Traduzione da Strategic Culture, 28 maggio 2018.

Hanno già coniato e pubblicato la madaglia commemorativa. Raffigura Trump e Jong Un di profilo uno di fronte all'altro per lo storico incontro del dodici giugno in cui ci si  aspetta che Jong Un rinunci per sempre agli armamenti nucleari e riceva da Trump la grazia di una benedizione. Al momento in cui scriviamo la riunione è in forse e pare sia stata cancellata, cogliendo di sorpresa Moon e Abe e lasciando Trump frustrato e irritato. Come avevamo previsto, invece di prendere atto del fatto che i suoi non avevano ascoltato bene quello che Kim Jong Un gli aveva fatto sapere, Trump se la prende con Xi che avrebbe messo i bastoni tra le ruote.
Il Global Time cinese centra l'essenza della questione:
 
Gli USA pretendono unilateralmente un'immediata denuclearizzazione della penisola prima di passare a Pyongyang qualunque contropartita. La Cina non si opporrà a un accordo di questo tipo fra USA e Corea del Nord; ma Washington è in condizione di conseguire un risultato del genere? Pyongyang una risposta in questo senso l'ha appena fornita... Se Washington facesse pressione su Pyongyang per acquisire un vantaggio nei negoziati andrebbe anche bene, ma Washington dovrebbe pensarci due volte perché c'è la possibilità di far tornare la penisola coreana a un antagonismo intransigente.
Dal punto di vista della Cina è chiaro che gli USA hanno sopravvalutato il proprio peso, quando hanno deciso di costringere la Corea del Nord ad accettare le loro richieste. Gli USA hanno dimenticato l'imbarazzante situazione dello scorso anno, quando non sono riusciti a fermare i test missilistici e nucleari coreani, e la difficoltà dell'intraprendere un'azione militare contro la Corea del Nord.
Gli USA hanno sempre creduto che la Corea del Nord li ingannasse, cosa che in realtà è tutt'altro che esatta. Sono stati gli USA i responsabili degli insuccessi della diplomazia nella penisola, e anche in molti casi.
 A irritare Trump c'erano anche le aspre considerazioni dei "falchi commerciali" sul fatto che i negoziati commerciali con la Cina non avessero ancora prodotto nulla di concreto. Steve Bannon, per esempio, ha detto al Bloomberg che Trump " aveva cambiato tutto quanto nel modo di affrontare la Cina, ma il Segretario Mnuchin ha rimesso tutto come stava nel corso di un fine settimana". Il Presidente sembra orientato ad assumere una posizione più dura sul commercio con la Cina perché a suo dire i colloqui non hanno portato a gran che, e ci sarebbe bisogno di una nuova prospettiva.
La cancellazione dell'incontro a Singapore, la cui colpa è stata in parte addossata a Xi, e la delusione per l'andamento dei colloqui sui traffici commerciali arrivano al Pentagono, che revoca l'invito alla Cina a partecipare al RIMPAC, "la più grande esercitazione navale del mondo", a causa dei gesti aggressivi di Pechino nel mar della Cina meridionale, dove stando ai resoconti disponibili avrebbe installato in silenzio alle isole Spratly dei missili "difensivi" in grado di raggiungere il territorio statunitense. Per nulla intimorita dalle minacce del Pentagono, la Cina ha risposto ricordando che il nuovo caccia stealth di quinta generazione J20 effettuerà d'ora in avanti voli di pattugliamento nello spazio aereo di Taiwan. Un chiaro segnale che Xi vuole indietro la "sua" isola, e sta progettando di riprendersela.
Insomma, gli attriti degli USA con la Cina sono in fase di crescita e possono ulteriormente inasprirsi se Washington intende minacciare azioni militari di un qualche tipo contro la Corea del Nord.
Gli attriti non ci sono solo con la Cina. La conversione di Trump a un neoameriKKKanismo a tutto tondo (si veda qui) sembra aver messo Washington a contrasto con il mondo intero: guerre commerciali con Cina, Russia, Unione Europea e Giappone, sanzioni contro la Russia, contro l'Iran e contro altri paesi, guerre valutarie con la Turchia, l'Iran e la Russia eccetera eccetera. Una serie di frizioni di questo livello e di questa gravità non è sostenibile. Una tensione di questo genere cessa perché qualcosa salta (e salta in modo esplosivo) e vi pone fine, o perché si verifica una virata di centoottanta gradi nel linguaggio e nel comportamento, ad alleviarla in modo meno traumatico. Oggi come oggi siamo ancora nella fase ascendente. Trump ha provocato tutti, anche i solitamente accomodanti europei, come mai prima. Di conseguenza -e senza volerlo- ha accelerato in modo rimarchevole l'instaurazione di un nuovo ordine mondiale; alzando la tensione geopolitica praticamente ovunque ha provocato un'accelerazione nell'abbandono del dollaro a livello mondiale.
Gli europei assicurano che al momento di decidere hanno scelto deliberatamente di non concepire l'eurozona come qualcosa di distinto e di separato rispetto all'egemonia del dollaro; adesso ne pagano il prezzo perché non possono fare nulla per rimediare al fatto che i loro scambi commerciali con l'Iran sono di fatto fuori legge. Ormai troppo tardi per rimediare, l'Unione Europea propone di abbandonare il petrodollaro in favore dell'euro per acquistare il petrolio iraniano, ma con tutta probabilità non riuscirà nell'intento. I leader della UE sono rimasti scioccati e irritati per la determinazione con cui gli USA sono decisi a strangolare qualsiasi scambio fra l'Unione Europea e l'Iran.
Interessante considerare come la Cina considera la natura degli attriti con gli USA e come ne indichi la causa fondamentale. Sul Global Times si comincia con un'aperta ammonizione: "Alla fine della seconda sessione di colloqui la scorsa settimana, vari articoli pubblicati su media [statunitensi] salutavano la fine delle minacce di una guerra commerciale. Alcuni si spingevano ad affermare che la Cina aveva vinto il primo round nei negoziati con gli USA. Questa conclusione è del tutto errata, e l'idea che i contrasti siano stati risolti non ha alcun fondamento. Ancora non c'è stata alcuna guerra commerciale, ci sono stati solo degli avvertimenti..." [corsivo dell'A., N.d.T.] L'articolo prosegue dicendo che i deficit commerciali degli USA non costituiscono il motivo essenziale dei dissapori fra i due paesi. "Il punto essenziale è il monopolio del dollaro USA nel mercato globale", e l'uso obbligato del dollaro per effettuare pagamenti. Gli USA devono "evitare una eccessiva circolazione del dollaro e lasciare che si faccia maggior uso di valute come lo yuan e l'euro, per promuovere una circolazione monetaria più equilibrata... [e] gli USA devono correggere la propria politica monetaria".
Il Presidente Putin sta dicendo la stessa cosa: in un discorso al parlamento russo ha detto che "il mondo intero vede che il monopolio del dollaro non è una cosa affidabile: è pericolosa per molti, non solo per noi". Ha aggiunto che esiste un crescente utilizzo improprio delle sanzioni e delle azioni commerciali tramite il WTO, specie ad opera degli USA, per assicurarsi vantaggi competitivi o per frenare lo sviluppo economico della concorrenza, cosa di cui si lamentano soprattutto i cinesi.
Insomma, vogliono che la palude dell'ordine mondiale a guida statunitense venga bonificata, almeno quanto Trump vuole vedere bonificata la palude di Washington.
Trump comunque sembra contento quando usa tattiche da palude in politica estera per far tornare grande l'AmeriKKKa, anche se in patria si lamenta per la palude dello establishment. Il fatto è che il mondo non occidentale non si fa più incantare dai giochetti della palude dell'ordine mondiale a guida USA, proprio come la base di Trump: il mondo non occidentale vuole la fine dell'egemonia del dollaro, ed il ripristino della sovranità, e si sta raggruppando sul piano politico per raggiungere questi obiettivi. Sembra che si stia arrivando a una certa unificazione, sia pure con le distinzioni fra le parti.
Il ricatto in stile mafioso di Trump verso la Cancelliera Merkel ("o mollate il Nord Stream II o vi rimettiamo al vostro posto, voi tedeschi, con l'acciaio e l'alluminio") sta innanzitutto facendo da catalizzatore per un possibile mutamento di rotta dell'intera politica europea.
Gli europei si sono a lungo mostrati ondivaghi sul piano delle sanzioni contro la Russia: gli interessi tedeschi e quelli dello stato che occupa la penisola italiana sono stati colpiti in maniera pesante sul piano finanziario, ed è stata la Merkel a indicare sostanzialmente la linea da seguire. Le sanzioni dell'Unione Europea hanno a che vedere solo con la questione dell'Ucraina. e la Cancelliera ha parlato lungamente dell'Ucraina con Putin a Soci. A Soci Putin ha presentato due idee: una forza di pace dell'ONU in Ucraina, e la prosecuzione del trasporto del gas russo attraverso il corridoio ucraino -cosa importantissima per l'Unione Europea- se si dovesse dimostrare un'iniziativa fattibile dal punto di vista commerciale.
Se queste proposte si concretizzassero, permetterebbero alla Merkel di fronteggiare "l'inevitabile no dello stato che occupa la penisola italiana al rinnovo delle sanzioni contro la Russia a settembre". La Merkel potrebbe assumere nuovamente un ruolo guida, e portare avanti iniziative per conto proprio. Un balsamo per l'ego europeo dopo la brutta esperienza dell'accordo sul nucleare iraniano. Alleviare l'irritante problema ucraino in questo modo permetterebbe alla Germania di considerare la Russia come un partner naturale, proprio adesso, nell'era dei dazi statunitensi in cui è ancor meno probabile segnare un punto contro un debito europeo fuori controllo o nel rifinanziare le infrastrutture francesi. La cosa permetterebbe alla Merkel anche di disinnescare in qualche modo la bomba immigrazione, elaborando in accordo con Putin un meccanismo che permetta al milione di rifugiati siriani presenti in Germania di tornare a casa. La prossima settimana la Merkel si recherà in Cina, a cercare il modo di rendere sopportabili le pressioni statunitensi sull'Europa schierandosi con l'AmeriKKKa contro la Cina. Potrebbe succedere al contrario che la Germania finisca con l'avvicinarsi alla Cina -che ha già effettuato corposi investimenti in Germania- invece che agli Stati Uniti. In ogni caso la Germania non può evitare facilmente di finire sotto il tiro incrociato di questa guerra commerciale.
Ovviamente lo establishment britannico farà praticamente tutto per impedire che il centro di gravità della politica lasci le coste dell'Atlantico per spostarsi verso est. Il capo del British Security Service, il MI5, è già stato mandato in missione per conto di Washington a fare propaganda su una "minaccia" russa rivolta a un insieme di trenta paesi europei; l'inviato degli USA a Kiev, Kurt Volker, ha affermato che gli ameriKKKani sosterranno militarmente la riconquista dell'autoproclamata repubblica secessionista di Donetsk e di quella di Lugansk.
Poi c'è il Giappone, che ha considerato per molto tempo la penisola coreana come un cuscinetto fra l'arcipelago e il continente. Il fatto che fosse politicamente divisa e che al Sud fossero di stanza truppe ameriKKKane è sembrato costituire una garanzia di questa funzione. Adesso però il Sud ha dato a Moon il mandato di procedere alla riunificazione; in risposta Kim Jong Un ha iniziato in maniera teatrale un'accattivante offensiva diplomatica. Lo status quo del cuscinetto, fin qui dato per scontato, scontato non è più. Potrebbe intervenire un accordo e, sia pure in potenza, col tempo l'influenza cinese potrebbe aumentare. Il professor Victor Teo ha notato che "il fatto che Trump abbia concordato un incontro col leader nordcoreano Kim Jong Un ha messo da parte Abe e gli ha segato le gambe".
Sia pure a livello potenziale, si tratta di un problema grave per il Giappone che perderebbe il cuscinetto che lo separa dalla Cina e che perderebbe il proprio ombrello difensivo in proporzione a qualunque ipotetico ritiro statunitense dalla regione. Politico scrive che altrettanto snervante è stato "l'apparente voltafaccia di Trump sul partenariato transpacifico. A gennaio 2017, dopo tre giorni dall'insediamento, Trump ha stracciato l'accordo commerciale che Obama aveva stretto con dodici paesi per arginare l'influenza della Cina. [...] La cosa ha umiliato Abe, che sessantasette giorni prima si era precipitato alla Trump Tower per scongiurare l'uscita di Washington dal partenariato transpacifico. Dodici mesi dopo Trump ha rincarato la dose adottando una politica di indebolimento del dollaro e schiaffando dazi sull'acciaio e sull'alluminio, del venticinque e del dieci per cento rispettivamente. Ha dispensato  esenzioni per il Canada, il Messico e altri paesi, ma nessuna per il carissimo amico Abe. Poi Trump ha avanzato la proposta di dazi sulle merci cinesi per centocinquanta miliardi di dollari in complesso. E la Cina è il principale mercato per le esportazioni giapponesi."
Non c'è da stupirsi se Abe si sia rivolto alla Cina, sia per coprirsi le spalle sui dazi statunitensi sia per infilare il Giappone nei colloqui strategici sul futuro della Corea. Il premier cinese Li Keqiang è stato in visita ufficiale a Tokio il 9 maggio, per partecipare a colloqui a tre con il leader giapponese e quello sudcoreano.
Il fatto è che questa rifondazione delle relazioni a tre è venuta dopo una serie di colloqui ai massimi livelli in materia di economia svoltisi il mese scorso fra Cina e Giappone. Se si ha presente il chiaro ammonimento della Cina sul problema del dollaro e sulla necessità di ampliare il ricorso allo yuan e ad altre valute nei traffici commerciali, non è difficile intuire che se i colloqui avranno successo i commerci fra Cina e Giappone abbandoneranno gradualmente il dollaro.
A proposito degli stessi argomenti, Lawrence Sellin scrive sul The Daily Caller che
 
..L'impegno cinese per la cooperazione fra Iran e Pakistan è stato anch'esso fruttuoso. Negli ultimi mesi sono stati siglati molti accordi commerciali e nei settori della difesa, dello sviluppo di armamenti, del controterrorismo, in campo bancario e ferroviario, nella cooperazione parlamentare e da ultimo anche nelle arti e nella letteratura.
Colloqui segreti in materia di sicurezza fra militari cinesi, pakistani e iraniani sono in corso da almeno un anno. Un grosso incentivo alla discussione è stato il progetto cinese per la costruzione di una base navale sulla penisola pakistana di Jiwani, nell'immediate vicinanze di Gwadar e vicino alla frontiera iraniana...
Un'alleanza fra Cina, Iran e Pakistan avrebbe ripercussioni di vasta portata per la politica estera statunitense. Tanto per cominciare renderebbe insostenibile il corrente impegno in Afghanistan e porterebbe con ogni probabilità all'uscita degli ameriKKKani dal paese, a condizioni dettate da cinesi e pakistani. Poi segnerebbe l'inizio di una strategia di estromissione e di divieto d'accesso alla Quinta Flotta statunitense per le acque del Golfo Persico e del Mar Arabico simile a quella che i cinesi hanno cercato di realizzare contro la Flotta del Pacifico nel Mar Cinese Meridionale. Il solo prendere in considerazione un'alleanza come questa potrebbe fornire agli iraniani uno strumento di pressione di tutto rispetto per quanto riguarda le sanzioni statunitensi.
L'Iran è già entrato nella zona economica di libero commercio dell'Asia orientale, e il 9 giugno parteciperà anche all'incontro del 2018 del Consiglio per la Cooperazione di Shanghai. Non pare proprio che l'Iran stia soffrendo di emarginazione a livello internazionale per le vicende legate all'accordo sul nucleare.
A tenere insieme tutte le tessere di questo mosaico è l'idea cinese -nonché russa e iraniana- che lo yuan e l'euro debbano essere più facilmente utilizzabili come moneta di scambio, e che "gli USA correggano la propria politica monetaria", che non deve più oscillare fra cicli di forza e di debolezza in quel modo che è tanto remunerativo per le istituzioni finanziarie ameriKKKane ma letale per i mercati emergenti. Su questo sono praticamente tutti d'accordo.
Perché si arrivi a questo, la Cina ha bisogno di ampliare e di rafforzare la base dello yuan, e costruire un mercato liquido per il debito sovrano cinese. La borsa dei futures sul petrolio a Shanghai ha già un suo impatto sul mercato delle emissioni cinesi; è in esso che gli investitori piazzano i propri ordini, consapevoli del fatto che lo yuan è convertibile in oro. Le sanzioni statuitensi contro l'Iran tireranno la volata a questo fenomeno perché il petrolio iraniano verrà trattato a Shanghai. La borsa londinese dei metalli, che è di proprietà cinese, ha recentemente annunciato che inizierà a trattare anche opzioni su merci emesse in yuan. Presto ci saranno benchmark per le merci basati sullo yuan. Insomma, il ricorso al dollaro nelle transazioni commerciali che non coinvolgono gli USA sta progressivamente diminuendo.
Sembra che la seconda condizione che i cinesi considerano necessaria perché il mondo dei commerci si riequilibri grazie alla "correzione della politica monetaria" statunitense stia verificandosi, quasi secondo serendipità, grazie a dinamiche finanziarie interne che procedono per conto proprio. Il "dollaro debole" di Trump ha lasciato il passo per una serie di motivi a un forte apprezzamento. Ci sono dunque le condizioni ideali perché la Cina svaluti senza scosse lo yuan, che nel corso dei mesi scorsi ha acquistato valore sul dollaro, e perché anche l'Europa faccia lo stesso, in un ribasso coordinato contro l'impennarsi del dollaro. Il tasso di cambio più basso dello yuan e dell'euro non farà che rovesciare, in parte o del tutto, l'impatto delle sanzioni statunitensi sulle esportazioni verso gli USA. Chissà se la Merkel ha in agenda un'operazione monetaria di questo genere, per il suo prossimo viaggio in Cina.
Insomma, cosa succede se queste politiche statunitensi si rivelano insostenibili? Il punto debole fondamentale della dottrina neoconservatrice basata sull'esercizio della massima pressione è il fatto che in essa non è previsto alcun passo indietro che non si presenti come un'umiliazione nazionale. Di solito se con le pressioni non si ottiene niente si considera scontato che non se ne sono fatte abbastanza. Per esempio, Trump attribuisce la debolezza dei termini dell'accordo sul nucleare iraniano al fatto che Obama non riuscì a tenere sotto sanzione l'Iran per un periodo di tempo sufficientemente lungo. Secondo Trump, Obama allentò la morsa troppo presto, e ottenne un "accordo viziato da debolezza".
Una questione più profonda, avanzata anche dalla Cina rispetto alla Corea del Nord, è che esistono altri che non pensano secondo la logica del Presidente Trump. L'utilitarismo radicale che traspare nell'affermazione di Trump secondo cui Kim Jong Un si troverà "più sicuro, più felice e più ricco" se deciderà di sottostare al suo ultimatum riflette esattamente il materialismo superficiale che ormai ispira tutta la politica mondiale. L'esortazione a ritornare ai valori nazionali tradizionali, bollata come "populismo", costituisce esattamente la negazione delle politiche ispirate ad un utilitarismo alla John Stuart Mills; essa è foriera della volontà di ritornare esseri umani a tutto tondo.