Conversando per le vie di Qom, Repubblica Islamica dell'Iran. (fonte: The Atlantic Magazine)

Il religioso iraniano vestito in beige, alto, barbuto e dal bianco turbante, uno hoyatoleslam; una figura appena inferiore a quella di un ayatollah, un uomo profondamente coinvolto nella pianificazione delle prossime fasi della Rivoluzione Iraniana, sedeva tranquillo al tavolo in un caffè di Qom. Questa è la cittadina circondata dal deserto in cui si trovano centoquarantasei tra seminari ed istituti religiosi e che sorge ad ottanta chilometri da Tehran. La città intera è il think tank dei musulmani sciiti dell’Iran. Il religioso, che è uno dei più eminenti studiosi del paese e che tiene corsi di dottorato in filosofia occidentale ed in filosofia islamica, è venuto a spiegarmi la natura del conflitto tra Islam ed Occidente. Alla base di questa lotta, ha detto, c’è un disaccordo di fondo circa l’essenza stessa dell’essere umano.
Sarà anche un filosofo, ma è anche un uomo d’azione, con esperienza personale di rivoluzione e di guerra, e si trova implicato in prima persona in diatribe politiche e teologiche di primaria importanza nel suo paese. Riguardo al conflitto in corso non ha risposto che si trattava di una lotta per il potere o per la sovranità, come molti occidentali avrebbero istintivamente pensato; né ha citato la politica estera come sua causa diretta; e men che mai l’ha attribuita a chissà quale “invidia” per le “conquiste occidentali”.
L’Occidente, mi avrebbe detto il religioso, è curiosamente miope nei confronti di come le idee che vi sono nate, con tutte le relative conseguenze, si sono ripercosse sul resto del mondo; l’Occidente ha favorito una sorta di amnesia collettiva circa il rovescio della medaglia del suo contributo alla storia. E questo rovescio della medaglia non è tanto costituito dai contenuti delle sue idee, generalmente sviluppato con le migliori intenzioni, né era innato nel pensiero occidentale nella sua interezza. La civiltà occidentale ha prodotto intellettuali di statura gigantesca, che hanno superato la definizione di “occidentale”: eppure, mi avrebbe detto, il nocciolo del problema sta nel processo occidentale di elaborazione del pensiero, in ciò che esso “pensa del pensare”.
Il problema era dato da questo modo di intendere le cose, e dalla maniera in cui aveva finito per distorcere il concetto di essere umano; il problema era il modo in cui, a partire da tutto questo, l’Occidente aveva perso il senso della centralità dell’uomo come principio guida per determinare il modo in cui dovremmo vivere in futuro. “Dobbiamo partire da un’introspezione come questa, per cercare di capire che cosa è andato male”, suggeriva il religioso.
E’ a questo aspetto oscuro della storia, ai complicati deragliamenti del pensiero occidentale che sottostanno gli ultimi duecento anni di storia, che intendo rifarmi per spiegare come mai i musulmani, improvvisamente e in un dato momento storico, hanno cominciato a sentire la necessità di mobilitarsi e di far proprie le cause della resistenza e della rivoluzione. Cercherò di far emergere e di rappresentare l’essenza e lo spirito delle idee che stanno dietro questa crescente resistenza nei confronti dell’Occidente, piuttosto che tentare di descrivere in termini diacronici l’Islam nel suo complesso con tutta la sua multiformità. Cercherò di mostrare i motivi per cui queste nuove idee e questo nuovo modo di pensare sembrano ai musulmani così vigorosi e liberatori, ed esaminerò i motivi che resero la Rivoluzione Iraniana così importante da conferire un ruolo tanto significativo all’influenza sciita in tutto il Medio Oriente, e da rendere al tempo stesso gli sciiti dei convitati così temuti alla tavola dei vacillanti governi arabi.
La storia della Resistenza è la storia di come il mondo musulmano ha intrapreso un percorso per ritrovare nuova attendibilità e nuova autostima, e per scoprire una “soluzione” alla sua sensazione di esser rimasto vittima di una catastrofe; un percorso per riscoprire un senso di sé che non sia preda dello shock che colpisce chi si veda strappare dal proprio passato, o dell’umiliazione che tocca a chi venga esposto all’odio e alla demonizzazione. L’Islam ha reagito a queste circostanze in maniere che sono diverse da quelle dei cristiani, ed il fatto non sorprende, per motivi che andremo ad illustrare. Le sue “soluzioni” ai suoi problemi tuttavia pongono una sfida radicale al pensiero occidentale in materia di politica, di economia e dei principi elementari attorno ai quali si struttura una società.
Gli occidentali hanno difficoltà a capire perché parti del mondo musulmano hanno deciso per la resistenza nei confronti dell’Occidente, e perché una piccola minoranza abbia fatto propri i metodi della violenza più apocalittica. Gli occidentali faticano anche a capire quale possa essere la natura del disastro che ha travolto l’Islam, e perché mai un simile disastro, di qualunque tipo sia, dovrebbe essere addotto a giustificazione della resistenza armata.
Le ragioni per cui gli occidentali ignorano completamente la sfida che gli islamici portano loro nel campo delle idee piuttosto che sul campo di battaglia, i motivi per cui tanti musulmani hanno abbracciato la causa della rivoluzione e quale sia il significato profondo della rivoluzione stessa sono domande cui Resistenza tenta di dare una risposta. Alcuni troveranno sconvolgente l’idea che in Occidente esista un simile punto cieco, e crederanno che il semplice avanzare un’ipotesi del genere significhi sostenere una sorta di irrazionale ostilità nei confronti dell’Occidente che albergherebbe di per sé nel mondo islamico.
La resistenza armata islamica non si è sviluppata nel vuoto. Ho motivo di ritenere che il suo sorgere nel corso degli ultimi cento anni non sia stato né irrazionale né motivato da qualche strana idea di ispirazione divina; quello che è successo può essere spiegato chiaramente e razionalmente dal punto di vista storico. Questo tipo di spiegazione chiama in causa le radici emotive e mitologiche su cui si fondano le inefficaci politiche occidentali, e tenta di mettere in luce i loro precorsi cristiani, ancora molto rilevanti anche nel mondo secolarizzato di oggi. La prima parte del volume è dedicata a questo. Nella seconda parte tenterò di mostrare in che modo gli occidentali hanno preferito adottare spiegazioni della violenza islamica tese a stroncare qualunque dibattito e qualunque forma di pensiero critico, piuttosto che rifarsi a spiegazioni che avessero qualche fondatezza. Cercherò di evidenziare i motivi per cui l’Occidente ha negato con tanta ostinazione gli aspetti razionali dell’Islam.
Il mio intento sarà quello di mostrare come la reazione occidentale centrata sulla demonizzazione dell’Islam non abbia alcuna relazione con la realtà delle cose umane e rappresenti piuttosto una proiezione della preoccupazione e dell’ansia, covate da lungo tempo in Occidente, di trovarsi disarmati davanti al nichilismo che ne ha infettato i corpi sociali tramite l’ideologia liberale. Tenterò di dimostrare in che modo i timori per la debolezza intrinseca delle società occidentali, la cui epitome è rappresentata dalla Repubblica di Weimar, abbiano fatto sì che i responsabili delle politiche americane abbiano potuto in assoluta malafede pianificare a tavolino la “paura dell’Islam”. Si sono adoperati per questo, così come per costruire difese contro i “pericoli” del liberalismo e della “mancanza di patriottismo”, piuttosto che in favore di una qualsiasi analisi oggettiva del fenomeno Islam.
Si è trattato, in altre parole, di una reazione ai timori sopiti della società occidentale nei confronti delle proprie debolezze intrinseche: una reazione guidata da quegli stessi timori. La “minaccia” dell’Islam è servita semplicemente ai conservatori per riplasmare le società occidentali in modo da indebolire e minare gli apporti che le ideologie liberali e socialdemocratiche hanno fornito ad esse.
Paradossalmente, se consideriamo l’entusiasmo con cui in Europa sono stati seguiti gli Stati Uniti in questo percorso, il bersaglio ultimo di questa reazione è sempre stato il liberalismo multiculturale più che l’Islam di per sé. D’altronde l’operazione è stata messa a punto per colpire i principi fondanti e identitari attorno a cui l’Europa definisce se stessa. La prontezza con cui l’Europa ha fatto proprie politiche improntate ad un’intolleranza che contraddice l’autoimmagine liberal che essa ha di se stessa, ed il cui scopo deliberato era quello di conferire una risoluta impronta nazionalista alla lotta al terrorismo, ha causato al suo interno delle contraddizioni in termini che divideranno ed avveleneranno la politica europea.
In Resistenza si sostiene, al contrario di quanto fa un’opinione pubblica occidentale fin troppo sicura delle proprie convinzioni, che il conflitto tra Islam ed Occidente è nella sua essenza un conflitto religioso, anche se le strategie politiche adottate dall’Occidente sono tutte di tipo marcatamente secolarizzato. I principi fondanti ed i processi che sottendono la politica occidentale possono essere raffigurati come una continuum lineare che origina dalla lotta sostenuta da protestanti e puritani contro un’altra comunità a carattere sacrale, indicata con il nome di cattolicesimo romano. Gli stessi processi e perfino gli stessi vocaboli usati contro i cattolici sono stati successivamente estesi al mondo islamico. L’intero processo non va considerato prodotto esclusivo del mondo protestante, perché molti dei temi che esso ha fatto propri, come la visione della storia intesa come processo teleologico, le aspettative apocalittiche e la credenza in una trasformazione ed in una redenzione di cui l’azione umana da sola può portare le responsabilità vanno diritti alle radici stesse della cristianità intesa nella sua interezza. Al centro di tutto questo tuttavia, come suggerito dal religioso iraniano, sta l’assoluta divisione su quello che intendiamo indicare parlando dell’essenza dell’essere umano.


La modernità occidentale e l’essenza dell’essere umano

Per cominciare davvero il nostro cammino, torniamo al religioso iraniano di cui abbiamo parlato all’inizio, e continuiamo a riferire il suo racconto sull’essenza della Rivoluzione Islamica. La sua analisi mette in luce alcuni temi chiave che approfondiremo nei capitoli che seguono.
Secondo il religioso iraniano,
…questo mancare di rispetto verso l’essenza dell’essere umano è stato quanto di più tragico l’Occidente abbia mai suscitato nel mondo. Nel passato ci sono stati molte gravi piaghe e molti eventi disastrosi, ci sono state guerre, discriminazioni tra classi sociali e razze, carestie, tutte cose di questo genere, ma nessuna di esse è paragonabile ai disastri di oggi: quello che li rende differenti è che si è fatto cattivo uso della scienza e della conoscenza, le cose più sacre di cui l’uomo disponga. Cosa ancora più grave, tutti i problemi di oggi come la sopraffazione, la dominazione e la guerra, vengono pianificati e giustificati razionalmente; e ciascuno di essi viene presentato dall’Occidente come compiuto in nome degli “interessi generali dell’umanità”.
Poi continuò:
Secondo la mia opinione, qualunque seria discussione sulle condizioni in cui si trova il mondo deve partire da queste premesse. Io rifiuto recisamente l’idea che i conflitti di oggi -il modo di dirimere le questioni internazionali e l’ordine mondiale esistente-  siano il mero prodotto di rivalità politiche, di disaccordi economici o del contrapporsi di diversi interessi nazionali. Le crisi del mondo contemporaneo, spirituali, morali o ambientali che siano, sono figlie del modo di pensare caratteristico degli ultimi due o trecento anni. E l’aspetto peculiare della tragedia in cui ci troviamo non sta tanto nel fatto che ci troviamo nella situazione di dover affrontare delle crisi, ma nel fatto che questo distorto modo di pensare si è radicato nella classe politica, che si è comportata in un certo modo convinta di essere nel giusto e di star agendo per il bene dell’umanità.
Le tensioni in cui viviamo oggi devono essere oggetto di distinzioni: all’interno del mondo islamico esse sono di minore portata ed hanno per lo più radici storiche, mentre le tensioni in corso con l’Occidente si focalizzano sulla natura stessa dell’Islam, ed hanno radici propriamente essenziali. Ecco perché sento che il conflitto tra Islam ed Occidente sia la principale scaturigine di tutti i conflitti cui assistiamo nel mondo di oggi.
Quando pensiamo all’Islam e all’Occidente non dobbiamo pensare alle popolazioni che vivono nei paesi occidentali o alle popolazioni islamiche, ma al conflitto tra due modi di pensare e due visioni del mondo che hanno carattere universale. Non dobbiamo confondere le basi di questo rapporto con quelle di un rapporto tra Iran e America o tra sciiti ed altri credenti. E’ una cosa che non ammetto.
Considero le condizioni del mondo contemporaneo come quelle di un paziente ammalato. Il suo male ha due aspetti: i sono i sintomi verificabili dall’esterno, e c’è la causa interna del male, che lavora più in profondità. Se di questo siamo consapevoli e se vogliamo finirla con la malattia, dobbiamo prima separare i sintomi, per come si presentano, dalle loro cause. Si potrebbe pensare che parte delle cause sia correlata ai sintomi visibili: guerre, ingiustizia e più in generale le condizioni in cui si trova il pianeta. In realtà, i più grandi pensatori del mondo non hanno ancora intrapreso il lavoro necessario a definire le radici prime e la ragion d’essere di questi problemi.
Quello che vediamo in realtà è un conflitto tra due civiltà, tra due diverse concezioni della vita. Distinguere questi due diversi modi di intendere la vita è il principale compito che dobbiamo affrontare, in termini di pensiero e di apprendimento… Tuttavia, se davvero riusciamo sia a destare l’attivismo dei popoli sia a dare loro le giuste guide politiche, saremo capaci di fronteggiare ogni pericolo ed ogni minaccia; e le differenze che ancora esistono non rappresenteranno un ostacolo per il futuro della ‘umma [la comunità dei credenti, N.d.T.].
Il messaggio che la Rivoluzione Iraniana destina al mondo di oggi sta nell’aver levato alta la bandiera dell’autentica essenza dell’essere umano… e nel mostrare che i concetti su cui l’Islam si basa coincidono con quelli che in ogni tempo sono stati gli obiettivi dell’essere umano, e che siamo stati noi ad allontanarcene sotto l’influenza del mondo moderno… Nel corso di tutta la durata della fase propriamente rivoluzionaria della Rivoluzione Islamica, l’Imam Khomeini non ha mai considerato la rivoluzione come qualcosa di cui potessero vantare l’esclusiva questo o quel gruppo settario, o che vi si rispecchiassero il pensiero sunnita o quello sciita; ha sempre riconosciuto la validità di essa per l’Islam nella sua interezza, ed ha collegato i valori della rivoluzione direttamente al Corano e ai valori umani in esso contenuti.
Negli scorsi decenni abbiamo assistito a molti casi in cui le risorse che contribuiscono all’edificazione del potere occidentale, come la cultura, l’etica e la moralità, sono state tutte impiegate dall’Occidente come strumenti di potere e di dominio. Quello che dobbiamo fare è abbandonare questa brama di potere, e tornare a rifarci a ciò che è propriamente umano. Da un lato, dobbiamo restituire alla cultura la sua razionalità; dall’altro restituire umanità alla politica. Solo così potremo porre un freno agli abusi del potere, ed evitare il dominio dell’uomo sull’uomo, e dei singoli sull’umanità intera.
Il concetto fondamentale della Rivoluzione Islamica, il messaggio che essa vuole trasmettere, consiste nel proporre questo nuovo modo di vivere ed una nuova concezione della modernità a servizio del mondo di oggi. Questo è qualcosa di fondamentalmente diverso rispetto alla modernità come la concepisce l’Occidente1.
Il commento del religioso nasce da un dato di fatto spesso ignorato in Occidente: il Profeta Mohammed non si considerava il fondatore di una nuova religione. Il Corano non avanza in proprio alcun argomentazione filosofica favorevole al monoteismo, ma sottolinea al contrario il fatto che il suo messaggio è un semplice “ripasso” di verità note a tutti. Nel Corano la speculazione teologica, chiamata zannah, viene considerata in modo negativo come una specie di capricciosa auto indulgenza verso questioni ineffabili che nessuno può accertare, in un modo o nell’altro… Fondamentale invece, assai più della speculazione teologica, secondo il Corano è l’impegno, il jihad, a vivere secondo quanto stabilito da Dio per l’essere umano2. L’Islam è centrato sull’attivismo, sulla lotta sociale e politica condotta in prima persona per arrivare a vivere come Dio ha stabilito. E l’impegno a lottare viene oggi considerato confacente ai credenti, esattamente come lo era ai tempi del Profeta.
Quando un rivoluzionario iraniano parla di mancanza di rispetto verso la natura profonda dell’uomo, ed invita l’umanità ad abbandonare la bramosia di potere per tornare ad occuparsi di ciò che è  propriamente umano, non fa che riproporre la grande concezione coranica di un mondo dominato dall’oppressione, dall’ingiustizia e dalle guerre; il rimedio pratico a questo stato di cose consiste riportare alla mente verità note a tutti3: esiste la necessità di recuperare verità antiche, i valori umani essenziali comuni a tutte le religioni.


L'Islam come concezione rivoluzionaria

La nuova setta del Profeta Muhammad sarebbe stata alla fine chiamata Islam, abbandono. Un musulmano era un uomo o una donna che aveva fatto atto di sottomissione, per tutti gli aspetti della propria esistenza, ad Allah ed al suo precetto secondo il quale tutti gli uomini dovevano comportarsi gli uni con gli altri secondo giustizia, equità e compassione4.
L’aspetto radicale dell’Islam stava dunque nel dovere di costruire una comunità in cui uomini e donne si comportassero con empatia e con rispetto verso gli altri, qualunque fosse la loro posizione sociale, ed in cui vi fosse un’equa ripartizione delle ricchezze. Con Islam, in altre parole, si indicava l’esperienza della vita quotidiana in una società così conformata. Si trattava quindi di una rivoluzionaria concezione sociale e politica dei tempi a venire, con implicazioni di vasta portata. I musulmani sono obbligati a lottare attivamente e quotidianamente per la giustizia, per il rispetto nei confronti dell’essere umano e per la compassione. Al centro della Rivoluzione Islamica sta il rifiorire di questo radicale messaggio di giustizia sociale.
Quando un religioso indica nella natura profonda dell’essere umano il punto da cui iniziano le divergenze tra Islam ed Occidente va oltre una semplice riproposizione dei fondamenti dell’Islam, come vedremo in seguito. Così facendo suggerisce anche che al di là della sicuramente importante identificazione del punto di origine delle dispute, potrebbe essere possibile andare oltre questa prima consapevolezza ed arrivare a scorgere anche qualche cosa da cui partire per una qualche ridefinizione.
Con il termine ridefinizione intendo dire che quando si trovano davanti ad un disastro o ad un problema soverchiante i popoli, le nazioni ed anche i singoli individui tentano spesso di risollevare un morale al tracollo e di “ritrovare se stessi” in modi nuovi e più rispondenti alle necessità. A volte tutto questo prende la forma simbolica di un viaggio o di un periodo di esilio destinato a marcare un punto di rottura rispetto al passato, come la cattività babilonese degli ebrei nel 589-538 avanti Cristo, o deriva dall’acquisizione di una nuova consapevolezza, nata a sua volta dal fatto che le persone riescono a trovare significati nuovi in vecchi simboli o in antichi miti. Dal momento che i miti antichi toccano corde profonde dell’emotivo e dell’immaginazione umana, ogni mutamento della loro interpretazione e del loro significato può avere un forte impatto sul pensiero delle persone; un impatto spesso senza paragone più forte di qualunque argomentazione politica: da esso può iniziare un processo in cui un popolo intero ridefinisce e si avvia ad adottare una diversa concezione di se stesso.
Come esempio di ciò che intendo con “avviarsi ad adottare una diversa concezione di sé”, si consideri il travagliato periodo corrispondente al Medio Evo europeo, in cui le sorti della Cristianità nell’Europa Occidentale arrivarono ad un niente dal precipitare. Quando si guardavano attorno, gli europei dell’epoca potevano notare gli unici segni di civilizzazione nei pochi resti sopravvissuti di quello che era stato il grande Impero Romano. Questi resti erano rappresentati da edifici diruti, e l’intento di chi li aveva un tempo eretti doveva sembrare a chi viveva nei pressi di essi incomprensibile come lo sarebbe stato quello di alieni arrivati da un altro mondo. Quelle rovine erano il simbolo di un’era ormai tramontata di grande ricchezza culturale. Le competenze e le conoscenze dei romani erano state dimenticate e, sotto la pressione costante delle invasioni e delle battaglie per la sopravvivenza, perdute al punto che i contemporanei avevano anche smarrito l’attitudine al ragionamento ed al pensiero, con cui pure un tempo avevano avuto dimestichezza. Della civiltà che li aveva preceduti mantennero a mala pena l’insieme di competenze necessarie a trarre dalla terra di che sfamarsi.
I loro fragili insediamenti venivano spazzati da un ciclo di carestie, inondazioni e pestilenze apparentemente senza fine. L’esistenza era brutale e demoralizzante e sembrava proprio che la debole cultura della Cristianità occidentale avrebbe prima o poi finito col soccombere, sopraffatta dai violenti attacchi dei pagani e dalle continue scorrerie dei barbari. Nell’Europa meridionale la precarissima sorte della Cristianità dipendeva da pochi monasteri fortificati; nelle province settentrionali del vecchio impero sembrava che la Cristianità fosse puramente e semplicemente arrivata al punto di mollare la presa.
Messa di fronte ad un collasso imminente, con il proprio passato sistematicamente devastato dalle scorrerie straniere e sopraffatto da culture altrui, la Chiesa occidentale trovò comunque le pur magre risorse necessarie a riscoprire se stessa. E questa riscoperta avvenne secondo modalità nuove che non soltanto ne assicurarono la sopravvivenza, ma le fornirono una fiducia in se stessa ed un concetto di sé che alla lunga avrebbero permesso all’Occidente di tornare potente in una forma nuova. 
La nuova consapevolezza derivava dall’aver saputo ripensare alle vita di Cristo come la realizzazione degli ideali del monachesimo, intesa come concezione cui uomini e donne dovrebbero conformare la propria vita. I monaci vedevano i monasteri come fortezze ideali, dalle quali avrebbero intrapreso la loro guerra santa contro i demoni e le forze malefiche, così come i cavalieri secolari e i signori feudali combattevano la minaccia onnipresente costituita dai razziatori vichinghi. Questa guerra santa fu principalmente una lotta figurata, condotta da persone che praticavano il pellegrinaggio penitenziale, adottavano gli ideali della vita monastica e pensavano ai poveri e ai più deboli. Molte persone, in questo modo, cominciarono a guardare ai monasteri per costruire una propria visione del futuro.
Che i non consacrati potessero trascorrere la vita corrente nello stesso spirito del monachesimo più elitario non era realistico da pensare. Si trattava di un qualcosa di immaginato, che restituì energia alle popolazioni e ricostruì la loro fiducia; man mano che la stabilità riprese campo nell’Europa del nord, i cristiani cominciarono a pensare che avrebbero davvero potuto dare il via ad un mutamento di proporzioni storiche tramite un’azione di massa. Marciarono pellegrini in gran numero su Gerusalemme nel 1009, sperando di costringere l’”Anticristo” ad emergere nel Tempio e a patire quella inevitabile sconfitta finale che avrebbe portato verso la completa redenzione, al ritorno di Cristo e al trionfo del cristianesimo in tutto il mondo.
Nel 1095 papa Urbano II trasformò il pellegrinaggio in crociata, e i cristiani si “rinnovarono” attraverso il viaggio e la partecipazione alla crociata. Alcuni ordini monastici divennero sul serio delle milizie armate e disciplinate, combattendo davvero il Male con la spada e non più soltanto in senso figurato, considerando la morte che li cogliesse sul campo di battaglia mentre uccidevano musulmani come una sorta di martirio benedetto. Per più di duecento anni un gran numero di cristiani si recò in Terra Santa in una crociata. In otto diverse occasioni il papa ed i monarchi europei, senza esser stati provocati in alcun modo, dichiararono guerra all’Islam. “Avanti soldati cristiani, avanti marciando come in guerra”, l’inno che ancora oggi i cristiani intonano nelle loro chiese, rappresentava una riscoperta della loro nuova identità, e le conseguenze che da questa riscoperta derivarono influiscono ancora oggi sul mondo in cui viviamo. Le crociate radicarono profondamente nell’animo europeo sia l’antisemitismo che la demonizzazione dell’Islam. Papa Urbano II, come ha notato Karen Armstrong, “pose la violenza al centro dell’esperienza religiosa del cristiano laico, e la cristianità occidentale acquistò una connotazione aggressiva che non ha mai interamente perduto”5.
La soluzione alle catastrofico Medio Evo ebbe successo per quanto riguarda l’edificazione di miti, attraverso la riscrittura della storia di Carlo Magno, che permisero agli europei occidentali di pensare a se stessi come ai muscolari ed aggressivamente potenti successori di Carlo Magno. Crearono un’identità europea occidentale che era l’esatto opposto di quella che aveva al centro la odiata -ed invidiata- corte bizantina. Gli eroi occidentali erano forti, più spicciativi che intelligenti, uomini pronti per la guerra, pieni di fede e di carità; i bizantini saranno anche stati più intelligenti e di più vasta cultura, ma erano anche rammolliti, effeminati, inerti e mentitori.


La longevità del mito e l’emotività religiosa

Uno dei temi al centro di Resistenza è rappresentato dalla potenza e dalla longevità delle emozioni nutrite dai miti e da profonde consapevolezze religiose, che lungi dal rappresentare mere curiosità o retaggi del passato condizionano ancora oggi il modo in cui le persone -comprese quelle che religiose non sono- continuano a pensare anche ai nostri giorni. L’immagine dei bizantini oggetto delle proiezioni occidentali era in realtà poco più che lo specchio riflesso delle angosce occidentali, ma il fatto che gli occidentali curassero molto la loro autoimmagine fatta di “aggressività spiccia”, presentata come una virtù più onesta dell’intelligenza e della doppiezza bizantine, ha alla fine prodotto uno strascico a lungo termine: le società possono diventare prigioniere della loro storia, a meno che un grave rovescio non le costringa a reinventare se stesse a partire dalle radici.
I cristiani trovarono nuovamente le risorse per intraprendere la costruzione di un nuovo sé ai tempi delle guerre di religione che devastarono l’Europa del XVII secolo. I protestanti avevano trovato significati nuovi nell’antica vicenda del patriarca Abramo e nella prontezza con cui si apprestò a sacrificare il figlio Isacco. Da una vecchia tradizione erano emersi nuovi significati: una “soluzione” che aveva condotto i protestanti fuori dal disastro delle guerre di religione; qualcosa che in avvenire avrebbe condotto l’Europa e l’America a livelli di potenza senza precedenti. Anche questo è uno dei temi toccati in Resistenza, e viene sviluppato ulteriormente nei prossimi capitoli.
Le conseguenze di questa nuova definizione del sé protestante sono al centro dell’affermazione del religioso iraniano secondo la quale ciò che in definitiva è al centro dei dissidi tra Islam ed Occidente è rappresentato dalla natura dell’essere umano: all’apparenza si tratta di un’affermazione sorprendente. Ed inattesa, e scioccante, per molti occidentali che non considerano i valori umani come delle verità universali su cui tutti nel mondo possono concordare. Il religioso iraniano invece, come abbiamo visto, si riferisce al percorso che conduce il musulmano alla ricostruzione del proprio sé, e all’essenza della sua rivoluzione, come a qualcosa che dipende dalla sua consapevolezza di quale sia l’essenza della natura umana; un concetto da cui, a suo avviso, l’Occidente si è allontanato.
I pensatori sciiti, come il religioso iraniano, che considerano il conflitto tra Islam ed Occidente come originato da una diversa concezione dell’uomo, e dunque da una diversa concezione della ragion d’essere e del destino della società, e del ruolo che in essa ha la politica; riportano la questione nell’alveo del comune retroterra costituito dal retaggio filosofico e politico, alla tensione che è sempre esistita tra le istanze della politica e i desideri e le necessità dell’individuo, così come si riflette nella democrazia occidentale.
Le intenzioni della filosofia nei confronti della politica, fin dai tempi della antica Atene, possono essere sostanzialmente riassunte nell’imperativo del proteggere la politica dai pericoli di cui è essa stessa la causa. Quando le istanze cui essa è prona si sovvertono, quando cade prigioniera di una élite dominante, quando degrada in qualcosa che tende a sopprimere e controllare gli esseri umani, tocca alla filosofia, islamica ed occidentale, tocca agli attivisti ed ai pensatori ricollocare la politica sul solido terreno della conoscenza e del pensiero critico -come suggeriva il religioso iraniano-, cercare di capire in che modo è avvenuta la sovversione e cosa va fatto per rifondarla. 
L’intera concezione politica di Platone, che rappresenta la radice comune sia per la cultura islamica che per quella occidentale, può essere vista come il tentativo di indirizzare nuovamente la società umana verso il telos, ossia verso obiettivi razionalmente raggiungibili, piuttosto che verso il lato più oscuro delle passioni umane; e come tentativo di rimediare all’evidenza acclarata delle divisioni sociali, “la rissosità o i contrasti di gruppi di individui sempre in lotta con se stessi, e che vivono in preda alla passione ed ostaggi dei loro desideri”6.
Jacques Rancière, il filosofo francese contemporaneo, ha avanzato l’idea che l’intera proposta politica del platonismo si possa considerare come un “progetto antimarittimo”7, una definizione stringata per indicare non solo il porto di Atene, ma anche la concezione moderna delle politiche marittime, in larga parte di stampo britannico e risalenti nella loro origine alla fine del diciassettesimo secolo.
Dal 1688 le potenze marittime della Gran Bretagna e degli Stati Uniti hanno vinto ogni conflitto, ha suggerito Walter Russell Mead in God and Gold8. Secondo Russell Mead, entrambe provenivano da una cultura che godeva di un vantaggio senza pari per quanto riguardava lo sviluppare ed il sostenere le forze del capitalismo ed il tollerare le tensioni, l’incertezza e la disuguaglianza sociale che il libero mercato comporta. Al loro interno esisteva un nuovo tipo di equilibrio religioso, in cui era l’individuo a diventare il principio organizzativo attorno al quale si organizzavano la società, la politica e l’economia ed in cui l’individualismo ed i continui cambiamenti giunsero ad essere accettati come positivi9.
Il “progetto marittimo” è stato così definito perché emerse dalle strategie geopolitiche messe in atto dal mondo anglosassone, ed è stato descritto come l’ascesa di “una potenza soverchiante destinata ad essere utilizzata per il continuo accrescimento di se stessa, con la stessa aggressività, se non con la stessa crudeltà, e con molto maggior successo di ogni altra strategia precedente. Questo è stato il potere sul mare”10. Fu simbolo di libero commercio, di mercati aperti e di ruvido insistere sul diritto di ogni singolo individuo di perseguire il proprio interesse senza sottostare a pastoie sociali o religiose.
La religione, nella variante puritana che dominava in Inghilterra, non impose ostacoli di tipo sociale nel tentativo di controllare le disuguaglianze, come fece invece la Chiesa cattolica; divenne al contrario uno dei protagonisti nell’intensificare e nell’accelerare i processi di cambiamento sociale e di sviluppo dell’economia capitalista, accettando le costanti trasformazioni che questo comportava come se si trattasse di una condizione umana normale e desiderabile11. Questo però aprì alle critiche il “progetto marittimo”: secondo di esse l’ethos anglosassone, con il suo senso degli affari, la sua efficienza, i suoi standard di vita sempre crescenti, non aveva alcun legame con una più profonda concezione della vita: gli mancava il telos platonico, gli mancavano razionalità e scopi ultimi.


Di cosa è fatta la democrazia?

Rancière insiste sull’idea, presente nel Gorgia di Platone, secondo cui Atene soffre di un male che arriva dal suo porto, dal predominare dell’impresa marittima per intero diretta dal profitto e dalla sopravvivenza. La democrazia di fatto, ossia la politica empirica, viene identificata da Platone con la brama di possesso che regna sul mare12. Il porto diviene per lui un simbolo del lato oscuro della natura umana, della brutalità dell’impresa marittima associata a violenza, sfruttamento e dominio, alla brama di possesso e ad una “democrazia dei sensi” basata sulla cupidigia di marinai delle triremi, tendenti al vino ed ai piaceri carnali.
Gli ottanta stadi di distanza che separavano la città di Clinia13 dal suo porto, secondo gli ateniesi, erano appena sufficienti perché non si sentisse il cattivo odore del mare, dei marinai e della sua corrotta democrazia. Il porto di Atene simboleggiava per Platone la contesa tra due opposte concezioni: da una parte c’era il desiderio di realizzare “cose propriamente politiche”, come l’instaurare una comunità basata sull’equità, la compassione e la giustizia; dall’altra c’erano la violenza sempre pronta ad esplodere, la sensualità e l’ingordigia dei marinai di Atene.
Il  nostro religioso sciita iraniano afferma che la questione non sta nella pletora di conflitti di minor conto che esistono tra l’Islam e l’Occidente:
Le condizioni in cui si trova il mondo sono dovute in parte ai politici di oggi, e, come possiamo vedere, i nostri problemi stanno diventando più gravi. Oggi ci sono vari problemi nelle società islamiche; alcuni di essi hanno aspetti storicamente considerabili e si nutrono di dispute di scolastica teologica. Tra di essi ci sono le differenze settarie: le divergenze tra le varie scuole di pensiero islamico dei Sunniti e degli Sciiti, o i problemi che possono avere a che fare con la collocazione etnica all’interno del mondo islamico.
Ma pensiamo che il miglior modo per risolverli sia l’evitare di rimanere impaniati in questioni di dettaglio che costituiscono soltanto la manifestazione sintomatica del male, e tornare alle origini dell’Islam, alle risorse genuine ed al pensiero del Corano, anziché cacciarsi nelle questioni settarie ed etniche del tempo presente.
In effetti, questo rievoca l’esortazione platonica per un ritorno al Telos (razionalità e scopi ultimi). La ripetizione di questo assunto, al di là del contesto della Rivoluzione Iraniana, secondo il quale esiste una tensione tra Telos e Demos, ha implicazioni di vasta portata su quello che si indica con la parola “democrazia”. La democrazia è quella del porto di Atene, o rappresenta un più alto progetto di giustizia sociale, equità e compassione? La Rivoluzione Iraniana, insistendo su questo secondo significato, ha riaperto una questione antica: i fini ultimi cui la democrazia deve tendere e che cosa essi significhino per il funzionamento di uno stato-nazione.
Il nostro hoyatoleslam pensa che le cause essenziali del conflitto con il mondo islamico stiano nel modo di pensare che l’Occidente ha sviluppato negli ultimi trecento anni, e che negli ultimi venti o trenta si è spinto come non mai prima d’ora nella stessa direzione.
In Occidente i valori hanno cambiato forma al punto di diventare meri contratti sociali. L’attrazione di questi contratti può variare ad ogni momento, in base al loro soddisfare o meno le necessità ed i desideri immediati dell’individuo, e si possono disdire appena si pensa che ne valga la pena. Nel pensiero occidentale il piacere ed il dolore sono alla base della motivazione dell’agire umano: sono le due forze che plasmano l’aspetto esteriore e le caratteristiche materiali dell’uomo. Nel pensiero occidentale la razionalità ha perso il suo posto. Invece di essere utilizzata per distinguere la verità ed i valori, è diventata un qualcosa da usare per soddisfare le necessità materiali e psicologiche dell’uomo. Il pensiero occidentale non cerca più i veri fondamenti della società perché completamente incanalato verso l’edificazione di una società materialistica e dedita al soddisfacimento dei desideri.
Eliminando Dio dalla società, hanno eliminato da essa anche i valori e le strutture di pensiero che permettono all’uomo di progredire e di aspirare alla perfezione.
La separazione tra fede e ragione è stata compiuta deliberatamente, per eliminare dal nostro orizzonte perfino la possibilità di concepire i veri valori e la realtà profonda del mondo. Questa limitazione ha reso più facile, per la mente materialistica dell’uomo, concentrarsi sulla “gestione della società” senza alcuna intrusione divina ed all’insegna della totale mancanza di valori etici. La fede si è alla fine trovata confinata a quegli angoli in cui l’uomo si trova solo a cospetto del suo Signore. L’omissione di Dio dalla nostra concezione universale comporta l’omissione dei valori ultimi e più alti dell’etica che l’uomo era fatalmente chiamato ad esplorare, con l’obiettivo del proprio perfezionamento.
La razionalità ha dunque preso abiti materialistici, e la fede non è diventata altro che una sorta di contatto personale con Dio. In questa visione i valori rappresentano soltanto mezzi per ottenere potere e per soddisfare desideri e piaceri personali. E’ importante sapere cosa questo significhi: ha portato alla ribalta un’etica basata sulla dominazione. La giustizia ed i diritti umani ne escono ridotti ad un qualcosa che serve a chi comanda per restare saldo al potere, ed ecco perché il qualche caso si è pedissequi nell’applicazione della giustizia, ed in qualche altro caso si è assolutamente negligenti. Questo succede perché valori interpretati in questo modo si staccano dal loro significato più vero ed autentico. La giustizia ed il diritto, in Occidente, sono degradati al punto che non rappresentano più un criterio significativo per definire una qualche condizione di umano benessere. Ed il vivere bene, per l’uomo, va ben al di là della mera possibilità di soddisfazioni primarie. In questa ideologia occidentale è diritto del singolo individuo perseguire il proprio benessere personale, ma questo non esce dalla sfera individuale e non ci si attende che i singoli pensino al benessere delle comunità in cui vivono.
A fronte di tutto questo, l’Islam e la Rivoluzione Islamica che rappresentazione propongono dell’uomo e dei suoi valori, e qual è il messaggio della Rivoluzione Islamica? In primo luogo, l’essere umano viene concepito come parte di tutto l’esistente, e tra esso ed il rimanente di ciò che esiste non vi è separazione. E l’esistente di cui tutti noi facciamo parte è retto da valori. I valori morali fanno parte dell’esistenza, e di questo mondo. Anche i valori etici intrinseci all’ordine alla base di ogni cosa vivente sono qualche cosa di reale. Cose come l’amore, la giustizia e la libertà sono parte dell’esistenza e nessuno ha il diritto di trasgredirle o calpestarle. Quando l’Islam parla di Dio e dei valori umani, di un esistere come esseri umani che dipende da Dio, Dio non è più un concetto astratto.
In Occidente i concetti di base della concezione islamica sono spesso stati confusi con la dottrina cristiana, e mai correttamente distinti. Credere in Dio nell’Islam significa innanzitutto credere in un sistema invariabile di valori e di principi etici, nel senso che la realtà che ha creato il mondo è anche la realtà che ha disposto per esso un sistema di valori e di principi. L’essere umano dispone della potenzialità per elevarsi verso la perfezione e per comprendere e seguire questo ordine etico. Quelli che oggi vengono chiamati bisogni personali dell’individuo non sono in grado di portare ad una condizione di felicità vera e propria.
In opposizione al laicismo che crede che ogni valore sia immanente all’uomo, e da esso creato, l’Islam crede che i valori trascendano l’essere umano e che costituiscano punti cui tendere per l’uomo intenzionato a percorrere il cammino che porta alla perfezione ed alla felicità.
Comportarsi secondo giustizia, ambire alla pace, rispettare i diritti altrui e rispettare l’ambiente sono dunque tutti doveri dell’uomo in quanto tale, cui non si può venire meno. Nel credere in Dio c’è anche un altro concetto: l’uomo, da qualunque razza o tribù provenga, è una creazione di Dio, e tutti gli uomini sono uguali. Questo contrasta con la concezione occidentale, che separa l’uomo dalla sua essenza. L’Islam considera l’uomo come un tutto armonioso le cui parti non possono essere concepite separatamente. I valori umani immutabili possono essere percepiti ed apprezzati tramite la coscienza; ogni uomo, attraverso ciò che è innato in lui, può condividere questi valori in ogni luogo ed in ogni tempo.
La ragione, nel pensiero islamico, è la guida tramite la quale l’uomo può arrivare a conoscere i valori ultimi dell’esistenza e con la quale può arrivare a costruire una società coesa. I concetti di politica e di forma di governo, nell’Islam, non ammettono il concetto di un uomo che ne domina un altro, o quello del dominio dell’uomo sulla natura. Nel pensiero coranico, l’uomo è la misura attorno a cui tutto si muove14.

La sfida dell’Islam: la ragione e la natura dell’essere

Dalla lucida esposizione di questo pensatore rivoluzionario emerge chiaramente il fatto che in Occidente è diffusa una concezione completamente errata sulla natura della Rivoluzione Islamica. Gli islamici stanno mettendo in discussione l’assunto basilare secondo cui la “modernità” laicizzata occidentale sia in grado di condurre l’uomo ad un autentico benessere. Essi rifiutano un particolare processo del pensiero strumentale occidentale, e gli abusi di potere che da esso sono scaturiti. Il significato di tutto questo verrà illustrato con maggior chiarezza nel prossimo capitolo perché questa è l’essenziale differenza tra due diversi punti di vista ed è necessario averne piena cognizione. Di fatto, essa prelude ad una riapertura del dibattito da cui sono emersi gli assunti di base della politica occidentale.
L’Islam sta sicuramente sfidando l’Occidente. Ma se escludiamo una piccola minoranza di musulmani che concepiscono questa lotta in termini escatologici o in termini di “distruggere il sistema per riedificarlo dalle fondamenta”, come fa Al Qaeda, la rivoluzione è una lotta di resistenza che non è centrata sull’uccidere, ma sulle idee e sui principi. Nella terza parte di Resistenza esamineremo nel dettaglio le ragioni della resistenza islamica attraverso la prospettiva di due movimenti islamici di primo piano, uno sunnita e l’altro sciita, Hamas e Hezbollah. L’Occidente ha sempre considerato, fin dai tempi delle crociate, l’Islam come una forma distorta della stessa religione che esso praticava; per questo, anche davanti all’inoppugnabile evidenza del contrario, gli riesce impossibile considerare l’Islam come qualcosa di diverso da un credo violento.
Il musulmano, fin dall’undicesimo secolo è stato fermamente concepito come nemico dei cristiani, e questo perché il farlo era al tempo stesso sia un qualcosa di intrinseco nello sviluppo di una cristianità occidentale, sia un qualcosa di necessario ad esso. A questa concezione di musulmano toccava sopportare il peso dell’apprensione occidentale circa la violenza esercitata dai cristiani durante le crociate, ma il persistere dello stereotipo di un Islam inteso come “la religione della spada” fa pensare che esso tocchi in realtà miti sepolti in profondità, appartenenti a correnti apocrife che facevano da sottofondo alla cristianità del tempo.
In Resistenza affermo che a mio avviso questo stereotipo non corrisponde al vero. La resistenza armata islamica non è quella di cui la stampa occidentale fa la parodia: non è una resistenza in armi contro una modernità che gli islamici sono refrattari o incapaci di assimilazione. E non si tratta neppure di una risposta riflessa alle violenze crociate: quando Luigi VII di Francia partì per la crociata, scrisse che sperava di uccidere tanti musulmani quanti ne aveva uccisi Mosè (sic), alla maniera in cui Giosuè aveva ucciso gli Amorini e i Cananiti. Il nostro religioso iraniano è sicuramente un sostenitore della resistenza: ma il suo obiettivo consiste nel costringere l’Occidente a cambiare il modo in cui si comporta, non nello sterminare occidentali alla maniera in cui i crociati volevano fare con i musulmani di Terrasanta. Delle questioni inerenti in modo più o meno diretto l’utilizzo della violenza si tratta nell’ottavo capitolo.
Nel corso della conversazione che avemmo con lui, il religioso mise in atto il tentativo di rifarsi ad una differente visione politica, una visione politica fondata sulla conversione, che volta le spalle per intero a tutto ciò cui siamo abituati in Occidente oggi. Gli islamismi sottolineano il fatto che l’Occidente è colpevole di aver distorto i propri principi fondanti dell’epoca dei Lumi. La loro critica nei confronti di questa distorsione va considerata qualcosa di diverso dalla critica all’Illuminismo di per sé. “Per prima cosa”, suggeriva il religioso, “gli occidentali dovrebbero rivedere e riconsiderare i punti fermi che cominciarono a diffondersi con il loro Illuminismo, o anche compiere altri passi indietro nella storia, fino ai tempi del Rinascimento”.
Fatto questo, l’Occidente scoprirà di aver distorto questi concetti di importanza capitale per l’umanità. I Lumi, nella loro origine, rappresentano idee e risorse che sono state utilizzate nel corso di tutta la storia dell’uomo; sono stati la loro distorsione ed il loro cattivo utilizzo ad aver aperto la strada al dominio occidentale sulle restanti parti del mondo.
L’Occidente di oggi ha sviluppato un concetto di individuo razionale, di società e di persona in genere molto diversi da quelli dell’epoca dei Lumi, un concetto che contempla una netta separazione dal retaggio delle esperienze umane accumulate nel corso della storia. In considerazione della profonda distorsione che l’Occidente opera di concetti tanto fondamentali, temo che pensare che il dialogo con i politici occidentali li conduca ad un tipo di rapporto in grado di correggere l’errata visione dell’Islam di cui si avvalgono sia poco realistico.
E’ notevole l’accento pessimista con cui il religioso iraniano chiuse il proprio discorso, ma forse la conclusione è drastica, ma non scontata. Gli islamici non sono gli unici a muovere una critica del genere, né possono essere definiti estremisti o antioccidentali per simili considerazioni. Il pensiero politico e filosofico islamico, almeno a Tehran, si muove secondo le stesse linee della critica teorica occidentale, almeno per alcuni aspetti della sua analisi, e forse non sorprenderà sapere che un teorico critico di primo piano, il tedesco Jürgen Habermas, gode di molta considerazione a Tehran.


Il pensiero critico: islamisti e laicisti

La Scuola di Francoforte, della cui seconda generazione Habermas rappresentò la principale figura, era un gruppo di filosofi, sociologi, psicologi sociali e critici culturali al lavoro nel periodo immediatamente precedente ed immediatamente seguente la Seconda Guerra Mondiale; dopo gli inizi a Francoforte, lo scoppio delle ostilità li costrinse a trasferirsi prima a Ginevra e poi negli Stati Uniti.
La Scuola di Francoforte tra le prime ha tentato di affrontare i temi della moralità, della religione, della scienza, della ragione e della razionalità partendo simultaneamente da prospettive molteplici. Questo l’ha condotta in un certo senso a sfidare, come l’hanno sfidato gli islamisti, l’assunto all’epoca ampiamente condiviso secondo il quale l’unico approccio valido ai problemi era quello empirico.
Allo stesso modo degli islamisti, gli appartenenti alla Scuola di Francoforte ritenevano che in Occidente a partire dal diciottesimo secolo la razionalità strumentale, un pensare basato su un approccio sperimentale “scientifico” spesso spurio che escludeva le altre forme di pensiero, avesse a tal punto falsato il pensiero occidentale da far comunemente ritenere, a torto, che le conoscenze da esso derivate fossero inattaccabili. Partendo da questo punto di vista, e allo stesso modo del religioso sciita, essi affermarono che una “scientificità” come questa soffriva di tali distorsioni che andava ormai considerata più che altro un mezzo per dominare e controllare l’ambiente, la natura e l’uomo stesso. Era divenuta una forma surrettizia di ragionamento in termini di mezzi e fini.
La Scuola di Francoforte sottolineava il fatto che l’approccio empirico si reggeva sull’illusione di derivazione positivista secondo cui una teoria non è altro che il trovare il modo corretto di riprodurre un qualche circoscritto ed indipendente ambito di fatti. Questo punto di vista veniva rifiutato, a favore di un altro in base al quale una teoria, ed il modo in cui il mondo appare, sono tra loro in un rapporto tale per cui l’una e l’altro si determinano reciprocamente. (Gli islamisti hanno in ogni caso una diversa concezione filosofica della realtà).
L’impatto con la società dei consumi negli Stati Uniti condusse gli aderenti alla Scuola a formulare una critica radicale del pensiero occidentale destinata ad esercitare un’influenza a lungo termine sulla filosofia occidentale contemporanea. Da principio, si concentrarono sul modo in cui la cultura americana era caduta vittima delle grandi imprese, che esercitavano tecniche pervasive di manipolazione e di controllo. La mano pesante dell’impresa sulla cultura di massa faceva sì che le persone accettassero o anche difendessero un sistema sociale che conculcava ed opprimeva dietro le loro spalle i loro stessi interessi vitali, mentre allo stesso tempo rinforzava in loro l’illusoria sensazione che lo stato di cose in essere procurasse soddisfazione e benessere. Invece di mostrarsi critici verso un ordinamento sociale che impediva loro di raggiungere una vera felicità, preferivano sperimentare quella fittizia proposta dai loro idoli del teleschermo. L’America delle corporations aveva de-politicizzato la cultura e l’aveva messa come in formalina, deafferentando il senso critico delle persone15.
Max Horkheimer e Theodor Adorno pensarono che la conquista dell’industria culturale da parte degli interessi delle corporations rappresentava un esempio della capacità della società occidentale moderna di creare e di trasformare i desideri ed i bisogni delle persone al punto da far loro seguire docilmente le aspirazioni tipiche degli stili di vita che gli venivano sciorinati davanti, al punto da far loro cessare di desiderare una vita piena e soddisfacente: l’adozione di un determinato stile di vita diventa un fine in se stesso. L’irrompere di questa docilità indotta ha segnato effettivamente la depoliticizzazione della politica. La cultura è sopravvissuta, ma ne è uscita ridotta alla dimensione privata: un modo di vivere, più che una rete pubblica di norme e di ruoli.
Tutto questo ha rappresentato un vero trionfo per la politica depoliticizzata. Una politica vissuta come stile di vita, una politica che non pensa più a proporre lotta e sacrificio in nome della giustizia o dell’equità come i musulmani sono invece tenuti a fare, in aperta contraddizione agli stessi piaceri di uno stile di vita tollerante e ad una rilassata e tranquilla abitudine alla scelta. Un mondo in cui tutto è permesso, o almeno è permesso tutto ciò che può assumere la forma di un piacere personale, ed in cui in accordo con i piaceri offerti ogni divisione sociale ed ogni ingiustizia vengono disinnescate tramite la diffusione di un falso senso di equità rappresentato dalla possibilità di accedere all’entertainment. Un mondo di remissività autopacificata.
In una cultura in cui l’unico valore a non essere messo in discussione è rappresentato da un diritto di scelta che tende anche a diventare il valore principale, ogni relazione diventa interrompibile e provvisoria col mutare dei desideri e man mano che il singolo individuo esercita il suo diritto di scegliere. L’autoregolamentazione della comunità e la sua coesione vengono gravemente minate in una società individualizzata, ed il risultato di tutto questo è rappresentato dall’esclusione e dall’alienazione. 
I teorici della Scuola di Francoforte chiamano tutto questo “un falso stato di riconciliazione”. Falso perché basato sull’ottimistica considerazione secondo cui il mondo dei rapporti sociali era caratterizzato da razionalità, tendenza alla libertà e alla felicità umana ed in lineare cammino verso un benessere ed un progresso umano destinati ad un sempre maggiore consolidamento. La realtà dei fatti è opposta. A partire dal diciottesimo secolo, gli scrittori angloamericani hanno erroneamente previsto, e lo hanno fatto più volte, l’instaurarsi di un durevole sistema caratterizzato dalla prosperità liberale e dal libero commercio, le cui conseguenze sarebbero state la prosperità e la soddisfazione dei bisogni.
Avevano completamente torto. Cent’anni prima della Scuola di Francoforte, lo stesso Hegel aveva asserito che era già stata raggiunto uno stato di autentica riconciliazione sociale. A suo dire le condizioni sociali e politiche del suo tempo erano tali che, tutto sommato, potevano soddisfare i più intimi desideri di ogni uomo o di ogni donna dotati di raziocinio. Questo ottimismo utopistico si è spinto tanto oltre che di recente ci sono venuti a raccontare che dopo il collasso dell’Unione Sovietica le divisioni politiche erano giunte ad un punto morto, così come la storia in sé. L’apparente trionfo del neoliberalismo appariva scontato, e non si prospettavano all’orizzonte alternative realistiche: i leader politici non avrebbero avuto da allora in poi altro compito che quello di approntare una macchina amministrativa efficace ed efficiente e di assecondare ogni nuovo caso di personale prosperità.  


La depoliticizzazione della politica e della cultura

Le figure di spicco della Scuola di Francoforte, allo stesso modo del nostro religioso sciita, sono divenute man mano più pessimiste circa la possibilità di ricondurre la politica nell’alveo di una funzione differente, come la riconversione verso una diversa serie di valori da raggiungere con l’esercizio del pensiero critico e la stimolazione delle competenze critiche del pubblico. Il problema con cui hanno dovuto confrontarsi e con cui ancora oggi si confrontano sia gli islamici che i critici teorici è rappresentato dal fatto che la depoliticizzazione della politica implica al contempo la soppressione della filosofia.
I critici teorici, come il nostro interlocutore iraniano, mostravano un profondo disaccordo nei confronti dell’entusiasmo occidentale per la modernità: la politica occidentale è per loro lungi dal soddisfare i più profondi bisogni dell’uomo. Come per gli ateniesi, sembra che ottanta stadi di distanza siano appena sufficienti a superare l’uomo propriamente detto -e la sua moderna controparte- dal cattivo odore che promana dal volgo degradato del porto.
Adorno ed Horkheimer pensavano che le competenze cognitive del pubblico si fossero atrofizzate fino a limitarsi al mero calcolo di quale fosse la via più efficiente per giungere ad un dato fine. Invece di liberare l’uomo, come pensavano gli illuministi, le dinamiche della società moderna stavano disumanizzando uomini e donne facendoli sottostare ad una rete di disciplina amministrativa e di controlli anche più pervasiva. Pensavano che si sarebbe giunti ad un cambiamento solo attraverso l’esercizio del pensiero critico razionale… eppure… eppure… al centro del problema c’era proprio questa razionalità atrofizzata e distorta. Per Adorno, alla fine, se non si poteva chiedere aiuto ad una razionalità piegata dal proprio stato atrofico, non restava altra soluzione che la resistenza. Una resistenza all’ordine costituito: il poter dire no, il rifiuto di conformarsi o di sottomettersi all’ordine sociale vigente16.
Jürgen Habermas, capofila della seconda generazione di critici teorici, assunse un punto di vista un po’ più ottimistico. La critica e la descrizione dell’ideologia occidentale prevalente, laddove con ideologia intendeva l’insieme di false credenze sulla cui verità c’è un accordo ampiamente condiviso dal momento che gli appartenenti alla società prestano ad essi fede in qualche modo, potrebbe servire almeno ad uno scopo: un’opera di critica che descrivesse queste illusioni socialmente costruite per quello che sono in realtà -proprio delle illusioni- secondo Habermas avrebbe permesso alle strutture sociali di conservare una certa fluidità rimanendo suscettibili di cambiamenti.
Per superare le difficoltà implicite nel realizzare un’operazione di critica in tempi definiti come un’epoca di “morte della politica”17, Habermas suggerì di tentare di individuare, dove fosse possibile, le condizioni sociali ed istituzionali in cui rimanessero possibili forme di autonomia capaci di sfociare nella realizzazione di istituzioni genuinamente democratiche nel senso inteso da Platone, capaci dunque di opporsi all’imperversare del neoliberalismo e all’assalto mediatico delle corporation.
Questo approccio occidentale e laico alla critica teorica, che ha origine da una prospettiva molto diversa da quella islamica, ricalca non di meno quello del nostro religioso sciita:
Io penso che si debba adottare una linea di comportamento fatta di dialogo e di resistenza al tempo stesso. La resistenza di per sé, senza il dialogo e senza un sostegno teorico, permetterà solo di accedere alla ribalta a movimenti come Al Qaeda. Ed anche il dialogo di per sé non porterà da nessuna parte, perché i leader politici occidentali rifiutano per la maggior parte di riconoscere ai loro interlocutori quel rispetto e quella parità che sono indispensabili ad un vero dialogo e ad un vero scambio di idee.
Certo, i limiti denunciati dal religioso non significano che in Occidente non esista nessuno che sia capace di esercitare il pensiero critico. Sostenere una cosa del genere significherebbe commettere un grossolano errore nella valutazione dell’Occidente. Il religioso iraniano tuttavia sostiene il pessimismo della filosofia occidentale contemporanea, che si spinge a negare la possibilità che la discussione razionale con occidentali di buona volontà possa di per sé innescare un cambiamento di paradigma in Occidente o evitare che i suoi leader politici continuino a fare orecchie da mercante a qualunque critica possa costituire una minaccia per la loro “grande narrazione”.
La vulgata che essi adottano è una sorta di narrazione angloamericana che sincretizza le vicende di Abramo e la storia del capitalismo. Lo sviluppo del capitalismo, in essa, si lega alla volontà rivelata dell’Onnipotente, permettendo a coloro che la accettano di farsi una ragione dei cambiamenti e degli sconvolgimenti intrinseci alla quotidianità di un sistema capitalista, ed allo stesso tempo promuovendo le idee -come la supremazia dell’individualismo- che permettono al capitalismo di avere successo; ma la forza di questa ideologia, che ha favorito prima i britannici e poi gli americani nella costruzione di potenze mondiali, possiede anche un altro aspetto. Gli americani in generale credono che Dio abbia affidato loro una missione, e che il benessere degli Stati Uniti d’America dipenda dal grado di fedeltà con cui gli americani si dedicheranno alla loro missione18. “Noi americani siamo il popolo eletto, l’Israele dei nostri tempi; siamo i detentori dell’arca in cui sono custodite le libertà del mondo”, ha scritto Herman Melville19.
Dai tempi dell’arrivo dei primi coloni, l’America ha sempre visto se stessa attraverso la lente di un cristianesimo fortemente influenzato dalla tradizione puritana d’Inghilterra. Dal cristianesimo deriva la visione della storia umana come processo teleologico, ovvero come progresso lineare verso una conclusione predeterminata, ed anche l’idea del verificarsi di una trasformazione radicale, dell’instaurarsi di una nuova era come frutto delle azioni umane e della forza della volontà. Il manicheismo di Sant’Agostino però, che considerava il Male come caratteristica non eliminabile dal mondo, seguendo Mani -il saggio persiano fondatore del manicheismo- suggeriva anche che la potenza del Male potesse in qualche modo resistere alla volontà di Dio. Nel corso del tempo i cristiani riformularono questo concetto nell’idea di una guerra cosmica tra Bene e Male:  finì per farsi strada l’idea di un Bene che trionfa in ultimo, grazie all’intervento umano.


La “nazione redentrice”, in missione per conto di Dio

Con la crescita della religiosità negli Stati Uniti, avvenuta nel corso degli ultimi venti anni, il primo posto nel dettare la linea della politica estera l’ha preso l’entusiasmo nei confronti dei cambiamenti epocali producibili nel mondo tramite la potenza americana.  Al posto di trovare un redentore che sia in grado di condurre in anticipo a questa “drastica rottura” con la storia, ad un azzeramento di precedenti peccati e cattive azioni, sotto la presidenza Bush gli Stati Uniti hanno ridefinito la “missione per conto di Dio” di cui si sentono investiti come la missione di qualcuno che s senta rivestito del ruolo di “nazione redentrice”, secondo la definizione del professor John Gray20.
La certezza che l’America sia investita da un destino speciale, concepita alla metà del XIX secolo, ha fatto da sostegno ad un percorso che ha portato dalla generica attesa per un salvatore messianico in grado di provocare una radicale trasformazione del mondo, che era al centro del cristianesimo dei primi secoli, ad una concezione che assegna all’America il ruolo del salvatore -la “nazione redentrice”- ed anche all’idea, espressa da Melville, che l’America costituisca la terra del “popolo eletto”.
Conrad Cherry, in God’s New Israel: Religious Interpretations of American Destiny, nota che
…la convinzione che l’America sia stata scelta da Dio per avere un ruolo speciale nel mondo è sempre stata al centro delle cerimonie civili americane, dei discorsi di insediamento dei presidenti, delle sacre scritture di una sorta di religione civile. Ricorre in modo tanto pervasivo nella vita del paese che la semplice parola “convinzione” non riesce a renderne il ruolo attivo che essa ha svolto in tutta la storia del popolo americano21.
La diplomazia statunitense dell’epoca di Bush, seguita a ruota dagli europei, ha rispecchiato questo approccio e questo linguaggio da redentori designati: a Siria ed Iran è stato ingiunto di emendarsi dai peccati del passato e davanti a stati sovrani è stata posta una “scelta” tra modificare il comportamento “sovversivo” fino a quel momento tenuto, compiendo un taglio netto rispetto al passato, oppure accettare il fatto che avrebbero finito per attirare l’attenzione di una nazione redentrice e contrariata; stati sovrani avrebbero dovuto “integrarsi nel mondo moderno” inteso come lo intende l’Occidente -un mondo di libero mercato e di capitalismo liberale- o fare i conti con l’isolamento internazionale. L’ “asse del male” sarebbe stato sconfitto dalle forze della “libertà”. Ai “cattivi soggetti” sarebbe stato imposto di fare pubblico atto di espiazione, o di affrontare un’espiazione violenta ad opera delle forze armate americane.
L’idea che si possa produrre una discontinuità nella storia con questi sistemi può sembrare poco realistica, ma quella della violenza scatenata in nome del progresso non è un’idea nuova in Occidente. Un pensatore illuminista come il marchese di Condorcet, che morì in carcere il giorno dopo esser stato arrestato dal Comitato per la Pubblica Sicurezza di Robespierre, può esser rimasto esterrefatto dalla maniera in cui le sue convinzioni sul progresso del genere umano erano arrivate ad alimentare il terrore politico. Eppure, nemmeno il fatto che gli ideali illuministici siano stati diffusi con il terrore e con la forza militare rappresenta davvero qualcosa di sorprendente. Si tratta semplicemente di una conseguenza del trasferimento sul piano laico della credenza cristiana nella radicale ed apocalittica trasformazione cui la vita umana sarebbe andata incontro per conseguenza di un umano atto di volontà. Un motivo escatologico cristiano è riemerso negli Stati Uniti sottoforma di progetto utopistico per l’emancipazione universale.
Questo punto deve essere chiaro: qui non si tratta di una tendenza suscettibile di critica razionale da parte dei critici teorici occidentale o dei postmoderni, per tacere di quelli islamici, ascritti in blocco alle “forze del male”. Conrad Cherry si concentra a sottolineare come l’elevarsi a convinzione diffusa dell’effettivo coinvolgimento in una missione redentrice stesse esercitando la propria influenza sugli americani. Si tratta di un fenomeno che deve fare il proprio cammino, ed è possibile che esso si sia già compiuto. L’idea di una trasformazione apocalittica è un principio di derivazione cristiana che negli Stati Uniti è stato portato alle sue estreme conseguenze dall’incontro con una serie di idee politiche frutto di un punto di vista assolutamente diverso, come le teorie economiche di Milton Friedman.
Friedman è stato l’assertore di una sorta di redenzione laica in materia di economia. Credeva che una “terapia shock”, sorta di equivalente condiviso dell’elettroshock impartito ai pazienti psichiatrici, potesse essere utile per cancellare gli schemi comportamentali  adottati in passato da un paziente e per fare della mente del paziente una sorta di tabula rasa sulla quale impiantare nuovi schemi comportamentali socialmente più accettabili.
Secondo Friedman, l’equivalente economico di questa terapia shock, ossia un evento traumatico quanto basta per produrre uno shock generalizzato in un sistema economico, potesse essere necessario per ripulire il terreno sociale dai trascorsi schemi di (cattivo) comportamento e da tutte le forme pregresse di solidarietà sociale, in modo da prepararlo ad accogliere una nuova struttura economica neoliberale, da costruire attorno ad un principio organizzativo rappresentato dall’individualismo.
Questa teoria fu sperimentata in Cile, dove Friedman agì come consigliere economico, ed è stata più recentemente provata anche in Iraq, dove Paul Bremmer ha tentato di instaurare nuove strutture economiche neoliberali sulla “lavagna pulita” rappresentata da un Iraq nelle condizioni di traumatizzazione e di disorientamento immediatamente successive alla sua occupazione. Ora, sia in psichiatria che in economia, l’idea che uno shock profondo possa servire a preparare una tabula rasa sulla quale si potessero scrivere pattern comportamentali differenti si è rivelata un mito. Tra l’altro, quest’idea si porta dietro anche l’odore di quegli esperimenti “scientifici” condotti in Germania sulle cavie umane in nome del “progresso”; si tratta di un esempio di quella “razionalità strumentale” tipica del pensiero occidentale, secondo la quale creare un trauma e sconvolgere le vite di molte persone è parte integrante della missione di provvedere all’accrescimento del benessere umano di cui l’Occidente si sente investito.


Riconoscere la Resistenza

Se il retroterra è questo, il pessimismo mostrato dal nostro rivoluzionario iraniano in materia di dialogo con l’Occidente appare perfino moderato. Insiste sul fatto che resistere alla “redenzione” occidentale, al pensiero strumentale delle élite politiche ed economiche ed al loro promuovere una società docile e depoliticizzata a loro sottomessa, rappresenta l’unica risposta possibile. Paradossalmente è proprio questa resistenza che potrà finire, a tempo debito, con l’aprire la strada ad uno schietto dialogo tra Islam ed Occidente.
La storia non è finita qui. Non troppo tempo fa, la maggior parte degli intellettuali europei ed americani viveva in un mondo in cui c’era posto per una sola grande concezione, quella del “progresso occidentale”. Questa concezione sopravvive nelle élite e nelle classi politiche europee ed americane, ma i filosofi postmoderni sono sicuramente nel giusto quando avvertono che essa è prossima al crollo. Invece, coloro che affermano che tutte le concezioni onnicomprensive del mondo hanno finito per crollare hanno sicuramente torto, perché quella islamica non è crollata, è più viva che mai ed in piena ascesa.
Uno dei più significativi pensatori critici del mondo contemporaneo ad essersene accorto è stato il filosofo francese Michel Foucault. Si recò a Tehran durante la prima fase della rivoluzione, e notò l’energia ed il potenziale per un mutamento radicale che la Rivoluzione Iraniana presentava. La sinistra, da sempre poco a suo agio con il pensiero e con le politiche di ispirazione religiosa, lo mise letteralmente alla gogna.
Foucault comprese che l’Occidente doveva trovare i mezzi per rinvigorire la propria narrazione, se essa rimaneva troppo indietro a causa dei limiti imposti dalla sua “visione” approssimativa delle cose. Approssimativa almeno per la maggioranza dei musulmani e per il resto della popolazione mondiale. Non ci interessa qui promuovere, o sostenere il dialogo tra politici occidentali ed islamici: da un punto di vista regionale, probabilmente è anzi la resistenza sviluppatasi in tutto il mondo contro l’Occidente che può rivelarsi come il miglior catalizzatore per un effettivo cambiamento delle cose in Europa ed in America.
Su questo argomento condividiamo il pessimismo del nostro religioso iraniano; ma crediamo anche che il reciso pessimismo di Adorno e della Scuola di Francoforte sulla possibilità che gli occidentali riescano a mettere in atto autentici cambiamenti nei loro sistemi sociali rifletta circostanze che erano tipiche di qualche tempo fa. Sembra che nel periodo immediatamente successivo all’implosione dell’Unione Sovietica l’Occidente abbia tirato troppo dalla propria parte il pendolo dell’ideologia: adesso è chiaro che le componenti politiche, sociali ed economiche della visione neoliberale del libero mercato si stanno sfaldando. L’idea di Foucault, secondo il quale la Rivoluzione Iraniana presentava importanti elementi che anche i pensatori occidentali avrebbero dovuto afferrare, è stata svuotata dalla propria forza d’urto sia a causa dell’ostilità che incontrò da parte della sinistra, sia a causa degli aspetti della rivoluzione che non furono compresi o che in Occidente suscitavano una forte avversione. L’essenza del suo messaggio andò perduta nel vespaio che ne derivò.
Sarebbe il caso di riconsiderare la tesi di fondo di Foucault: il suo aver compreso in che modo una società che sta vivendo un periodo di declino riesce a prendere il sopravvento e a superare i limiti imposti dalla situazione, rinnovando i propri valori ed il proprio modo di pensare. I due percorsi possibili per arrivare a questo, a suo parere, erano rappresentati dalla riconsiderazione dei principi fondanti di una società -in altre parole, ripensare l’Illuminismo e guardare da un nuovo punto di vista alle sue istanze-  oppure cercare al di fuori della stessa società qualcosa che già fornisse consapevolezza di sé ad altri.
Al giorno d’oggi la Rivoluzione Iraniana non può chiaramente rappresentare una fonte di ispirazione per simili prese di coscienza, come Foucault sperava. L’Iran è stato demonizzato in maniera troppo ossessiva. E gli islamici di quella regione non hanno alcun obbligo morale che li impegni in un’impresa simile, forse almeno fino a quando non emergeranno nuovamente le condizioni per un vero dialogo.
Se l’Iran non è al momento utilizzabile come fonte per un nuovo modo di pensare, o per una riconsiderazione complessiva di un sistema di valori, allora la “resistenza” di Adorno, che consiste nell’elevare in Occidente, per mano degli occidentali e dei musulmani che in Occidente vivono, un sistema di pensiero critico nei confronti dell’ordine vigente, può essere intrapresa sulla base di un’altra grande visione complessiva del mondo, quella dell’Islam, che al suo interno comprende il pensiero politico e filosofico iraniano.
Secondo il concetto di consapevolezza che Foucault adotta, una critica che rimanga all’interno della sfera occidentale non ha molto valore, a meno che ovviamente non sia accompagnata da intenti propositivi. L’insistenza con cui gli islamici rimettono l’essere umano al centro della società e con cui ne fanno il punto di riferimento da cui derivano tutti i valori sociali come la giustizia, l’equità ed il rispetto, sembra un buon punto di partenza. Simili idee trovano ascolto anche presso gli occidentali laici che possono non provare trasporto verso l’Islam di per sé, e sono al tempo stesso coerenti con le aspirazioni originarie dell’Illuminismo europeo.
Deve essere chiaro che Foucault non criticava l’Occidente per amore del criticare, ma per ricordare che una critica può anche dischiudere nuovi spazi politici. Ed occorre anche ricordare che una volta attorno al 1140 due studiosi, uno cristiano ed uno musulmano, si ritrovarono nell’ex moschea di Toledo in Spagna, appena strappata ai Musulmani nel corso della Reconquista della terra che l’Islam chiama al’Andalus. Nel mezzo secolo successivo, i due studiosi tradussero in spagnolo ed in latino non meno di ottantotto opere arabe di astronomia, matematica, medicina, filosofia e logica, i principali campi di studio che sostennero la grande rinascita dell’erudizione in Europa nota come il Rinascimento del dodicesimo secolo22.


Di cosa tratta Resistenza

Lo scopo di questo libro, che poi è anche la ragione per cui sono stati adottati determinati criteri nella sua redazione, è quello di spiegare al meglio che cosa sia la rivoluzione islamica. Andare al cuore di essa; percepire almeno un po’ di quella che è la potenza delle idee per come esse si sono sviluppate; il coinvolgimento e la potenza di eventi e movimenti che riescono a mobilitare e ad infondere energia a milioni di persone. Non è stato concepito come un lavoro empirico ed accademico. Non rappresenta un tentativo di rassegna complessiva di tutti i movimenti islamici, e non ha alcuna pretesa di rappresentare una storia dell’Islam.
Tenta invece di cogliere l’essenza della recente rinascita di una delle grandi narrative della storia, una visione del mondo che rappresenta una sfida diretta alla sua concezione occidentale, e di avanzare qualche ipotesi su quello che potrebbe succedere se la concezione europea finisse per appartenere ad una minoranza dopo oltre duecento anni di supremazia indiscussa. Se questo dovesse succedere, i politici dovrebbero ripensare radicalmente la loro concezione euroamericana.
Questo libro tenta di identificare la natura essenziale dell’Islam e del suo messaggio. Questo significa che esso presenta per forza di cose un punto di vista personale. Tentare di offrire un punto di vista oggettivo a fronte di un fiume di scetticismo e di ostilità nei confronti dell’Islam, che in tutti i modi si cerca di marchiare come null’altro che un colpo di coda violento, reazionario e passeggero contro l’avanzare della modernità, enumerando tutte i piagnistei contro l’Islam e contro gli islamici e tentando di confutarli significherebbe a mio avviso mandare a picco una solitaria e fragile zattera con un sovraccarico di controprove e di apologie.
L’utilizzo di una sorta di “equidistanza”, che serve a poco più che a mascherare il fatto che quando si tratta di Islam si pretenderebbe più equilibrio che in ogni altro campo per controllare e scegliere le argomentazioni, conferirebbe al lavoro un sentore pseudo empirico. Questa pretesa di equilibrio ha lo scopo di mettere in secondo piano senza troppo farsene accorgere qualunque posizione politica positiva ed assertiva, nonché quello di assicurare, insistendo sulla confutazione di tutte le accuse che vengono solitamente mosse all’Islam, che l’opera intera si presenti all’insegna di un continuo giocare in difesa pervaso nella sua interezza da un sentore vittimista.
Lo stesso motivo è alla base della relativa scarsezza di riferimenti ad analisi dettagliate dei fatti di cronaca o di quelle inerenti la politica estera che si trova nell’opera. Questo modo di procedere rispecchia una delle premesse su cui il libro è impostato, secondo la quale molte delle crisi localizzate che dobbiamo affrontare nelle relazioni tra Occidente ed Islam hanno una natura sintomatica e che se vogliamo comprenderne il perché dobbiamo cercare molto più in profondità nelle cause che sottostanno a tutte queste tensioni.
Rispecchia la considerazione secondo la quale l’Occidente continua a dare una lettura erronea degli eventi mediorientali, perché l’Occidente considera l’Islam come una semplice lotta per il potere politico e per la sovranità. L’Islam non è questo. L’Islam rappresenta una precisa visione del comportamento umano, che si traduce in un modo alternativo di concepire l’uomo, il posto dell’uomo e della donna nell’ordine naturale delle cose, il loro comportamento verso gli altri, il loro ruolo nella società, l’ordine in cui dovrebbero essere disposte le necessità materiali dell’uno e dell’altra, ed infine la gestione delle questioni politiche.
Si tratta di una lotta tra due visioni dell’essere umano. La visione occidentale privilegia l’individualità, e definisce questa “individualità” come il principio organizzatore più appropriato attorno al quale la società dovrebbe essere modellata. L’altra concezione, il punto di vista islamico, considera l’essere umano come integrato all’interno di un’esistente più ampio, collegato in maniera inscindibile, e non separato in quanto “individuo”, agli altri ed al mondo che lo circonda. Una concezione che considera l’uomo come una creatura multidimensionale, maggiore della somma dei suoi desideri e dei suoi appetiti, la cui capacità di accedere a valori morali innati come base del suo comportamento responsabile all’interno della comunità diventa il principio organizzativo dell’economia, della politica e della società.
Tutto questo può anche sembrare semplice, ma il disaccordo su che cosa costituisca il nucleo essenziale dell’essere umano, assieme all’atteggiamento mentale che caratterizza una comunità costruita su principi religiosi rispetto a quello che caratterizza una comunità laica, ha conseguenze di vasta portata. E’ questa profonda divisione a costituire l’essenza della cattiva comunicazione e della cattiva comprensione reciproche, piuttosto che le questioni di politica estera che derivano da una serie di contrasti subordinati e localizzati che potremmo considerare i sintomi, più che le cause del trauma.
Allo stesso modo questo non è un volume sui rapporti tra Israele ed Islam, perché per l’Islam Israele non è altro che un caso specifico della weltanschauung politica e filosofica dell’Occidente. Dal momento che questo vuole essere un libro sul rapporto tra Resistenza islamica ed Occidente, Israele non occupa nella questione altro che un ruolo di comprimario. Questo non significa sostenere che il conflitto tra Israele e Palestina sia poco importante. Ha sicuramente un’importanza fondamentale, ma si è scelto di limitare lo scopo di questo lavoro alle idee che stanno alla base della rivoluzione islamica, e a come queste idee vengono metabolizzate dal pensiero occidentale. Tra idee ed eventi esiste sicuramente una relazione reciproca che non è nostra intenzione negare: vorremmo però porre l’accento sulle divergenze fondamentali del pensiero, al contrario di quello che fanno gli innumerevoli lavori che affrontano i dettagli di questi conflitti.
Per gli stessi motivi non si affrontano in questa sede questioni di genere, concepite come se rappresentassero una componente separata e distinta della rivoluzione islamica, e nel far questo si è messo in conto anche di essere suscettibili di critica. C’è da attendersi che le questioni di genere diventino un argomento chiave per le critiche all’Islam, in qualunque sede si affronti l’argomento.
Le questioni di genere non vengono affrontate in questo libro per due motivi. Il primo è che l’approccio basato sul genere che è tipico delle critiche all’Islam è spesso intriso di valori eurocentrici; perché è possibile scrivere sulla società israeliana e sull’ebraismo senza neanche prendere in considerazione le severe restrizioni imposte alle ebree ortodosse o ai loro diritti in una società ebraica ortodossa, mentre quando si affronta l’argomento Islam una simile omissione viene interpretata come condiscendenza nei confronti degli islamici?
Non ho trattato questioni femminili anche perché in questa fase la rivoluzione islamica non è questione che divida uomini e donne in termini ideologici, e perché la concezione islamica di una comunità che si dispone a resistere ruota attorno ad una mobilitazione collettiva. In termini più pratici, perché la questione delle relazioni sociali tra uomo e donna è, nell’Islam, una materia oltremodo complessa.
E’ complessa perché esistono rivelazioni coraniche che su questa materia hanno rappresentato la base per un’autentica rivoluzione per le donne (stabilendo uguaglianza e diritti per le donne che anticipano di vari secoli gli omologhi occidentali) ed hanno al tempo stesso puntato ad una cesura completa con i modelli di comportamento sociale allora imperanti; ne esistono però anche altre che sembrano rafforzare la supremazia maschile. Il conciliare rivelazioni differenti è cosa che dipende molto dalle circostanze precise in cui l’Inviato ricevette una rivelazione in particolare, ovvero dal contesto in cui egli pose davanti a Dio una questione che era stata sollevata da qualcuno dei suoi seguaci.
L’interpretazione di ogni rivelazione va anche collocata nel contesto della vita politica a Medina, che ai tempi era in una condizione vicina a quella della guerra civile. Le tensioni di Medina si riflettevano spesso nel modo con cui l’Inviato si comportava con le proprie mogli: proprio questo fronte fu spesso fatto proprio da quanti gli si opponevano a Medina, per avere di che attaccarlo.
A questa difficoltà se ne aggiungono varie altre. Il Corano, innanzitutto, è una versione delle rivelazioni all’Inviato sottoposta a redazione, e non segue un ordine cronologico in quanto versi simili sono raggruppati con versi simili. Questo successivo lavoro di redazione fa sì che il collocare questo o quel passaggio nel giusto ordine cronologico e nel giusto contesto politico sia lavoro da storici esperti.
Purtroppo alcuni esperti hanno considerato validi alcuni hadith (detti dell’Inviato collegati all’interno di una lunga catena di trasmissione, infine annotati, raccolti e commentati) della cui autenticità si può quasi certamente diffidare. Ed alcuni hadith dall’originalità dubbia riguardano direttamente la posizione delle donne. Nonostante sia ampiamente dubbio che l’Inviato abbia davvero emesso certe considerazioni, alcune di esse sono tanto estesamente e tanto profondamente entrate nella cultura popolare che è diventato quasi impossibile correggerle.
Inoltre, come successo all’interno del cristianesimo, i testi sono stati emendati nel corso del tempo e l’élite maschile dell’epoca ha condotto una vigorosa campagna contro alcuni dei rivoluzionari cambiamenti della condizione femminile introdotti dall’Inviato sostenendo, dopo la sua morte, che essi si riferivano solo alla sfera pubblica e che negli affari privati di ciascuna famiglia si sarebbero dovuto seguire i vecchi costumi legati alla supremazia maschile. In breve, l’élite maschile riuscì negli anni che seguirono a disinnescare alcuni cambiamenti fondamentali e a ripristinare alcune delle antiche regole sociali delle tribù arabe23.
Spiego tutto questo perché le relazioni tra uomo e donna non sono, neppure in questo caso, qualcosa che si possa liquidare velocemente; rappresentano piuttosto un argomento che richiederebbe, da solo, un altro libro. Non è facile separare il messaggio coranico originario dalle singole istanze distinte attribuibili alle necessità politiche che inducevano l’Inviato ad accordare diritti tradizionali ai suoi soldati; lo sfavorevole rapporto di forze a Medina dopo la sconfitta nella battaglia di Uhud ed i tentativi di emendare i testi compiuti dal secondo califfo e dagli scribi che ne raccolsero le parole, spesso molti anni dopo la sua morte. A mio avviso, includere tutte queste istanze disparate ed il loro impatto sull’Islam del tempo in un libro che tratta di resistenza e di rivoluzione distoglierebbe semplicemente l’attenzione dal tema principale, ed aggiungerebbe poco di significativo affrontando questioni sociali tanto complesse. Si tratta comunque di un argomento non privo di fascino: all’interno dell’Islam il femminismo ha prosperato, ma non nella maniera in cui esso viene normalmente inteso in Occidente.
Il fatto che il testo verta sulla rivoluzione islamica e sulla resistenza non significa negare che esistano attivisti e movimenti in Occidente o in altre regioni come il Sud America che non possano condividere, tutti o in parte, gli obiettivi degli islamici, e che non si siano mossi o  non si stiano muovendo nelle stesse direzioni specificate in questo volume. Ci sono prove che suggeriscono che lo stiano facendo; il fatto che qui non se ne tratti non deve essere interpretato come una mancanza di rispetto o come uno sminuire i traguardi che essi hanno raggiunto: qui si focalizza l’attenzione sulla rivoluzione islamica e sulle sue implicazioni, in altre sedi si potrà contare su competenze migliori per riflettere sulla resistenza sudamericana e per individuare eventuali elementi in comune.
Usando termini di portata tanto generale, come islamico o occidentale, si finisce per prestare sempre il fianco alla critica di Edward Said, che sostiene che queste categorie non esistono come tali facendo riferimento alla propria condizione di cristiano palestinese che utilizza un linguaggio, l’arabo, che in materia di politica non è scindibile dall’Islam, nonostante egli stesso sia appunto cristiano. Secondo Said, per gli arabi -e per i persiani- il linguaggio della politica è intriso di islamicità e per i musulmani non esiste una lingua non “islamizzata” per trattare di politica.
Said, chiaramente, non ragionava da osservatore esterno né nei confronti dell’Occidente né nei confronti del mondo islamico. Ragionava come qualcuno che fa parte di entrambi e nonostante la sua opera tentasse di attenersi all’assunto secondo il quale compartimenti stagni come quello chiamato “Occidente” non sono mai stati immutabili e meno che mai lo sono oggi, è difficile scrivere come in generale senza prendersi qualche libertà in materia di generalizzazioni. Occorre che queste scorciatoie siano chiare prima dell’inizio, ed occorre, sempre prima dell’inizio, scusarsi per eventuali distorsioni di significato che esse potranno causare.
E’ abbastanza giusto anche ammettere che, così come il religioso iraniano ampiamente citato in questa introduzione non può parlare per conto dell’Islam nella sua interezza, allo stesso modo non esistono un Islam o un islamismo; ne esistono svariati. Esiste un problema di linguaggio, con l’Islamismo, che rende bene l’idea di questa difficoltà. Il vocabolo Islam ha assunto in Occidente connotazioni negative che impediscono di utilizzarlo in una comunicazione efficace, e lo stesso succede per altri vocaboli di uso comune come shari’a (la legge islamica), salafiti (un termine che indica coloro che adeguano il proprio comportamento a quello dei primi seguaci dell’Inviato); jihad (letteralmente “impegno”), “fondamentalismo” e molti altri, compreso “resistenza”, che hanno acquistato una zavorra che di fatto ne impedisce l’utilizzo.
Ma d’altronde, quali alternative potrebbero esserci? E’ più accurato asserire che non esiste una sola shari’a, ma che ne esistono diverse, e distinguerne tutte le varianti; ma se dobbiamo fare in questo modo ogni volta, e per ogni vocabolo, viene meno la possibilità di dire quello che vogliamo in modo semplice e diretto. Noi qui ci prefiggiamo lo scopo di concentrarci sull’essenza della rivoluzione islamica, per far arrivare ai lettori il più ampio dispiegamento di implicazioni che essa può presentare al musulmano e al non musulmano. Ho quindi utilizzato vocaboli di portata generale, e chiedo al lettore di essere comprensivo nei confronti di quelle che sono delle generalizzazioni.


Qualche anticipazione: cosa si trova in Resistenza?

Resistenza
consta di quattro parti. Nella Parte I si passano in rassegna i motivi che hanno fatto sì che i musulmani arrivassero alla conclusione che dovevano formare un movimento di resistenza. Ci chiediamo che cosa sia stato, in eventi verificatisi in un dato momento, a spingere le persone in questa direzione, e ci chiediamo perché questi eventi si sono verificati la prima volta in un dato luogo.
La Parte II esamina l’ideologia della resistenza e della rivoluzione a partire dal suo emergere. Il tema è trattato nel secondo capitolo, che considera la tradizione del combattimento in nome della fede a partire dalle prime comunità musulmane, e si interroga su come le prime incursioni all’interno della moderna ideologia della resistenza possono aver costituito la base per la sua successiva separazione in diverse branche della resistenza stessa. Ci si interroga sui rapporti che esistono tra le varie branche della resistenza e le tradizioni del primo Islam.
Il terzo capitolo segue il flusso principale degli ingredienti dell’ideologia attraverso il loro mescolarsi in Iraq, in un contesto politico molto differente, ed in cui altri ingredienti diversi vengono forniti da un cuoco che appartiene a tutt’altra tradizione culinaria, e poi in Iran, dove la pietanza è diventata il piatto forte di uno dei più importanti eventi storici della nostra epoca. Ci chiediamo che cosa abbia fatto diventare questo piatto tanto appetitoso per i comuni cittadini dell’Iran, e ci chiediamo che cosa sia successo di tanto importante in Iran.
Il quarto capitolo della sezione esplora il concetto di rivoluzione sociale, chiedendosi per quali motivi il significato di questa espressione presso gli islamici è tanto differente da quello che gli occidentali hanno in mente quando la utilizzano come un cliché. Vengono esplorati i miti e le incomprensioni che hanno reso intricato un tema all’apparenza tanto lineare come quello delle politiche sociali.
Nell’ultimo capitolo della Parte II, il quinto, ci si chiede che cosa possa significare per un islamico il concetto di stato nazione, e perché gli islamici lo concepiscano così come lo concepiscono. Il capitolo presenta le implicazioni del concetto di stato nazione così com’è concepito dagli islamici per il futuro ordine del Medio Oriente.
La Parte III esamina in che modo due movimenti islamici di primo piano considerano concretamente la resistenza armata. Nel sesto capitolo si tratta di Hezbollah e dell’approccio alla resistenza di un movimento sciita; nel settimo si prende in considerazione un movimento sunnita, Hamas, ed il modo in cui esso concepisce i principi e gli obiettivi che stanno alla base del suo resistere. Ci si chiede se questi principi e questi obiettivi corrispondano a quelli percepiti dal pubblico occidentale.
Nella Parte IV, l’ottavo capitolo considera le basi dell’utilizzo del linguaggio occidentale nei confronti dell’Islam, e rispetto alla violenza in particolare. Pone la domanda di quale possa essere la qualità che definisce la violenza come islamica, e poi pone lo stesso interrogativo in merito alla natura della violenza occidentale. Cerca di scoprire perché entrambe le parti utilizzano il linguaggio che utilizzano.
Il Capitolo 9 parte dalle questioni linguistiche discusse nel precedente capitolo, per esaminare le motivazioni ideologiche degli Stati Uniti e dei loro alleati nel conflitto. Ci si chiede se il linguaggio utilizzato rispecchi sentimenti autentici, o se non ci sono piuttosto altri e maggiori obiettivi in gioco.
L’ultimo capitolo è il Capitolo 10, quello delle conclusioni. In esso si torna alle asserzioni estrapolate dal discorso del religioso iraniano in merito alle mosse che potrebbero aiutare il dialogo tra le due parti, e si tenta di inquadrarle alla luce delle argomentazioni fin qui accampate. Si cerca anche di mostrare a che punto si è arrivati in questo percorso e di ricavare qualche conclusione abbozzando anche uno sguardo verso il futuro.

1 Hojatoleslam Dottor Muhammad Sobhani, intervista con l'autore a Qom, Iran, settembre 2007.
2 Karen Armstrong, Islam: A Short History, London: Phoenix, 2001, p. 6.
3 Corano, 80:11.
4 Karen Armstrong, Islam, p. 5.
5 Karen Armstrong, Holy War: The Crusades and Their Impact on Today’s World, New York: Anchor Books, ed. 2001, p. 67.
6 Jaques Rancière, On the Shores of Politics, London: Verso, 1995, p. 12.
7 Ibid., p. 1.
8 Walter Russell Mead, God and Gold: Britain, America and the Making of the Modern World, New York: Alfred Knopf, Random House, 2007.
9 Ibid., pp. 14–15.
10 A.T. Mahan, The Influence of Sea Power upon History, 1660–1783, Mineola, NY: Dover Publications, 1987, p. 63.
11 Walter Russell Mead, God and Gold, p. 228.
12 Jaques Rancière, On the Shores of Politics, p. 1.
13 L'ultima opera di Platone, le Leggi, presenta un dialogo tra un cretese di nome Clinia, uno spartano ed un ateniese il cui nome non viene rivelato. Il dialogo verte sulla natura di che cosa potrebbe costituire la legislazione ideale per un'immaginaria città cretese. I tre discutono in base alle differenti prospettive che derivano loro dalla tradizione legale delle città di origine. Nella discussione, Clinia fa notare che la vittoria del "peggior sé" comporterebbe la sconfitta della ragione ad opera del piacere, cosa che egli associa al retaggio ateniese. Dare la vita per la propria città, pensa Clinia, è meglio che diventare schiavo del piacere.
14 Hojatoleslam Dr Mohammad Sobhani, intervista con l'autore a Qom, Iran, settembre 2007.
15 James Gordon Finlayson, Habermas – A Very Short Introduction, Oxford: Oxford University Press, 2005, pp. 3–5.
16 Ibid., p. 15.
17 Jaques Rancière, On the Shores of Politics, pp. 3–4.
18 Walter Russell Mead, God and Gold, p. 310.
19 Herman Melville, White Jacket or The World in a Man-of-War, Oxford: Oxford University Press, 1924 (prima pubblicazione nel 1850), p. 142.
20 John Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, London: Allen Lane, 2007, p. 112.
21 Citato da John Gray, in ibid., pp. 113–14.
22 William Dalrymple, Prefazione a Gerald MacLean (ed.), Reorienting the Renaissance: Cultural Exchanges with the East, Basingstoke, UK: Palgrave Macmillan, 2005, p. IX.
23 Cfr. Fatima Mernissi, The Veil and the Male Elite, New York: Basic Books, 1992.