenze si vedono nei messaggi ondivaghi che arrivano dall'Amministrazione e nel fatto che una macchina statale unita si frammenta in feudi ministeriali litigiosi, che la Casa Bianca non sembra in grado di controllare (si veda qui la questione della Turchia).
Il Medio Oriente -e non solo il Medio Oriente- ha appena evitato un serio conflitto nel 2017; nel 2018 potremmo non essere altrettanto fortunati. Trump viene considerato il miglior amico dello stato sionista, ma lo è davvero? Il futuro dello stato sionista, a un anno dal suo insediamento, si presenta molto meno certo. Il panorama è diventato fosco. Lo stato sionista ha mal giudicato gli eventi in Siria, ha mal giudicato le pedine di cui disponeva nel paese, e probabilmente scoprirà di aver mal giudicato anche Mohammed bin Salman. Adesso, ecco un altro errore di calcolo, stavolta a proposito della Turchia. Il prossimo errore può ben farlo sul conto dell'Iran.