Traduzione da Strategic Culture, 20 maggio 2019.

La dottrina "della massima pressione" cara a Trump sta avvicinandosi al fine vita? Trump non ne è convinto: "chiamatemi" (quando proprio non ne potete più), fa sapere a tutti quelli che ha assediato e sanzionato. A quanto pare ha fatto avere a Tehran anche un numero di telefono, per tramite dell'ambasciata svizzera. Solo che da Tehran non telefonerà nessuno.
 
Sembra che il periodo in cui si attendono gli eventi stia arrivando ovunque a conclusione: a dispetto di tutta la retorica non ha portato ad alcun risultato. In particolare sembra che la Cina abbia abbandonato i nodi e i toni concilianti per chiamare invece il suo popolo a raccolta per una lotta strategica dolorosa ma necessaria. Anche la Corea del Nord sembra abbia finito la pazienza con i negoziati senza sbocco; e adesso anche l'Iran, come gli altri, sta facendo capire che subire senza resistere intanto che gli Stati Uniti esercitano il massimo della pressione senza soffrirne alcun effetto collaterale non è una possibilità contemplata. Comincia adesso la fase successiva, in cui questi paesi sono pronti e sono intenzionati a imporre a Trump un dazio, per quanto asimmetrico.
Il pericolo evidente nel ricorso ad una strategia che prevede l'esercizio della massima pressione, e che magari è stata anche proficua, nell'ambiente immobiliare newyorkese da cui viene Trump, sta nel fatto che in geopolitica mettere l'avversario con le spalle al muro fin quando quello non "telefona" per arrendersi presenta qualche evidente problema: innanzitutto una resa significa verosimilmente la fine politica -o letterale- per il capo della compagine avversaria.
In secondo luogo, gli avvoltoi pazienti come John Bolton non hanno mai dubitato del fatto che la strategia di Trump non avrebbe mai funzionato. A dire il vero, Bolton è stato perfettamente esplicito a questo riguardo. Non ha usato infingimenti. Bolton semplicemente non crede che la Corea del Nord cederà mai il proprio arsenale nucleare in seguito a qualche negoziato; e non crede neppure che i vertici politici dell'Iran cambieranno mai l'assetto del paese. A logica dunque, solo il rovesciamento del governo produrrà il tipo di cambiamento tanto caro a Bolton, ovvero la condiscendenza verso gli interessi statunitensi.
Bolton e i compari che la pensano come lui sono consapevoli del fatto che devono pazientemente attendere finché Trump non si sarà stancato di aspettare vicino al telefono e non gli risulterà chiaro che tutti i convocati gli hanno dato buca. Intanto comunque i compari di Bolton -come lo stato sionista- ammazzano il tempo dell'attesa lavorandosi i mass media con una serqua di notizie che ingigantiscono le "minacce" dell'avversario di turno. Un classico in questi casi sono le foto satellitari che "dimostrano" la nequizia della controparte.
L'Iran è così passato ad avvertire Washington che non intende accettare di subire i costi che questa "massima pressione" comporta per la popolazione in quello che per Washington è un esercizio privo di rimesse e che quindi può andare avanti a tempo indeterminato. L'Iran sta cercando di porvi dei limiti.
All'inizio del mese il Jihad Islamico Palestinese ha lanciato da Gaza dei missili di cui lo stato sionista non conosceva l'esistenza. I missili hanno ucciso cinque cittadini dello stato sionista e mostrato che il vantato sistema antimissile Iron Dome è in qualche misura inefficace. Il 12 maggio alcune petroliere al largo della costa di Fujaira -il numero esatto non è noto- hanno subito dei danni al timone che le hanno messe completamente fuori uso. Due giorni dopo alcuni droni hanno attaccato due centrali di pompaggio interrompendo il passaggio di circa 3 milioni di barili di petrolio al giorno, in un oleodotto che va da est ad ovest fra le province orientali e quelle occidentali dell'Arabia Saudita.
Si tratta di tre eventi distinti, non necessariamente connessi tra di loro; l'Iran può esservi coinvolto o meno -e l'Iran nega ogni coinvolgimento- ma rappresentano comunque un deciso messaggio diretto ai tre principali protagonisti del sostegno all'inasprimento delle pressioni contro l'Iran: gli Emirati Arabi Uniti, l'Arabia Saudita e lo stato sionista. Il messaggio essenziale è che il danno può essere reciproco.
Questo tris di avvertimenti non indica soltanto che l'inasprirsi della pressione sull'Iran può portare terze parti a subire danni asimmetrici; esso toglie la foglia di fico all'"arte dell'accordo" di Trump. Trump ha tolto dal tavolo le carte palestinesi (Gerusalemme, il Golan, l'annessione dei territori degli insediamenti e le negazione al diritto al ritorno per i rifugiati) ma i tre avvertimenti indeboliscono la posizione di Trump nella sua politica della massima pressione verso l'Iran, perché mettono in discussione il sostegno regionale per qualsiasi ulteriore escalation statunitense. La casa dei Saud, oggi alle prese con un'altra ondata di purghe e con le lotte intestine, si sentirà al sicuro quanto basta per superare l'escalation statunitense contro l'Iran? Gli Emirati Arabi Uniti penseranno a quanto sono vulnerabili le loro esportazioni di petrolio? Lo stato sionista non pensa con nervosismo a cosa potrebbe comportare un conflitto su più ampia scala in termini di attacchi missilistici, dopo il campioncino fattogli avere dal Jihad Islamico? E Trump è tanto sicuro oggi che si possa manipolare il mercato del petrolio in maniera da evitare che il prezzo della benzina negli Stati Uniti si impenni? Le carte sono state mescolate un'altra volta.
I tre segnali indicano che nel gioco esistono nuovi limiti da non superare, proprio come limiti da non superare sono stati stabiliti da Hezbollah e dallo stato sionista nel conflitto che li contrappone a nord. L'Iran ha indicato che non intende arrivare alla guerra, ma che non accetterà neppure di farsi stritolare a morte.
Al di là di questo, scopo del tutto può essere quello di guastare l'intesa fra Trump e Bolton. Tocca a Trump dire se intende dare ragione a Bolton (e alla sua idea di arrivare a qualsiasi costo a rovesciare il governo iraniano) o se il limite da non superare per lui quello che non contempla alcuna nuova "guerra ameriKKKana" in Medio Oriente."Io non credo che Trump voglia la guerra", ha detto il Ministro degli Esteri Zarif durante la sua visita a New York il mese scorso indicando in Muhammad bin Zayed, Muhammad bin Salman, Bolton e Netanyahu i veri guerrafondai.
Staremo a vedere: gli USA, l'Arabia Saudita lo stato sionista e gli Emirati Arabi Uniti adesso devono considerare come reagire alla risposta iraniana. L'Iran rischia che Trump possa decidersi per quello che potrebbe considerare un compromesso, esibirsi di nuovo in un messaggino su Twitter a mezzo missile da crociera come quello spedito alla Siria lo scorso anno, tanto per ostentare la sua determinazione e non per causare all'Iran un danno strategico.
L'ambasciatore statunitense in Arabia Saudita ha detto che una volta che sia saltato fuori chi è stato a sabotare le petroliere gli Stati Uniti dovrebbero attuare "contromisure ragionevoli, guerra esclusa".
Perché Trump potrebbe fare una guerra?
Forse Trump crede alle analisi dello stato sionista per cui l'Iran è sull'orlo del crollo e che una spintarella basterebbe a far perdere la presa al governo iraniano e a farlo scivolare nell'abisso. Netanyahu si è detto insistentemente convinto con Trump che l'Iran è sul punto di crollare, ed è chiaro che le reti interne agli Stati Uniti -compresi gli esuli iraniani- sono della stessa idea. Questa convinzione potrebbe sembrare facile da liquidare come priva di qualsiasi appiglio concreto, ma si tratta di un'idea quasi certamente passata direttamente ai piani alti di una Casa Bianca che si è mostrata molto ricettiva.
L'intera linea politica di Trump inoltre è essenzialmente rivolta al piano interno, a riportare negli Stati Uniti posti di lavoro nel settore manifatturiero; il suo approccio è quello mercantile, quello fondato sulla trattativa; cosa del genere non tengono conto della base evangelica del suo elettorato, ovvero di uno statunitense ogni quattro. Al contrario, questo settore dell'elettorato ha in politica estera un interesse molto forte: quello di adempiere le profezie bibliche su Israele, e quindi a riportare il Messia sulla terra. Un eminente cristiano sionista prevede:
È trascorso esattamente un anno da quando l'ambasciata statunitense in Israele è stata spostata a Gerusalemme e gli evangelici ameriKKKani stanno festeggiando l'obiettivo raggiunto e se ne sentono politicamente galvanizzati. Robert Stearns, pastore evangelico e ascoltata voce del movimento cristiano sionista ha detto che gli evangelici "traggono forza" dal trasferimento dell'ambasciata e sono "motivati" a nient'altro che ad aumentare il loro attivismo a favore dello Stato ebraico... Stearns crede che "nei prossimi anni l'attivismo a sostegno di Israele crescerà come non è mai cresciuto prima". A chi si dice convinto che il trasferimento dell'ambasciata porterà ad un atteggiamento accomodante e rilassato, Stearns risponde: "Non avete ancora visto nulla. Questo è solo l'inizio."
La politica di Trump nei confronti dell'Iran, compreso il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi sul nucleare iraniano, si inquadra nel contesto di questo attivismo evangelico; di qui le pressioni elettorali che Trump subisce da parte del proprio elettorato più fedele.
Il sionismo ebraico, per quanto laico, è stato sin dall'inizio un progetto biblico; osserva Laurent Guyénot: "Il fatto che il sionismo sia biblico non significa che sia religioso; per i sionisti la Bibbia rappresenta sia una narrativa nazionale sia un programma geopolitico piuttosto che un testo religioso: in realtà nell'ebraico antico non esiste alcun vocabolo che indichi il concetto di religione. Ben Gurion non era religioso; in sinagoga non andava mai e mangiava pancetta colazione. Invece era ferventemente biblico".
Di conseguenza quando i cristiani sionisti e il leader dello stato sionista vagheggiano di una "Grande Israele" , porzioni bibliche, non stanno solo facendo un riferimento romantico ad una narrativa vecchia di due millenni: "il sionismo non può essere un movimento nazionalista analogo agli altri", scrive Guyénot, "perché esso richiama il destino di Israele così come esso viene espresso nella Bibbia". È in questo, in questa natura di grande progetto ideologico, che i cristiani sionisti degli Stati Uniti acquisiscono rilevanza politica tanto grande. Col tempo essi possono dunque riuscire a influenzare la risposta di Trump ai tentativi iraniani di imporre agli Stati Uniti e ai loro alleati regionali un limite da non superare.
"Il progetto", per così dire, proprio in conseguenza della sua implicita ideologia richiede nientemeno che una nuova ridefinizione del medio oriente in stile Sykes-Picot; una cosa verosimilmente problematica come lo fu la ridefinizione originale. Lo stato sionista dovrebbe crescere sul piano politico -e non soltanto in termini di territori annessi- per diventare "grande Israele"; i suoi effettivi confini verrebbero ridisegnati; i palestinesi verrebbero eliminati dalla scena, dispersi divisi, e le altre minoranze etniche regionali come i curdi verrebbero elevate al rango di paesi sovrani o incoraggiate alla secessione come i baluci, gli azeri ed altre. Al crescere dello stato sionista dovrebbe corrispondere una riduzione e/o un indebolimento di altre compagini storiche come la Siria, la Mesopotamia e la Persia, in modo da conferire stabilità al nuovo assetto in stile Sykes-Picot.
Trump tentennerebbe davanti all'idea dello scompiglio causato da una salva di missili Tomahawk? Probabilmente no. Gli evangelici voteranno sicuramente per lui nel 2020 anche solo per aver trasferito l'ambasciata a Gerusalemme. Paradossalmente, l'instabilità del Medio Oriente potrebbe anche andargli bene, perché essa aiuterebbe a consolidare il dominio dell'AmeriKKKa sul mercato energetico mondiale, convincendo gli europei ad acquistare gas ameriKKKano dato che le forniture mediorientali sono cosa "inaffidabile".
Il calcolo implicito nei messaggi iraniani è che Trump non voglia la guerra; d'altronde neppure l'Iran la vuole. Per evitarla è tuttavia necessario che Trump rispetti i limiti invalicabili stabiliti dall'Iran. Insomma, tocca a lui reagire razionalmente e prendere le distanze da Bolton. 
Dobbiamo sperare che l'Iran ci abbia visto giusto. E se invece Trump penserà che non può deludere la base evangelica del proprio elettorato e farà lanciare qualche missile? Questo è il rischio che l'Iran si sta accollando. L'alternativa però è il non fare niente, e non fare niente significa più probabilmente agevolare il percorso di minacce sempre più gravi cui sta pensando Bolton, destinato a tenere Trump sotto pressione fino a pensare che l'unica alternativa sia dare la parola al cannone.