Traduzione da Strategic Culture, 25 febbraio 2019.

Lo Wall Street Journal ha pubblicato un articolo il cui solo titolo la dice lunga: "L'ambizione di una NATO araba svanisce nella discordia". Non c'era da stupirsene. Lo stesso Antony Zinni, generale dei Marines in pensione che doveva promuovere l'iniziativa e che ha rassegnato le dimissioni, ha detto che era chiaro fin dall'inizio che l'idea di metter in piedi una "NATO araba" era troppo ambiziosa. "Non è che fossero tutti lì pronti a buttarsi in un'alleanza analoga alla NATO," ha detto. "Una delle cose che ho cercato di fare è stato proprio togliere di mezzo l'idea di una NATO per il Golfo o di una NATO per il Medio Oriente." La sua programmazione si era invece concentrata su "aspettative più realistiche," conclude l'articolo del WSJ.
A quanto sembra "non tutti i paesi mediorientali interessati alla proposta vogliono fare dell'Iran una questione centrale; una preoccupazione che ha costretto gli USA a definire l'alleanza come una coalizione allargata," spiega lo WSJ. Anche questo non sorprende perché a preoccupare veramente i paesi del Golfo oggi come oggi è più che altro la possibilità che la Turchia (insieme al Qatar) scateni i Fratelli Musulmani -i cui vertici si stanno già riunendo a Istanbul- contro i nemici mortali della Turchia che sono Mohammed bin Zaid e gli Emirati Arabi Uniti. Ai vertici dello stato turco sono convinti che MbZ e gli Emirati, insieme a bin Salman, abbiano ispirato le recenti iniziative volte a circondare la frontiera meridionale turca con un cordone di staterelli curdi ostili.
Anche i leader del Golfo sono consapevoli del fatto che se vogliono ricacciare indietro l'influenza turca dal Levante non possono prendere una posizione esplicitamente antiiraniana. Nel Levante una strada del genere non è percorribile.
Quindi l'Iran è fuori pericolo? Ovviamente no. Assolutamente no. La MESA (Middle East Security Alliance) può anche essere il nuovo mezzo per costruire una NATO araba meno intransigente, ma il suo celato intento, sotto la regia di Bolton, resta quello di concentrarsi sull'Iran proprio come sull'Iran era concentrata fin dall'inizio l'idea di una NATO araba. E come poteva essere altrimenti, data l'ossessione per l'Iran del governo Trump?
Cosa vediamo succedere, allora? Fino a pochissimo tempo fa il Pakistan era, economicamente, sulla corda. Sembrava che avrebbe dovuto ricorrere un'altra volta al Fondo Monetario Internazionale ed era chiaro che in prospettiva, se la cosa fosse passata, si sarebbe trattato di un'esperienza assai dolorosa. Il Segretario di Stato Mike Pompeo alla metà del 2018 andava dicendo che gli USA non avrebbero probabilmente sostenuto un programma del Fondo Monetario perché alcuni dei suoi prestiti avrebbero potuto essere usati per ripagare precedenti prestiti fatti al Pakistan dalla Cina. Gli USA inoltre avevano punito il Pakistan tagliando drasticamente l'assistenza finanziaria statunitense all'esercito pakistano per la lotta al terrorismo. Insomma, il Pakistan stava scivolando inesorabilmente verso il default e l'unico salvatore possibile era la Cina.
A quel punto è arrivato all'improvviso qualcuno che ci metteva una pezza. Mohammed bin Salman in visita ha promesso un piano di investimenti da venti miliardi di dollari come "prima fase" di un articolato programma volto a rianimare l'economia pakistana. La proposta veniva dopo tre miliardi in contanti per il ripianamento dei debiti e altri tre miliardi di agevolazioni sul pagamento delle forniture di greggio saudita. Delle fate madrine non avrebbero potuto fare di meglio. E questa magnificenza arriva dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno promesso un mese fa al Pakistan sei miliardi e duecento milioni di dollari per ripianare i buchi di bilancio.
Gli USA vogliono, e vogliono perentoriamente, che il Pakistan imponga ai talebani in Afghanistan un "accordo di pace" con gli USA che consenta ai soldati statunitensi di rimanere in permanenza sul posto: una cosa che i talebani hanno sempre rifiutato; anzi, la vicenda ha messo il ritiro delle truppe straniere al primo posto delle loro priorità.
Poi però si sono verificati due eventi rivelatori. Il 13 febbraio un attentatore suicida ha diretto un veicolo carico di eplosivo contro un autobus di Guardiani della Rivoluzione Islamica nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan. Il portavoce della Majlis ha detto che l'attacco, che ha fatto ventisette vittime nel corpo di élite dei Guardiani della Rivoluzione, è stato "pianificato e portato a termine da qualcuno che si trova in Pakistan". Ovviamente un gesto di rottura tanto provocatorio nella provincia più delicata dal punto di vista etnico di tutto l'Iran può anche non significare nulla, ma forse il nuovo flusso di denaro dai paesi del Golfo è andato a fertilizzare un'altra messe di madrase wahabite nel Belucistan pakistano e c'entra qualche cosa, come fa pensare l'aspro avvertimento al Pakistan da parte del comandante dei Guardiani della Rivoluzione generale Sulemani.
In ogni caso esistono relazioni che indicano come il Pakistan stia esercitando forti pressioni sui leader dei talebani afghani affinché acconsentano alla pretesa di Washington di installare basi permanenti in Afghanistan.
Sembra che gli USA, dopo aver bastonato il Pakistan per non aver fatto abbastanza contro i talebani, abbiano compiuto una virata di centoottanta gradi. Washington adesso è amicissima del Pakistan... con i sauditi e gli Emirati Arabi Uniti a mettere firme sugli assegni. E Washington conta sul Pakistan non perché esso argini e sconfigga i talebani, ma per coinvolgerlo in un "accordo di pace" che implichi la sua acquiescenza a diventare un altro centro nevralgico dell'apparato militare statunitense, al pari del rivificato centro nevralgico di Erbil, in quel Kurdistan iracheno che confina con le province curde dell'Iran. Spiega un ex ambasciatore indiano, MK Bhadrakumar:
 
"Come evoluzione per il prossimo futuro sauditi ed emiratini si aspettano che la tradizionale ideologia afghano-islamica dei talebani riprenda forza insieme alla sua concezione squisitamente afghanocentrica cui si aggiunge una significativa dote di dottrina wahabita... [così da] rendere possibile l'integrazione dei talebani nella rete jihadista mondiale, in cui coabiterebbero con organizzazioni estremistiche come lo Stato Islamico o al Qaeda... così da poter intraprendere progetti geopolitici in regioni come l'Asia centrale, il Caucaso o l'Iran muovendo dal territorio afghano e sotto il comando di una leadership afghana a servizio straniero."
Lo scorso 11 febbraio il generale Votel, capo del CentCom, ha detto al Comitato per le Forze Armate del Senato statunitense: "Se il Pakistan gioca un ruolo positivo nell'accordo sul conflitto in Afghanistan, gli USA avranno l'occasione e il motivo per sostenerlo; la pace nella regione è la priorità più importante tanto per gli USA quanto per il Pakistan." Il progetto della MESA va avanti, ma sottobanco.
E il secondo evento rivelatore? Esistono resoconti credibili secondo cui i combattenti dello Stato Islamico nella zona di Deir ez Zor in Siria stanno ricevendo "facilitazioni" (pare sottoforma di congrui quantitativi di oro e pietre preziose) per trasferirsi in Afghanistan.
Per molto tempo l'Iran è stato afflitto nella regione del Sistan e Belucistan dall'operato di fazioni apertamente secessioniste sostenute nel corso degli anni da paesi stranieri. Ma all'Iran possono arrivare pericoli anche dal confinante Afghanistan. L'Iran ha rapporti con i talebani, ma a inventare i talebani della corrente Deobandi -che è una variante dello wahabismo- è stata Islamabad, e Islamabad è da sempre il primo fattore di influenza su questo gruppo per lo più composto da pashtun, laddove l'influenza iraniana raggiunge più che altro i tagiki dell'Afghanistan settentrionale. Ovviamente anche l'Arabia Saudita ha da decenni relazioni con i mujaheddin pashtun dell'Afghanistan.
Durante la guerra in Afghanistan negli anni Ottanta e anche in seguito l'Afghanistan è sempre stato la porta d'ingresso all'Asia Centrale per il fondamentalismo islamico. In altre parole, l'ansia con cui l'AmeriKKKa anela a stabilirvi posizioni permanenti (e l'arrivo di militanti dalla Siria) può in qualche modo far pensare che nelle idee degli USA vi sia un secondo fine, quello di mettersi in condizione di influire sullo sviluppo della sfera commerciale e delle vie di rifornimento russe e cinesi in Asia Centrale.
Cosa significa tutto questo nel complesso? Innanzitutto era dal 2003 che il signor Bolton andava chiedendo che si realizzasse una presenza permanente in Iraq per mettere l'Iran sotto pressione. Adesso è cosa fatta. Le forze speciali statunitensi (per lo più) ritirate dalla Siria si stanno ridislocando in questo nuovo punto nevralgico in Iraq; il loro compito, a detta di Trump, è quello di "controllare l'Iran". Trump, diciamo pure senza volerlo, con un commento del genere ha scoperto gli altarini.
Un esame accurato dei punti nevralgici on cui gli USA hanno circondato l'Iran consente comunque di identificare il resto del piano del signor Bolton. Questi centri si trovano proprio nei pressi delle minoranze etniche in territorio iraniano: sunniti, curdi, baluci... alcune delle quali hanno una storia di rivolte. Per quale motivo le forze speciali statunitensi si stanno radunando nella struttura irachena? In questo caso si tratta di personale specializzato in programmi di addestramento e assistenza. Reparti del genere vengono associati a gruppi di insorti per fornire loro addestramento e assistenza nella lotta contro il potere costituito. Alla fine programmi di questo genere finiscono con la realizzazione di zone sicure destinate a proteggere le forze che hanno assecondato gli statunitensi. Esempi del genere sono Bengasi in Libia e al Tanaf in Siria.
Colpire l'Iran è il proposito recondito del programma MESA; è un proposito ambizioso, ma nei prossimi mesi verrà rinforzato con nuovi giri di vite economici destinati a troncare le vendite di greggio iraniano (man mano che i diritti scadono) e con un'azione diplomatica il cui intento è quello di scompaginare i rapporti dell'Iran con la Siria, il Libano e l'Iraq.
L'iniziativa avrà successo? Probabilmente no. I talebani hanno puntualmente cancellato l'ultima riunione che avevano in programma con i funzionari pakistani, che avrebbero esercitato ulteriori pressioni su di loro perché arrivassero ad un accordo con Washington; i talebani sono orgogliosi della loro lunga storia fatta di cacciate degli occupanti stranieri. L'Iraq non ha alcuna intenzione di diventare il vaso di coccio in una nuova contesa fra Stati Uniti e Iran; il governo iracheno può quindi ritirare l'invito rivolto alle forze statunitensi a rimanere nel paese. Laq Russia -che ha intrapreso un proprio processo di pace con i talebani- non vorrà trovarsi costretta a schierarsi in un montante conflitto fra Stati Uniti, stato sionista e Iran. Russi e cinesi non vogliono veder turbato l'equilibrio della regione.
Più nel dettaglio, l'India rimarrà sconcertata a vedere che il programma MESA considera alleato preferenziale il Pakistan; tanto più è probabile che l'India, a torto o a ragione, considererà l'autobomba suicida del 14 febbraio nello Jammu-Kashmir che ha fatto 40 vittime fra i poliziotti indiani come un indice del fatto che l'esercito pakistano si è ripreso quanto basta per ridare vigore alla storica contesa con l'India per il territorio dello Jammu - Kashmir, che è probabilmente la zona più militarizzata del mondo e che fino ad oggi è stata teatro di tre guerre fra India e Pakistan. A quel punto avrebbe senso per l'India fare fronte comune con l'Iran per evitare l'isolamento.
Nonostante i limiti che vengono dalla politica concreta gli sviluppi degli eventi fanno pensare che a Washington stia proprio prendendo forma un preciso tentativo per arrivare a un tu per tu con l'Iran.