Traduzione da Strategic Culture, 28 gennaio 2019.
 
Secondo Antonio Gramsci un interregno è un periodo "in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere; in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati". In epoche del genere il nuovo è percepito come folle, malvagio e pericoloso da considerare.
Il Regno Unito sta chiaramente attraversando un interregno; un periodo in cui le élite che hanno fino a oggi gestito il discorso politico -come lo chiama Michel Foucault- entro precisi limiti di consenso scoprono adesso che esso viene pesantemente contestato. Periodi simili sono anche momenti in cui si perde di lucidità, periodi in cui si pensa che i limiti del ragionevole vengano meno. Cosa che in effetti succede.
I paradossi dell'interregno diventano roba d'ogni giorno quando una Camera dei Comuni democraticamente eletta si schiera in opposizione a un referendum popolare, si oppone alla legislazione derivante che pure ha essa stessa approvato e arriva a baloccarsi con l'idea di rovesciare il principio per cui è il governo che deve governare, per passare all'idea che al suo posto dovrebbe farlo una mutevole ed effimera aggregazione di parlamentari non governativi e provenienti da ogni partito. E anche così quell'assemblea non riesce a produrre un'alternativa su cui esista qualche accordo. Per quanto sia strano, non è sorprendente che (forse) la maggior parte di quanti intendono restare nella UE provi adesso un brivido di panico autentico, davanti alla scioccante scoperta del fatto che non esiste una soluzione univoca.
Anche in Francia lo establishment culturale è stato colpito da un trauma psicologico dello stesso genere. Come scrive Christopher Guilloy, "Adesso le élite hanno paura. Per la prima volta esiste un movimento che non è controllabile ricorrendo ai meccanismi della politica ordinaria. I gilets jaunes non vengono dai sindacati o dai partiti politici; non possono essere fermati. Non esiste un tasto "Off". L'intelligencija sarà costretta a farsi una ragione dell'esistenza di questa gente, o dovrà propendere per una qualche specie di totalitarismo di velluto."
L'ultima settimana di gennaio 2019 il vertice di Davos è stato messo a rumore da una lettera, che ha conosciuto ampia diffusione, scritta da un gestore di fondi che è diventato un'icona e una sorta di oracolo. Seth Klarman ha inviato un avvertimento perentorio ai propri clienti: la crescente sensazione di divisione politica e sociale che serpeggia per il mondo potrebbe portare a un disastro economico. "Non si possono fare affari come di consueto in mezzo a proteste incessanti, rivolte, serrate e crescenti tensioni sociali," ha scritto citando le proteste dei gilets jaunes in Francia che si sono diffuse in altri paesi d'Europa. "Ci chiediamo quando potranno gli investitori tenere in maggiore considerazione tutto questo", afferma, aggiungendo che "la coesione sociale è una cosa essenziale agli occhi di chi ha un capitale da investire."
La diffusione della lettera di Klarman aggiunge del suo al disagio che si sta diffondendo nello establishment globalista. E alla base di questa sensazione di ansia si trova per la precisione il possibile sgretolarsi di due grandi miti: il mito monetario, e il mito millenarista del Nuovo Ordine Mondiale sorto dai massacri della prima guerra mondiale. Il concetto di guerra eroica e nobile morì con la morte di una generazione di giovani sui campi della Somme e di Verdun. La guerra, eroica non lo fu più. Fu solo un disgustoso tritacarne. Milioni di uomini si erano sacrificati per il "sacro" ideale dello stato-nazione. Il concetto romantico e ottocentesco di stato-nazione "puro" esplose, e ne prese il posto l'idea -alla fine consacrata dalla caduta dell'Unione Sovietica- del Destino Manifesto degli Stati Uniti, la Nuova Gerusalemme che avrebbe rappresentato le migliori speranze dell'umanità per un mondo prospero, meno segnato dalle divisioni, più omogeneo e cosmopolita.
La promessa di una prosperità per tutti facile da raggiungere, forzatamente attuata con mezzi monetari -ovvero con la massiccia creazione di debito- ha rappresentato il corollario di questo allettante, idealistico risultato. Oggi non servono più dati di fatto a sostegno: i mezzi hanno deluso la maggioranza (ovvero i gilet e i cosiddetti "impresentabili") e ora perfino i gestori di fondi dalla fama oracolare come Klarman ammoniscono le presenze assidue di Davos che "i semi della prossima grande crisi finanziaria (o di quella successiva) possono essere identificati nel livello del debito sovrano oggi raggiunto". Klarman espone nel dettagli il modo in cui praticamente tutti i paesi sviluppati si sono indebitati in misura sempre maggiore dopo la crisi finanziaria del 2008; una tendenza che a suo dire può portare la finanza nel panico.
Il signor Klarman è preoccupato soprattutto per il debito statunitense, di quello che può significare per lo status del dollaro come valuta mondiale di riserva e dell'impatto che esso potrebbe in ultima analisi avere sull'economia del paese. "Non esiste modo di sapere quando il debito è troppo, ma l'AmeriKKKa raggiungerà senza dubbio un livello critico superato il quale un mercato del debito fattosi improvvisamente più sospettoso rifiuterà di accordarci prestiti a tassi per noi accettabili," ha scritto. "E quando una crisi del genere colpirà, sarà probabilmente troppo tardi per correre ai ripari."
Questo artificio monetario ha sempre portato a risultati illusori: l'idea che ricchezza vera sarebbe nata da un debito enfiato per decreto, che la sua espansione non avrebbe avuto limiti, che tutto il debito poteva e doveva essere onorato, e che l'eccessivo indebitamento doveva essere risolto indebitandosi ancora di più non è mai stata credibile. Era una fantasia che rifletteva la fede laica in una inevitabile e lineare strada fatta di progresso, un concetto che riecheggiava la credenza millenaristica cristiana del percorso verso una "fine dei tempi" fatta di abbondanza e di pace, credenza da cui peraltro derivava.
Nel 2008 le grandi banche erano a un niente dal collasso. Furono salvate dai contribuenti occidentali perché i rischi di un crollo della finanza furono giudicati troppo gravi dalle élite. Solo che poi anche i soccorritori -i vari paesi sovrani che hanno preso l'iniziativa- hanno a loro volta avuto bisogno di aiuto, e per salvarsi hanno massacrato il welfare e gli ammortizzatori sociali per turare le falle nei loro stessi disastrati bilanci. Questo, dopo aver provveduto a risanare i bilanci delle loro banche.
Il sessanta per cento della gente ha pagato tre volte. La prima con il salvataggio iniziale, la seconda con l'austerità che seguì, la terza quando le banche centrali ripresero le loro politiche di emissioni gonfiate e di depauperamento del risparmio. A fronte di questa ignobile contropartita, quel sessanta per cento prese coscienza della propria impotenza ma si accorse anche di non avere nulla da perdere. Era un gioco che non lo riguardava.
La narrativa di una agevole prosperità basata sul debito è stata quella che ha caratterizzato l'identità dell'Occidente nel corso degli ultimi decenni. >Ci è voluto comunque un outsider per innescare quello che, come ha preso atto con sarcasmo lo Washington Post, è stato il momento più rivelatore del vertice di Davos di quest'anno. Rivelatore, semplicemente perché di una assoluta ovvietà. A un gruppo di lavoro sui fallimenti dell'ordine mondiale Fang Xinghai, vicepresidente della principale agenzia per la sicurezza del governo cinese, ha ricordato con semplicità all'uditorio quale sia il rovescio della medaglia del rullo compressore monetario occidentale: "Dovete capire che la democrazia non sta funzionando molto bene. Nei vostri paesi c'è bisogno di riforme politiche." Ha soggiunto che questo lo diceva "con sincerità".
Accidenti: c'è voluto un funzionario cinese, per dire quello che non si poteva dire...
Comunque, è inevitabile che i danni dovuti al crollo di un mito affermatosi su scala mondiale comincino dalla periferia. Quello che a volte si tralascia è il fatto che le élite, specie negli stati nazionali fittizi messi in piedi dal colonialismo europeo dopo la prima guerra mondiale, non solo hanno definito se stesse in base a una narrativa del "non ci sono alternative" rispetto alla prosperità prodotta ricorrendo al credito, ma si sono anche integrate nella élite ricca cosmopolita internazionale. Ci sono, e ne sono parte integrante. Hanno tagliato le proprie radici culturali, eppure avocano a sé la pretesa di primeggiare nel mondo da cui provengono.
Un esempio di quanto sopra sarebbe quello dei paesi del Golfo. Ovviamente, uno starnuto a Davos significa polmonite per le élite periferiche. E se questa crisi di identità si accompagna ai presagi di una crisi finanziaria che incombe anche sul centro, la polmonite diventa grave. Non c'è da sorprendersi se l'ansia sta montando nelle élite di quella periferia che è il Medio Oriente. Esse sono consapevoli del fatto che qualsiasi crisi finanziaria seria che colpisca il centro nevralgico segnerebbe la loro fine.
Ecco il punto. Il discorso di Mike Pompeo al Cairo non è importante per quello che Pompeo ha detto sulla politica ameriKKKana (ovvero nulla). Piuttosto potrebbe succedere che venga inteso come punto saliente per tutt'altro genere di motivi. Il discorso di Pompeo ha mostrato che la visione di un nuovo ordine mondiale che ha retto per trent'anni era ormai defunta e che di altre visioni non ne esiste alcuna. Niente proprio. Di chiaro c'era che Pompeo stava solo combattendo con armi verbali un'altra battaglia della "guerra civile" ameriKKKana.
Anche John Bolton ha concretamente confermato l'abbandono di questa visione. Dal momento che l'AmeriKKKa non ha nulla da offrire, sta ricorrendo a tattiche di disturbo come sanzionare qualsiasi uomo d'affari o qualsiasi paese che contribuiscano alla ricostruzione della Siria. All'atto pratico, gesti del genere non fanno che turbare ancora di più gli alleati degli USA.
Ancora una volta sfugge una questione importante: la narrativa identitaria delle élite traballa, ma già altre forme culturali e "spirituali" si sono fatte vive per riempirne la nicchia. Come ha già notato Mike Vlahos, i paesi del Medio Oriente non si stanno indebolendo e non stanno andando in malora tanto a causa di concrete minacce fisiche, quanto perché al posto della corrente identità cosmopolita si sono affermate visionoi altrettanto coinvolgenti di tipo locale ed universalistico, spesso in mezzo a un tessuto intricato fatto di attori non statali come Hezbollah, Hashd al Shaabi e gli Houti.
E queste visioni non fondano le proprie istanze sul liberalismo o sulle economie del mondo sviluppato dominate dal consumismo e dallo stato sociale, ma sul riaffermare i punti di forza e la sovranità del loro contesto sociale. E nel loro diritto di vivere secondo le loro (diverse) culture. Esse prosperano laddove maggiore è il bisogno di uno scopo e del ripristino dei valori nella società.
Come i gilets jaunes si stanno rivelando tanto difficili da contenere tramite i normali meccanismi della politica, così anche questi attori non statali connotati dall'alterità hanno eluso il controllo da parte dei meccanismi statali del Medio Oriente che fanno ricorso ai normali sistemi occidentali. Il totalitarismo vero e proprio e quello di velluto si sono rivelati entrambi privi di una piena efficacia.
Il fatto è che siamo davanti a un profondo mutamento nel potere e nella natura del potere stesso. Per la prima volta, un funzionario ameriKKKano ha esplicitamente detto che gli USA non hanno alcuna visione del futuro e che oggi gli USA in Medio Oriente possono comportarsi solo come degli elementi di disturbo. Esatto: i paesi del Golfo hnno sentito l'assordante rumore del vuoto. E anche i paesi che stanno dall'altra parte della cortina, quelli che non sono mai stati parte di questo nuovo ordine mondiale, lo hanno sentito. Non è difficile capire in che direzione stia andando il pendolo.