Il 17 settembre 1656 Oliver Cromwell, un puritano protestante che
aveva combattuto una guerra civile in Inghilterra, depose ed uccise il
re, e prese la parola davanti al parlamento inglese nelle vesti di
nuovo
Lord Protettore.
Cominciò rivolgendosi ai parlamentari protestanti che appoggiavano
la rivoluzione: "Chi sono i nostri nemici, e perché ci odiano?"
[i] Esisteva, disse, un asse del male nel mondo.
…Ci odiano perché odiano Dio ed ogni altra cosa buona… L'odio che
hanno per noi proviene dalla profonda inimicizia che essi hanno per
qualunque cosa serva la gloria di Dio e gli interessi del popolo, cose
che essi sanno essere soprattutto e sopra ogni cosa protette e
professate in questa nostra nazione -questo non lo diciamo per vanità-
più che in ogni altra nazione del mondo[ii].
Egli disse loro che questo asse, quest'asse del male, aveva a capo
una grande potenza -la Spagna cattolica- e spiegò che l'odio che i
suoi compatrioti si trovavano ad affrontare era sostanzialmente un
problema causato dal fatto che gli spagnoli avevano posto se stessi al
servizio del "male". Questo "male" era il male di una religione, il
cattolicesimo, che "rifiutava il desiderio degli inglesi di godere di
libertà fondamentali… che sottometteva gli uomini… sotto il quale non
c'era libertà… e [sotto il quale] non poteva esistere 'libertà di
coscienza individuale'"
[iii].
Dai tempi di Cromwell, la maggior parte del mondo anglofono ha
iniziato a definire i propri nemici come "coloro che odiano la libertà e
Dio", privi di ogni senso morale e capacissimi di tutto pur di
vincere. I "falchi" inglesi, spesso puritani e mercanti, a quel tempo
desideravano che si mettessero in pratica politiche antispagnole in
grado di minare l'autorità papale anche per scopi più propriamente
politici, specialmente per aprire nuovi mercati al mercato inglese in
espansione
[iv].
Cromwell suggeriva che il problema, con il cattolicesimo, non era
questione di religione di per sé, ma era determinato dalle pastoie che
essa imponeva: l'imposizione di norme morali e condivise, la "mancanza
di libertà" imposta dalla Spagna ai mercanti ed ai traffici inglesi: in
sostanza, si trattava essenzialmente del rifiuto dei puritani verso i
valori morali professati da una comunità ispirata dalla religione, che
non avrebbero lasciato che i singoli individui si dessero anima e corpo
all'impresa individuale ed al libero commercio.
Nel cattolicesimo essi vedevano un'etica che agiva più per
conservare la continuità della società, e che sui concentrava su un
codice morale immutabile che contemplava l'esistenza di responsabilità
sociali nei confronti degli altri: qualcosa che non vedeva di buon
occhio la ridefinizione della vita comunitaria attorno
all'individualismo, ai vantaggi personali provenienti dal commercio e
dal profitto, e al libero mercato. Non si trattava di un'etica in cui
potesse riconoscersi il nascente capitalismo dell'epoca; ecco qual era
il male, secondo la definizione del mondo anglosassone, che all'epoca
lo condannò con la stessa veemenza con cui oggi condanna l'Islam.
Le parole di Cromwell simboleggiano l'etica protestante che ha
portato l'Occidente a livelli di potenza mai raggiunti, e che ha
informato di sé ogni visione politica europea nel corso degli ultimi
trecento anni. Ha fornito alla politica occidentale molti dei suoi
tratti salienti, ed anche uno degli strumenti fondamentali della sua
potenza: il concetto di stato-nazione cui si è giunti nel XIX secolo,
che indica una comunità di soggetti la cui volontà collettiva si è
concretizzata in una sovranità laica che ha preso il posto di Dio.
Il potere doveva essere esercitato da una ristretta ed
immensamente potente élite centralizzata, in grado di esercitare il
monopolio della violenza tanto verso i nemici esterni quanto verso
quelli interni. La stessa élite si avvaleva anche delle ulteriori
competenze necessarie a limitare ed indirizzare comportamenti e discorsi
della gente in molti modi differenti: una rete di pressioni,
convenzioni sociali e regole stabilite dalle istituzioni e dagli
interessi economici teneva sotto controllo il comportamento ed al tempo
stesso rafforzava l'esistenza di una nazione intesa come
famiglia unitaria ed omogenea a tutti i livelli sociali, che legittimava l'esistenza di un governo centrale forte.
Relazioni di potere come queste, insieme alla stampa, costituivano il "potere disciplinato ed unitario della modernità"
[v]:
costituivano un insieme di utensili infidi, che permettevano che un
insieme di cittadini ostentatamente "liberi" e "singoli individui"
potesse essere mobilitato collettivamente sotto una guida egemonica a
seconda della
volontà espressa dallo stato-nazione. Nel complesso, uno strumento dai poteri immensi.
Quando ci incontrammo a Qom, il religioso iraniano fece
riferimento proprio a questa concezione. Come Cromwell si era lamentato
degli spagnoli e dei cattolici inglesi, intesi come opposti a coloro
che "hanno servito la gloria di Dio e gli interessi del popolo", lo
hoyatoleslam
ebbe a dirci che oggi erano i musulmani ad essere percepiti come
coloro che si mettevano di traverso alla "volontà di Dio" rimanendo
aggrappati ai fallimenti di un'etica religiosa statica e passatista.
Max Weber, nel suo saggio del 1905 intitolato
l'etica protestante e lo spirito del capitalismo,
aveva identificato una credenza ampiamente diffusa ai suoi tempi e che
risaliva ai tempi del calvinismo puritano, secondo la quale l'economia
di mercato ed i cambiamenti di posizione sociale sono una
manifestazione della "volontà d'Iddio"; vivere in comunione con Dio e
provare speranza di salvezza significava dunque, pensava Weber,
comportarsi da amplificatori dell'ondata di cambiamenti sociali
scatenata dal capitalismo, e che a maggior ragione le credenze
religiose non soltanto dovevano tollerare questi cambiamenti, ma
perfino anticiparli.
Anche se parlano di "democrazia", la democrazia ha un significato
[per i leader occidentali, N.d.A.] solo se implica il concetto di
essere umano che essi hanno fatto proprio. In un simile contesto, il
loro concetto di stato-nazione non ha altro che una valenza
strumentale, quel tanto che gli serve per raggiungere i loro obiettivi.
Quando una nazione [musulmana] si incammina su un percorso diverso,
immancabilmente va incontro alla resistenza del mondo occidentale[vi].
L'Occidente, sostiene il religioso, ha perso la consapevolezza di
che cosa certe idee ed i vasti progetti che ne derivarono, sfociando
nella costruzione dello stato-nazione del diciannovesimo e del
ventesimo secolo, hanno significato per le società musulmane. "Soltanto
dopo aver preso consapevolezza di questo, possiamo cominciare a
cercare che cosa è andato storto", concludeva.
Questo libro inizia a raccontare la storia dell'affermarsi della
rivoluzione islamica proprio partendo da questo punto, dagli ultimi
duecento anni che hanno rappresentato il percorso di costruzione dello
stato-nazione. Sarebbe possibile far cominciare la ricostruzione anche
da un'altra qualsiasi tra le tappe della storia dell'Islam, ma questo
lavoro ha l'intento, già messo in chiaro nell'introduzione, di
afferrare essenza e spirito che sottendono la crescente resistenza verso
l'Occidente più che di tentare una ricostruzione propriamente storica.
L'etica protestante e la demonizzazione degli ottomani
La dinamica etica protestante che Cromwell aveva con così poca
fortuna opposto ad un cattolicesimo inteso come statico fu alla base
dell'enfasi posta dal calvinismo di stampo puritano sul dovere che
spettava a ciascun individuo, quello di utilizzare i propri talenti
come se implicassero una chiamata divina. Questo diede nuova valenza e
nuovo significato all'impresa economica ed al lavoro laico: servire il
mondo contribuendo all'espandersi dei mezzi di produzione significava
servire Dio, e prosperare materialmente in questo modo, nei traffici e
nei commerci, era sicuro segno della grazia divina. Alla salvezza si
arrivava col lavoro: in un ambiente del genere la considerazione
sociale e la ricchezza ne avrebbero rappresentato secondo i calvinisti
le naturali conseguenze.
In particolare i protestanti, in Europa ed in America, arrivarono a
credere che Abramo, il comune progenitore di tutti i monoteismi,
rappresentasse un simbolo di questa nuova consapevolezza. La
disponibilità di Abramo ad abbandonare la sua casa, a recidere i propri
legami familiari fino a sacrificare il proprio figlio Isacco
costituiscono un esempio di totale disponibilità ad abbracciare i
cambiamenti. E costituiscono anche un esempio di fede. Abramo aveva
obbedito alla chiamata d'Iddio; Abramo aveva abbandonato le sue vecchie
credenze; aveva abbandonato il mondo e le idee del passato che pure
gli erano familiari, e si era diretto verso una nuova
terra promessa.
Affrontare i cambiamenti, cosa giustificata dalla sola fede assai più
che dal ragionamento razionale, diventò una specie di sacramento
[vii]. La nuova missione divenne "come quella degli ebrei a Caanan, 'conquistare la terra e possederla'"
[viii].
Nella Gran Bretagna di metà XIX secolo Richard Cobden e Jean
Baptiste Say formularono la visione di come questo modo di pensare
avrebbe condotto ad un periodo di pace di durata millenaria; il libero
commercio avrebbe promosso la pace tra le nazioni, sulla base degli
interessi comuni e della comune prosperità. Jean Say scrisse che "la
teoria dei mercati spargerà sicuramente i semi della concordia e della
pace", e Cobden credeva che la diffusione dei principi del mercato e
del libero commercio avrebbe instaurato un ordine pacifico tra i liberi
paesi d'Europa
[ix].
In occidente questa è rimasta la perdurante concezione dell'utopia,
nonostante il suo fallimento ripetuto più e più volte costituisse prova
delle tragedie a cui essa ha dato origine.
Il protestantesimo ed il cattolicesimo negli ultimi tempi hanno
perso molta dell'influenza che avevano sulla popolazione europea; al
contrario questi principi ripropongono idee del protestantesimo
originario la cui portata si è estesa ben al di là dei limiti della
sfera religiosa. Questa etica si è fusa con le dinamiche del mutamento
capitalista, ed i segmenti più importanti di questo costrutto sono gli
stessi che sostengono il secolarismo moderno.
I secolarismi moderni aderiscono a valori morali che ritengono
universalmente validi, e che come tali dovrebbero essere stabiliti ed
innestati, se necessario con la forza, in tutto il mondo fino al
momento in cui la storia, intesa fino a quel momento come un continuum
lineare, non si chiuderà su se stessa ad immagine di trionfante circolo
utopistico. Come le loro controparti cristiane, che enfatizzano quanto
c'è di personale e di individuale nel loro rapporto con Dio, i
secolarismi moderni apprezzano al di sopra di tutto il resto il
concetto di scelta personale: americani, secolaristi e cristiani -tutte
genti di Abramo ormai- considerano il loro percorso attraverso la vita
come una serie di "scelte personali" da affrontare, che nel complesso
determineranno il destino di ciascuno.
Anche se molti pensatori del XIX secolo non erano particolarmente
religiosi, la loro idea che un "ordine" finisse per imporsi
spontaneamente come frutto dell'azione di una "mano invisibile" che
agisse nel libero gioco delle forze del mercato nel contesto di uno
stato-nazione centralizzato e potente rappresenta in realtà la
riaffermazione di una delle più potenti convinzioni spirituali prodotte
dal mondo anglofono, e dunque dal mondo occidentale. Coloro che
condividono queste convinzioni, che pur inconsapevolmente attengono
allo spirituale, riescono ad essere individualisti ed ottimisti al
tempo stesso.
Negli Stati Uniti i cambiamenti sociali -il declino delle élite
della East Coast, l'asciesa del Sud e la mobilitazione di massa dei
cristiani evangelici verificatasi negli ultimi trent'anni- hanno
amplificato la potenza della visione protestante. Il Presidente George
Bush, che ha incarnato credenze strettamente consonanti alle parole che
Cromwell pronunciò nel 1656, ha promosso toni di ottimismo bellicoso
che lo accomunano ad una forte corrente utopistica del cristianesimo
nella convinzione che il male possa essere sconfitto. Al tempo stesso,
egli attinge al tema apocalittico caro al cristianesimo degli inizi,
che avverte di una imminente catastrofe, e a quello delle speranze
laiche in un progresso senza soluzioni di continuità
[x].
L'impatto con queste idee, e con la formicolante realtà della
costruzione occidentale di uno stato-nazione in seno alla loro società,
per i musulmani ha rappresentato un disastro, per non dire qualche
cosa di più. L'ossessivo intento di costruire stati-nazione
centralizzati, nel XIX e nel XX secolo, ha rappresentato una tragedia
che ha fatto milioni di vittime, cosa che si è verificata anche in
Europa e negli Stati uniti. Ma questo, in uno di quegli involontari
contorcimenti della storia, ha anche facilitato il riemergere di un
Islam rivivificato, che oggi sfida direttamente la concezione
occidentale.
Le Grandi Potenze occidentali, forti e centralizzate, intrapresero
nel XVIII secolo la missione di "sottomettere la terra e possederla",
ottimisticamente convinte del fatto che con l'apertura di liberi
mercati avrebbero dato origine ad un ordine mondiale più prospero e
pacifico.
Nel secolo successivo l'Impero Ottomano, che rappresentava la
struttura istituzionale che abbracciava la maggior parte dei musulmani,
fu sottoposto a massicci ed intensi attacchi, soprattutto nelle sue
provincie occidentali. La marcia competitiva delle Grandi Potenze verso
nuovi mercati poggiò senza dubbio sul militarismo dell'epoca e sulle
nuove tecnologie di cui poteva disporre, ma fu il concentrarsi delle
Grandi Potenze sullo sfruttamento dell'appartenenza etnica e
confessionale, specie presso le comunità cristiane comprese nelle
regioni occidentali dell'Impero Ottomano, intrapreso per isolare e
creare nuovi stati cristiani che sorgessero nelle regioni controllate
dall'impero, ad essere responsabile delle lotte più aspre, dei
genocidi, dei massacri e delle deportazioni.
Il rapporto tra le Grandi Potenze cristiane e gli attriti tra
comunità diverse all'interno della società ottomana risale al 1569,
anno in cui alla Francia vennero garantite le
capitolazioni. Le
capitolazioni negli anni successivi vennero assicurate ad altre
potenze europee ed assunsero carattere permanente. Le potenze cristiane
brigarono per essere chiamate "protettrici" delle minoranze cristiane
sotto queste capitolazioni ideate apposta per produrre crepe nella
costruzione politica ottomana. Con l'esortazione, l'incoraggiamento e
spesso anche le armi fornite dalle potenze occidentali, le minoranze
cristiane dell'impero su levarono a combattere per l'indipendenza.
Le guerre più aspre vennero combattute in quella che oggi è la
Grecia, e nei Balcani. Entrambe le regioni erano comunità cristiane
semiautonome, tra le province occidentali dell'impero. Secondo l'opera
di Justin McCarthy
Death and exile: the Ethnic Cleansing of Ottoman Muslims, 1821-1922, circa cinque milioni di musulmani europei vennero cacciati dalle loro abitazioni tra il 1821 ed il 1922
[xi].
Questa deportazione forzata ha costituito il peggior esempio di
pulizia etnica in Europa fino all'allontanamento dei tedeschi dalla
Polonia e dalla Cecoslovacchia dopo la fine della seconda guerra
mondiale.
Un secolo di pulizia etnica e di omicidi trasformò quelli che un
tempo erano i territori occidentali dell'Impero Ottomano da regioni a
maggioranza assoluta musulmana a regioni a maggioranza cristiana.
Soltanto tra il 1912 ed il 1920 si pensa che il 62% della popolazione
musulmana dell'Europa sudorientale -Albania esclusa- sia scomparsa, sia
fuggita, sia stata uccisa o costretta all'esilio.
Gli europei erano portati a credere che le identità e le
affiliazioni che entrassero in competizione con la loro
rappresentassero un fattore di indebolimento e di minaccia per
l'omogeneità necessaria al rafforzamento dell'affermazione di un governo
centrale forte, e quando si dava il caso della loro presenza le
potenze occidentali come la Germania, che per tutto questo periodo
rappresentò il principale alleato dell'Impero Ottomano, incoraggiarono i
gruppi politici "riformisti" e gli stati nascenti a spazzarle via, nel
sangue e senza pietà.
L'agire in modo spietato era giustificato da quasi tutti gli
ufficiali tedeschi di stanza nei territori ottomani durante l'ultimo
periodo dell'impero tramite le espressioni di disprezzo cui indulgevano
nei confronti di questo o quel gruppo etnico con cui venivano a
contatto. Alla base di questi sentimenti c'erano il senso di
superiorità attribuito alla cultura europea e l'idea che esistesse una
gerarchia razziale in base alla quale i dettami naturali avrebbero fatto
sì che i gruppi razzialmente più deboli fossero destinati a scomparire
dalla storia
[xii].
La pressione militare degli occidentali contro l'Impero Ottomano si accompagnava ad incessanti richieste di
riforme.
Il corpus di riforme varato nel 1856 fu in realtà messo insieme da
Lord Stratford, ambasciatore inglese, ed imposto agli ottomani; come ha
notato lo storico Donald Bloxham, in tutte le richieste di riforme
avanzate dagli inglesi era costante quella a favore della
liberalizzazione dei mercati. Come Bloxham
[xiii]
fa notare poi, la "riforma" pretesa da francesi ed inglesi affinché
fosse loro assicurato il controllo della politica fiscale ottomana al
fine di assicurarsi la restituzione di crediti in sofferenza vantati
dai paesi occidentali "di fatto inibì per lo stato Ottomano la facoltà
di sviluppare la propria economia"
[xiv].
Questa continua pressione sui leader ottomani affinché mettessero
in atto riforme aveva origine in un esperimento di ingegneria sociale
di vasta portata, messo a punto in Inghilterra con l'obiettivo di
liberare la vita economica da ogni controllo politico e sociale.
L'obiettivo venne raggiunto stabilendo una nuova istituzione, il libero
mercato, e pretendendo ad un tempo che si indebolissero le istituzioni
di natura sociale e che venissero meno i mercati socialmente più
radicati che un tempo erano esistiti in Inghilterra. Questo brusco
stacco nella vita economica, causato dalla creazione del libero
mercato, è stato definito "la Grande Trasformazione".
La Grande Trasformazione ha fatto venire meno le continuità
culturali ed istituzionali in Inghilterra ed il suo dispiegarsi in
tutto il mondo si è tradotto in sconvolgimenti economici, caos sociale
ed instabilità politica in paesi anche molto diversi tra loro
[xv]. Le economie dei paesi occidentali non sono emerse tramite una serie di
riforme
progressive, come quelle pensate per gli ottomani da Lord Stafford; si
fecero strada grazie ad un utilizzo massiccio del potere statale per
l'imposizione dello stravolgimento sociale che il libero mercato
richiedeva. Lo stato ottomano non possedeva da nessun punto di vista un
simile potere perché era organizzato secondo criteri di delega
dell'autorità piuttosto che secondo quelli di un suo accentramento.
Credere che il libero mercato sia sorto "naturalmente" dopo che
sono stati eliminati gli ostacoli artificialmente posti ad esso
significa credere in un mito. Come notato da John Gray, è dubbio che in
Inghilterra si sarebbe arrivati alla sua imposizione se la voce del
popolo fosse stata in grado di protestare in modo articolato contro la
miseria che questa operazione di ingegneria sociale aveva prodotto
[xvi]. Qualunque fosse lo scopo che gli europei si prefiggevano insistendo a quel modo sulle
riforme, sicuramente non ne facevano parte né la diffusione della democrazia né ottenere il consenso popolare.
Gran parte della demonizzazione dell'Impero Ottomano, dipinto
[xvii] come il "grande malato" della regione, e le conseguenti pressioni esercitate in favore delle
riforme,
alla luce della ricerca storica più recente sono risultate essere in
larga misura un costrutto eurocentrico. Mettere particolare enfasi
nell'evidenziare come l'Impero Ottomano non condividesse una certa
esteriorità europea fatta di coerenza e di proponimenti comuni e che di
conseguenza venisse bollato come "decaduto" in Europa, ha portato la
visione occidentale della storia a dipingere la "ascesa dell'Occidente"
come un qualche cosa di ineluttabile.
L'omogeneizzazione delle identità
Nel 1908 i "riformatori" assunsero la guida dello stato ottomano. La principale organizzazione politica al governo, detta
Giovani Turchi, ne assunse il controllo. I principali esponenti dei Giovani Turchi
…erano esplicitamente atei, ed erano cresciuti alla scuola del
pensiero laico occidentale, nella quale si erano imbevuti del
positivismo antireligioso di pensatori come Auguste Comte, ed avevano
fatto proprio il darwinismo sociale tanto in voga tra i nazionalisti
europei di fine secolo. Questi principi non soltanto fornirono loro una
giustificazione ideologica per allontanare i cristiani, ma facendo
venire meno negli autori di questo gesto ogni concetto di fratellanza
religiosa, portarono i leader politici [dei Giovani Turchi] a
cominciare a pensare anche alla distruzione dell'identità nazionale
curda[xviii].
Nel percorso verso l'adozione del modello di stato egemonico in
Europa, fondato sul concetto di omogeneità etnico-nazionale, tra
l'autunno del 1914 e la primavera del 1915 gli esponenti di massimo
livello dei Giovani Turchi presero una serie di decisioni che avrebbero
condotto alla decimazione della popolazione cristiana armena
dell'impero. Questo a sua volta preparò il terreno alla repubblica turca
laica di Mustafa Kemal, detto Ataturk, ed alla conseguente distruzione
dell'Islam come principale fonte di identità e di legittimazione da
lui operata.
Ataturk si adoperò per portare a compimento quanto scritto
nell'agenda, esplicitamente atea, dei Giovani Turchi: eliminare l'idea
di fratellanza religiosa mettendo in cattiva luce l'Islam ed abolendo
il califfato. Quella del califfato era una struttura istituzionale che
faceva dei credenti musulmani un'unica comunità transnazionale e che
simboleggiava anche la successione dell'autorità, trasferita nel corso
delle generazioni dall'Inviato Muhammad fino al Califfo in carica.
Nel corso della prima guerra mondiale venne massacrato circa un
milione di armeni ottomani, su una popolazione imperiale di due milioni
ed una di quattro milioni in tutto il mondo. Un milione o più di
vittime armene sono l'equivalente, o qualcosa di più, delle perdite
inflitte all'Impero Britannico nel corso di quella guerra: in
proporzione, dato il totale della popolazione armena ammontante a
quattro milioni di persone, rappresentano qualcosa di molto più grave.
La maggior parte delle vittime fu uccisa sul posto, destino che
accomunò molti uomini e ragazzi, o deportata verso sud, nei deserti
dell'Iraq e della Siria di oggi. Lungo il percorso della deportazione
venivano fatte oggetto di massicce e ripetute vessazioni: stupri,
rapimenti, mutilazioni, esecuzioni arbitrarie, morte per stenti, per
fame e per sete.
Molti tra coloro che erano riusciti ad arrivare nei campi di concentramento nel deserto vennero uccisi nel 1916
[xix].
Gruppi di deportati vittime dell'inedia venivano legati insieme e
gettati da colline dentro i fiumi dove finivano per annegare; altri
venivano fatti asfissiare accendendo fuochi all'imboccatura di una
caverna, uccidendo così fino a cinquemila persone ammassate
all'interno.
Bloxham afferma con chiarezza che "l'ideologia del nazionalismo,
squisitamente occidentale, fu l'idea importata che condusse al
genocidio: l'idea di 'dividere con linee nette, rendere omogenei,
organizzare i popoli perché fossero uniformi secondo un dato criterio…
per competere, sopravvivere e svilupparsi. Questo si verificò anche
sull'esempio, ed in risposta, ai movimenti etnico-nazionalisti dei
Balcani"
[xx].
Nonostante il massacro degli armeni spicchi per il numero e per la
natura sistematica delle decimazioni, i vertici dei Giovani Turchi
avevano segnato per la pulizia etnica anche altri gruppi: un quarto di
milione di assiri vennero sterminati e vennero uccisi greci e curdi,
nel corso di una lotta di tipo autenticamente darwiniano per
sopravvivere e per non diventare una di quelle razze di retroguardia che
l'evoluzione condanna a scomparire.
A Kemal (Ataturk) sarebbe spettata la continuazione del processo
di omogeneizzazione intrapreso, allontanando la superstite popolazione
armena prima, i greci dell'Anatolia poi ed infine i curdi, prima di
prendersela con l'Islam per completare la trasformazione in senso
"moderno" ed unitario dell'identità turca.
Il nazionalismo etnico e le identità costruite
In un diverso contesto in cui si affrontava il tema delle identità
in costruzione Edward Said, il famoso scrittore e pensatore
palestinese, in una conferenza tenuta a Londra nel 2001
[xxi]
sul tema "Freud ed il non-europeo" sottolineò esplicitamente come le
cose sarebbero potute andare diversamente se il fondamentalismo
occidentale avesse preso un'altra strada invece di essere quello che è.
Edward Said fece riferimento al tema che impegnò Sigmund Freud
negli ultimi anni della sua vita, e che si ritrova nel suo "Mosè ed il
monoteismo" sul significato di
ebraicità. Secondo Said, Freud
come ebreo era costretto a vedersela con un paradosso: perché per gli
ebrei era tanto difficile riconoscere che Mosè non era ebreo ma
egiziano, o riconoscere che le sue idee circa l'esistenza di un solo
dio non erano affatto una sua innovazione ma derivavano da quelle di un
non ebreo, il faraone Akhenaton. Per quale motivo un assunto tanto
evidente si rivela tanto difficile da riconoscere, e perché era sempre
stato sottaciuto?
Said sosteneva che Freud aveva di fatto provato ad aprire verso
l'esterno l'identità ebraica sottolineando il fatto che Mosè era
egiziano, cosa che lo rendeva diverso dal popolo ebraico che ne aveva
fatto la propria guida. Il riferimento di Freud all'origine non ebraica
del monoteismo -monoteismo che è fondamento dell'ebraismo ed al tempo
stesso base della sua asserita unicità- serviva alla stessa cosa, ad
aprire l'ebraismo al riconoscimento cosciente dei contributi non
ebraici che vi avevano affluito.
Il "non europeo", nel ruolo di Mosè e di Akhenaton, suggerisce che
l'ebraismo non emerse da solo, ma a partire da altre etnicità ed altre
identità; questo, sostiene Said, lascerebbe molti spazi di manovra a
chi volesse ascrivere alla terra di Palestina gli elementi non ebrei
dell'ebraismo, tanto passati quanto odierni. In altre parole Golda Meir,
il Primo Ministro israeliano, non avrebbe avuto bisogno di denegare
l'identità palestinese con la sua dichiarazione del 1969 in cui
asseriva che non esisteva nulla di simile ad un popolo palestinese.
Avrebbe avuto a disposizione tutta la flessibilità e tutte le
possibilità di scelta necessarie ad abbracciare tutte le diversità che
nella storia avevano preceduto la fondazione dello stato ebraico, ma
scelse di non farlo e di far invece muovere il pendolo nella direzione
opposta.
La guerra archeologica delle identità
Il carattere potenzialmente aperto dell'identità ebraica
individuato da Freud viene contrapposto da Said al netto definirsi
dell'identità ebraica che invece fu la realtà nel periodo che seguì i
ragionamenti di Freud, risalenti agli anni Trenta. Prima dei sionisti
erano stati i Giovani Turchi a modellare l'identità dello stato ottomano
su quella di una sua nuova "razza" turca, che doveva servire da
modello per una "grande trasformazione" della società in marcia verso
la modernità; un'operazione oggetto in Occidente di un'ammirazione ai
limiti dell'adulatorio, in quanto atto di leadership determinata.
Il massacro e la deportazione da parte dei turchi di armeni, assiri, greci e turchi nondimeno
…rappresentò un caso di quello che succede quando dichiarati
intenti di nazionalismo etnico vengono portati al loro estremo nel
contesto di una società multinazionale. Un caso che resta uno dei
momenti più ricchi di implicazioni per la storia contemporanea… che
anticipò i massacri e la disgregazione della Yugoslavia dopo la fine
della Guerra Fredda, per tacere di innumerevoli episodi intermedi …
[compresa] la cacciata degli arabi da Israele nel 1948[xxii].
Said considerò che "la fondazione di Israele in un territorio non
europeo diede incarnazione politica all'identità ebraica in uno stato
che fece proprie delle posizioni politiche e legali particolarissime,
al fine di isolare tale identità da qualunque elemento non ebraico"
[xxiii].
Quando il Primo Ministro israeliano dichiarò che i palestinesi non
esistevano, e lo Stato d'Israele iniziò a macchinare con i mezzi della
cultura e dell'archeologia per fabbricare un'identità ristretta e
sigillata, Israele si mise semplicemente a seguire l'uso occidentale di
costruire il mito di una comunità nazionale unita ed omogenea, con le
sue
riscoperte radici ebraiche e con la sua identità
israeliana, la cui sovranità poteva legittimare le azioni ed il
militarismo di uno stato centrale potente e militarizzato.
Gli inglesi avevano fatto lo stesso a partire dai tempi della
guerra civile nel diciassettesimo secolo. Per legittimare la loro lotta
contro le "pastoie monarchiche" e per consentire all'imprenditoria
commerciale privata di raggiungere gli orizzonti cui aspirava, i
rivoluzionari si rifecero alle leggi ed alle istituzioni delle tribù
germaniche così come figuravano nelle descrizioni di Tacito, e a partire
da queste testimonianze dell'antichità costruirono una narrativa
storica secondo la quale gli anglosassoni del settimo ed ottavo secolo
erano un popolo libero, e che le libertà cui Cromwell aveva fatto
riferimento nel suo discorso al Parlamento andavano cercate in queste
antiche tradizioni
[xxiv].
L'identificazione degli anglosassoni con una razza, ovvero
un'identificazione genetica anziché culturale, arrivò successivamente.
Il "razzismo scientifico" ottocentesco che si reggeva sul darwinismo
dette origine al concetto di
vero Inglese nato. Daniel Defoe
derise corrosivamente questo mito artefatto in una poesia del 1701 in
cui suggeriva che l'Inghilterra era una nazione di immigrati, una
"razza bastarda" più che una "razza inglese". Defoe, allo stesso modo
di Freud dopo di lui, perorava una visione aperta dell'identità inglese
che ne riflettesse lo spirito comunitario, anziché la definizione
nazionalista e su base razziale che più tardi, nel diciannovesimo e nel
ventesimo secolo, si sarebbe rivelata tanto distruttiva.
Nella sua conferenza, Edward Said ha messo in luce gli estremi cui
può giungere un'operazione di consolidamento di una identità
nazionale; ha evidenziato l'utilizzo da parte di Israele di una scienza
come l'archeologia per edificare una narrazione storica attorno a cui
costruire una propria identità ebraica unitaria, in modo opposto a
quanto fatto da Freud che utilizzò invece i dati storici per costruire
un'altra identità, egiziana e non ebraica, per Mosè.
L'utilizzo dell'archeologia nel tentativo di costruire un'identità
ebraica che si ponesse al di sopra di ogni altra, fa notare Said, non è
stato possibile senza contrasti; ha provocato la nascita di una
resistenza il cui obiettivo era quello di contrattaccare e di
conservare gli strati che sedimentandosi avevano dato origine
all'identità palestinese: è nato una sorta di "movimento di resistenza"
a base archeologica.
Anche l'Occidente ebbe a suo tempo la flessibilità necessaria e la
possibilità di abbracciare tutte le storiche diversità dell'Impero
Ottomano, ma decise di non farlo, allo stesso modo dei sionisti. Le
potenze occidentali avevano deliberatamente esacerbato, e posto su un
piano internazionale, la questione dei cristiani armeni intesi come
minoranza significativa all'interno dell'impero: però il sostegno
occidentale ai diritti dei cristiani venne meno appena esso entrò in
contrasto con gli interessi economici dell'Occidente.
Prima il silenzio e poi la denegazione accolsero i massacri
armeni. Sembra che Adolf Hitler abbia chiesto nel 1939 ai suoi
generali, in una discussione in cui si trattava dei polacchi, "Dopo
tutto, chi è oggi che parla della distruzione degli armeni?"
[xxv]
Gli israeliani, insieme alla maggior parte della comunità
internazionale, hanno difficoltà perfino ad ammettere che questi eccidi
abbiano avuto luogo. Va da sé che sofferenze di portata tanto vasta, e
l'indifferenza ed il silenzio con cui il mondo le accolse, orientarono
le inziative che seguirono da parte di Ataturk. Il suo programma
basato su una "modernizzazione muscolare" assunse agli occhi degli
europei tutti i crismi della soluzione ai "problemi di popolazione"
tipici del processo di realizzazione di ogni nuovo stato
occidentalizzato.
Sappiamo anche che i collettivi sionisti dell'anteguerra erano
influenzati dai Giovani Turchi. Ze'ev Jabotinsky, leader dell'ala
revisionista del sionismo, aveva lavorato alla redazione di una rivista
per l'organizzazione dei Giovani Turchi chiamata
jeune Turque.
Sappiamo anche che le "soluzioni territoriali" ai "problemi di
popolazione" utilizzate dopo il 1918 nei territori dell'ex Impero
Ottomano, che molto dovevano al genocidio armeno, erano considerate un
modello da David Ben Gurion nel 1941, riguardo alla futura
organizzazione etnica dello Stato di Israele
[xxvi].
Questi collettivi sionisti prevedevano il trasferimento -ossia la
pulizia etnica- degli arabi di Palestina, tra l'altro anche verso i
deserti attorno a Deir ez Zor e ad Aleppo in quella che oggi è la
Siria, ed in cui gli armeni deportati avevano concluso venti anni prima
la loro miserevole esistenza
[xxvii].
Quando il movimento sionista prefigurò la creazione di uno stato
ebraico in Palestina, invocò la "redenzione" religiosa di un'antica
patria come legittimante tale stato. Ma come ha scritto lo storico
israeliano Ilan Pappé
…Questa era la versione ufficiale, e non c'è dubbio che essa
esprimesse in modo sincero le motivazioni della maggior parte di coloro
che costituivano la leadership del movimento sionista; ma oggi, con
atteggiamento più critico, possiamo vedere che la determinazione dei
sionisti a stabilirsi in Palestina anziché in altri luoghi altrettanto
plausibili come strettamente interconnessa al millenarismo cristiano
del diciannovesimo secolo ed al colonialismo europeo. Le diverse
società missionarie protestanti ed i governi europei si misero a
competere tra loro sul futuro di una "Palestina cristiana" che volevano
strappare all'Impero Ottomano. I più religiosi tra quanti in Occidente
aspiravano a questo, videro nel ritorno degli ebrei una tappa nella
realizzazione dei disegni divini[xxviii].
Il paradosso, come nota Pappé, è che Eretz Israel, il nome che la
Palestina assume nella religione ebraica, era stata venerata nei
secoli da generazioni di ebrei come luogo di pellegrinaggio, ma non era
mai stata vista come un vero e proprio stato. "In altre parole, il
sionismo ha laicizzato e nazionalizzato l'ebraismo"
[xxix].
Dunque non è l'ebraicità a costituire un problema, ma il nazionalismo
laico ed aggressivo alla base del sionismo; da parte nostra abbiamo
considerato che proprio questo aspetto, il nazionalismo laico, è un
retaggio che proviene direttamente dalla tradizione del puritanesimo
cristiano.
I tremendi massacri e le operazioni di pulizia etnica degli ultimi
due secoli hanno inviato al mondo musulmano un segnale molto forte:
che nessuno si attenda che l'ingiustizia di quanto i popoli musulmani
hanno dovuto passare venga mai riconosciuta in Occidente. Ogni cosa
sarà semplicemente cancellata dalla memoria. La giustizia di una causa
non è abbastanza per giustificarne il sostegno: nessun paese
occidentale si è davvero mosso per sostenere gli armeni, gli assiri, i
curdi, o i cinque milioni di musulmani che prima di loro subirono la
pulizia etnica in Europa.
Gli europei erano troppo coinvolti dalla loro visione redentrice
della trasformazione sociale, della modernizzazione e del libero
mercato liberale per fornire qualcosa di più di un'occasionale stretta
di mano alle sofferenze umane. Il nuovo stato turco che stava allora
emergendo era troppo importante per i loro interessi: la lezione
dell'Armenia, per i musulmani, fu che nessuno li avrebbe aiutati, altro
che loro stessi. Le loro vittime sarebbero state considerate poco o
nulla. E pose anche una questione circa il pensiero occidentale: che
cos'era che gli aveva permesso di diventare tanto distruttivo, mentre
ancora indulgeva alla convinzione che l'Occidente agisse per i più
grandi interessi del benessere dell'uomo.
La risposta, cominciarono a pensare gli islamici, va cercata nel
modo in cui gli occidentali si pongono davanti al pensiero. In altre
parole, nella loro tendenza a farne un utilizzo strumentale. Un modo di
pensare razionale, durante la carestia delle patate in Irlanda tra il
1846 ed il 1852 in cui si stima sia morto di fame un milione di
persone, avrebbe creduto che le prime preoccupazioni delle autorità
britanniche fossero quella di mantenere le condizioni del libero
mercato nella produzione del cibo e di eliminare la carestia dai loro
territori.
Quando fu fondato il nuovo stato turco, uno dei suoi generali,
Kiazim Kavabekir, poteva dire quello che Golda Meir avrebbe detto dei
palestinesi: "in Turchia non sono mai esistiti né un'Armenia né un
territorio abitato da armeni. Gli armeni che vivevano in Turchia hanno
commesso omicidi e massacri, e sono fuggiti in Iran, in America ed in
Europa."
[xxx].
Secondo una prassi tipica dei procedimenti di fabbricazione di
identità unitarie messa in cantiere in Occidente, in Turchia a nessun
sito archeologico è permesso oggi di attestarsi come appartenente alla
civiltà armena, con buona pace dei tremila anni di presenza armena in
regioni della Turchia odierna. La "guerra archeologica dell'identità",
che Edward Said indica come intrapresa da Israele nel contesto
palestinese, in Turchia è già stata combattuta.
Il progetto di turchizzazione è nettamente razzista: l'espulsione
massiccia verso la Grecia di oltre un milione di greci ortodossi
abitanti dell'Anatolia in cambio di trecentottantamila greci musulmani
avvenuto nel 1923, le continue angherie contro gli armeni e gli assiri e
la completa denegazione dell'identità turca sono tutte espressione di
un "nazionalismo seccamente escludente"
[xxxi].
Dal 1923 in poi, la repressione del nazionalismo curdo e
dell'identità curda assunse un carattere predatorio ed indiscriminato.
Ataturk riempì il sud est curdo di amministratori turchi, fece
insediare nelle terre curde veterani di guerra turchi, proibì l'uso
della lingua curda nei tribunali e, cosa più importante, bandì la
lingua curda dalle scuole, negando a tutti gli effetti una educazione
formale ai bambini curdi[xxxii].
Queste iniziative provocarono una rivolta che esplose nel 1925: fu
duramente sedata ricorrendo ad un utilizzo smodato della forza. Molte
persone vennero impiccate, alcuni villaggi vennero rasi al suolo e si
registrarono massacri veri e propri.
Il motivo della rivolta era dato dalla determinazione di
combattere per l'identità curda. Lo stato turco, dal 1923, cominciò
semplicemente a rifiutare di riconoscere che i curdi fossero mai
esistiti: fino agli anni Novanta diventarono noti con il nome di "Turchi
di montagna". Allo stesso modo i palestinesi venivano inizialmente
chiamati con il termine generico di "arabi" dai politici israeliani che
si rifiutavano di chiamarli palestinesi.
Per mettere insieme una nuova identità turca, i Giovani Turchi
seguirono le orme degli europei. Rifacendosi ad un passato remoto, i
Giovani Turchi ritrassero la loro razza come la fondatrice di una delle
grandi civiltà dell'Asia, nel contesto di una narrazione storica che
escludeva i curdi senza eccezioni. La ricerca sulla storia curda fu
messa fuori legge; il nome dei villaggi curdi fu rimpiazzato con
l'equivalente in lingua turca così come sarebbe successo ai villaggi
palestinesi, i cui nomi furono sostituiti da nomi ebraici. Diventò
illegale dare ai bambini nomi curdi, e le canzoni curde finirono
fuorilegge
[xxxiii].
Per certi aspetti però le deportazioni, la pulizia etnica e gli
assassinii contro le minoranze avevano nel progetto di edificazione di
una repubblica turca laicizzata portato avanti da Ataturk un ruolo meno
centrale rispetto a quello che avevano avuto per i Giovani Turchi che
lo avevano preceduto. Al centro delle preoccupazioni di Ataturk, tra il
1920 ed il 1923, c'era il bandire dalla Turchia l'etica derivante
dall'Islam concepito come appartenenza condivisa. Era un qualcosa che
sia lui che i Giovani Turchi suoi compagni consideravano come
un'appartenenza che configgeva con l'affiliazione alla nazionalità
turca e come un ostacolo ed un limite al loro progetto militante, ed a
suo modo fondamentalista, di "modernizzazione" in senso occidentale.
Il fondatore della Turchia Ataturk viene ritratto in Occidente
come un leader musulmano illuminato che rispecchiava le sintesi
occidentali nel credere che l'eliminazione di ogni limite di natura
religiosa, sociale e comunitaria al libero mercato, tramite la
creazione di un potente e centralizzato stato laico nel cuore stesso del
mondo musulmano, avrebbe rappresentato un modello per tutte le società
musulmane da quel momento in poi.
Il sostegno occidentale non sorprende, dal momento che il progetto
di Ataturk corrispondeva in modo tanto preciso alle visioni
utopistiche dell'Occidente circa i tempi futuri. La presa di posizione
occidentale rende chiaro anche che in Occidente si era capito molto
poco sul perché gli islamici e la maggior parte dei musulmani
considerino la laicizzazione forzata della Turchia e la fine del
Califfato in modo del tutto diverso.
Il modernismo laico e la nascita ideologica della Resistenza
Questo aspetto, la laicizzazione forzata della Turchia, fu quello
che più di ogni altro avrebbe paradossalmente reso più agevole la
nascita di un'ideologia sunnita incentrata sulla resistenza. Insieme
alla sfida posta dal materialismo laico di stampo marxista spinse parte
della gerarchia sciita ad accettare un'inedita reinterpretazione dello
sciismo inteso come ideologia rivoluzionaria, destinata a sconfiggere
un altro autocrate laicizzatore e modernizzatore come lo Shah di
Persia.
Quando nel primo dopoguerra Mustafa Kemal prese a descrivere, con
insistenza e con toni infiammati, l'Islam come "il simbolo
dell'oscurantismo", "il cadavere putrefatto che avvelena le nostre
vite" e "il nemico della civiltà e della scienza"
[xxxiv]
scioccò ed atterrì i musulmani di tutto il mondo. Per il linguaggio che
utilizzava avrebbe potuto benissimo essere Cromwell alle prese con il
"male" della Spagna cattolica o del Papa.
La Turchia era allora la sede dell'Impero Ottomano. Ed era anche
la sede del califfo, che i musulmani sunniti consideravano successore
del Profeta Muhammad. Fu come se un corrosivo attacco contro la
cristianità fosse stato lanciato partendo dall'interno delle mura
vaticane.
La rabbia acida di Kemal, ed il disprezzo per l'Islam che
provenivano addirittura dal cuore del mondo islamico sunnita
rappresentarono un deliberato spregio contro i musulmani, e contro la
fratellanza musulmana rappresentata dal carattere transnazionale
dell'istituzione del califfato e dalla sua autorità sui musulmani
sunniti di tutto il mondo (gli sciiti considerano invece fonte di
autorità, e connotata dal ruolo di guida, la successione degli Imam).
Ataturk, l'eroe dell'Occidente, il fondatore della Turchia
moderna, era un dittatore. Era un militare, ed un militare tutto d'un
pezzo, tranne che nei confronti dei superiori che lo consideravano
rissoso ed arrogante. Ufficiali prussiani avevano praticamente
monopolizzato l'addestramento nella scuola ufficiali turca fin dalla
fine del XIX secolo e non erano soltanto degli addestratori: erano
ufficiali d'élite che riflettevano nella loro carica gli ideali del
militarismo prussiano e della guerra tecnica, allo stesso modo della
loro convinzione della superiorità culturale europea.
Gli ufficiali turchi come Mustafa Kemal (Ataturk), che si
trovarono esposti a quest'etica militare tedesca nel momento della sua
massima sicumera e della sua massima tronfiezza, si imbevvero di un
militarismo che li portò a considerare la classe militare e l'etica
militare che si accompagnava ad essa come i simboli della mentalità che
si addiceva alle imprescindibili guide necessarie ad ogni società in
via di modernizzazione.
Mustafa Kemal era un uomo dotato di arroganza, di insensibilità e
di disprezzo per le donne e per l'Islam in quantità colossali, rissoso e
gran bevitore. Tutte cose che nel corso dei suoi ultimi anni
aumentarono la distanza tra lui ed il suo stesso popolo finché si trovò a
vivere isolato e solitario nella ex residenza del sultano, fino a
quando non morì di cirrosi epatica nel 1938
[xxxv].
Lo stato turco creato da Ataturk negli anni compresi tra il 1920
ed il 1923 si fondava sulla potenza militare e sull'etica militare. In
qualche misura ricordava grosso modo il fascismo. Rimase per molti anni
una dittatura che impiegava il terrore e la propaganda a proprio
piacimento, potendo contare su uno stato monopartitico e sull'esercito
per ottenere proseliti coatti.
Dopo aver subito abolito il califfato, in quanto "imbarazzante per
il mondo civilizzato", qualcosa che "sarebbe stato uno zimbello agli
occhi di un mondo civile intento a godere delle benedizioni della
scienza"
[xxxvi]
, Kemal utilizzò il potere militarizzato e dittatoriale per eliminare
puramente e semplicemente ogni pubblica espressione della cultura
islamica. Il vestire, la musica e l'educazione islamici vennero messi
fuori legge e sostituiti da modelli occidentali. Venne anche intrapreso
un programma di chiusura delle moschee: molte di esse furono sprangate
e lasciate in abbandono, mentre altre diventarono magazzini o scuole.
La musica tradizionale venne soppressa e sostituita con una specie
di "opera" nuova di zecca. I simboli islamici furono rimossi ovunque
fosse possibile rimuoverli. I vestiti tradizionali ed il velo furono
proibiti. Perfino il linguaggio scritto venne "modernizzato"
utilizzando i caratteri latini e scrivendo all'occidentale, da sinistra
a destra, invece che da destra a sinistra nel tradizionale stile
arabo.
Il modello occidentale non diventò una fonte di ispirazione, ma un
qualcosa da copiare servilmente -ed il risultato fu a volte quello di
una parodia dell'Europa- con l'esercito turco insaccato in uniforme
russe, armato con fucili belgi e spade inglesi che montava corsieri
ungheresi e si esercitava alla francese
[xxxvii]. Tutti gli aspetti dell'occidentalizzazione venivano rinforzati con rigore, in tutti gli àmbiti del vivere.
Essere moderni, civili e prosperi significava concepire l'Islam
come un insormontabile ostacolo al progresso, e significava fare propri
in modo acritico i costumi, le istituzioni e la cultura occidentali.
Le espressioni sprezzanti di Kemal nei confronti dell'Islam hanno avuto
vita lunga: ancora oggi riecheggiano nei discorsi occidentali, anche se
coloro che le utilizzano non conoscono le conseguenze dei propositi
per cui nacquero a suo tempo.
Porre fine per decreto al califfato, che esisteva dalla morte del
Profeta Muhammad, fu un'azione distruttiva che traumatizzò i musulmani
sunniti di tutto il mondo. La fine del califfato fu percepita come
qualcosa che rivelava la debolezza dell'islam e come una prova del
declino della cultura islamizzata, la fucina di culture, pensiero e
storia associata all'Islam.
L'abolizione del califfato ebbe ripercussioni in tutto il mondo.
Ci furono disordini ed un'insurrezione in India, e re Fuad d'Egitto e
gli Hashemiti cercarono di rivendicarlo, ma loro sforzi furono vani.
Ad alcuni intellettuali musulmani però la fine del califfato,
nonostante fosse un'umiliazione per le aspirazioni politiche e
religiose di tipo islamico, aprì l'opportunità di ridefinire e di re
incasellare la
umma. Per questi pensatori, che si riunirono in
una conferenza al Cairo nel 1926, la destabilizzazione dell'Islam, la
fine dei legami con le politiche dinastiche e con la oscura
realpolitik
dei capi di stato, nonostante potesse costituire un trauma dal punto
di vista simbolico, paradossalmente lasciava anche libero l'islam di
diventare un nuovo e forte fattore identitario.
Man mano che si sviluppavano idee di questo genere, sci si accorse che la
umma
poteva essere ripensata come una moderna comunità virtuale dell'epoca
di internet, con aspirazioni etiche verso un ordine globale giusto,
equo e compassionevole e verso una nuova visione della politica e dei
comportamenti personali incentrata sulla comunità. Si presentava
l'opportunità di riformulare il concetto di comunità come veniva inteso
dai musulmani. Il concetto di comunità, la
umma, doveva
diventare l'opposto della linea di pensiero che sottostava allo
stato-nazione di tipo occidentale. Doveva incarnare la scelta rifiutata
dall'Occidente: doveva rappresentare un costrutto identitario aperto
che riflettesse le diversità delle comunità da cui era sorta, piuttosto
che seguire le rigide definizioni identitarie e la valorizzazione
dell'appartenenza etnica associate allo stato-nazione basato sul
nazionalismo razziale tipico del pensiero occidentale.
Questa concezione avrebbe sostenuto l'identità strutturata come
una rete ed in senso orizzontale di una comunità musulmana potente e
transnazionale, in grado di tutelare al meglio le società musulmane ed i
musulmani che vivevano in stati-nazione laicizzati di tipo
occidentale. Il concetto di rete comunitaria, dotata di poche strutture
formali, provvedeva anche a proteggere e garantire meglio i musulmani
in un'epoca caratterizzata dalla spoliazione e dal dominio occidentale
tanto dalle pressioni esercitate dagli stati-nazione d'Occidente quanto
dai loro governanti fantoccio nelle società musulmane. Sarebbe
divenuta anche la fonte di legittimazione per una resistenza
all'imposizione del pensiero occidentale sempre più determinata.
Avrebbe contribuito all'apertura di un dibattito sul futuro dello
stato-nazione e sugli obiettivi della politica.
I missionari della modernità e la rinascita del pensiero islamico
Lo storico dell'Islam Karen Armstrong ha riassunto l'essenza della
visione del futuro del Profeta Muhammad come la costruzione di una
comunità ordinata secondo giustizia, in cui tutti gli appartenenti,
anche i più deboli e vulnerabili, vengono trattati con assoluto
rispetto. L'esperienza del costruirla e del viverci costituirebbe una
conferma di verità conosciute da tutti e conferirebbe ai suoi
appartenenti una corrispondenza intima con il divino, dal momento che
essi stanno vivendo nel modo in cui Dio ha stabilito che gli esseri
umani vivano
[xxxviii].
L'essenza dell'Islam è dunque rappresentata dall'impegno (jihad) a
vivere nel modo stabilito da Dio. Per i musulmani, la giustizia
sociale in politica è la virtù essenziale dell'Islam: gli affari di
stato non sono qualcosa che non ha a che vedere con la spiritualità, ma
l'essenza stessa della religione. L'esperienza del costruire e del
vivere in una comunità autenticamente islamica, l'occuparsi dei suoi
problemi (la politica) ed il successo nel realizzare una società giusta
costituiscono per i musulmani il percorso che conduce a Dio. I
musulmani si accostano al divino attraverso la quotidiana messa in
pratica della giustizia, dell'equità e della compassione, piuttosto che
attraverso la
fede di un San Paolo. Da ciò deriva il fatto che il benessere della
umma, la comunità dei credenti, è una questione della massima importanza
[xxxix].
Kemal affrontò armato di mazza questa pietra d'angolo, tentando
una deliberata ed articolata distruzione della comunità musulmana, la
comunità dei credenti fondata dal Profeta perché fosse essa stessa
percorso verso il divino. L'attacco colpiva forse il punto cardine
della consapevolezza che il Profeta aveva offerto al mondo.
Non sorprende che i musulmani abbiano preso la cosa come un
attacco all'Islam, perché proprio di questo si trattava. Ed è chiaro
anche per quale motivo i cristiani occidentali ed i modernisti laici
non se ne sono resi conto e non accordano con nessuna ipotesi che
asserisca il carattere anti islamico della laicizzazione di Ataturk.
Dai tempi di Cromwell, ma più che mai in particolare durante il
XIX secolo, tramite una massiccia operazione di ingegneria sociale gli
europei hanno perseguito l'obiettivo di slegare la vita economica dal
controllo sociale e politico per liberare le energie dinamiche
dell'individualismo, rendendo il singolo individuo responsabile soltanto
del proprio benessere, anziché pretendere che esso ne facesse parte
anche alla comunità.
Per i cristiani occidentali e per il loro retaggio puritano
lottare per i cambiamenti e per le riforme non era, e non è, qualcosa
che si oppone all'anelito religioso, ma un modo per dare ad esso la sua
massima espressione. Rappresenta la fiduciosa risposta di Abramo al
cambiamento, e la chiamata di Dio come la intendono i calvinisti, perché
vengano utilizzati i talenti individuali che Dio ha concesso a
ciascuno. La prosperità ed i benefici materiali che nascono
dall'impresa individuale sono segno della grazia di Dio in cui si trova
l'individuo che ha prosperato. E la potenza che tutto questo ha
conferito alle società occidentali ha sembrato costituire, nell'ottica
del loro retaggio protestante, la prova che i loro sistemi sociali
erano stati
eletti da Dio affinché fungessero da missionari della modernità nei confronti di tutti gli altri.
Queste argomentazioni sono sopravvissute in Occidente anche dopo
che le dottrine su cui si basavano sono cadute in disuso o hanno
trovato una loro sintesi nel modernismo laico. L'idea che ciascun
cristiano dovrebbe sentire personalmente la chiamata di Dio, come fece
Abramo, ha per più di tre secoli esercitato la sua stretta sulla vita
occidentale. Questo ha fatto sì che la relazione dei cristiani con il
loro dio si individualizzasse in misura sempre maggiore ed ha plasmato
un concetto dinamico della religione, a misura dei cambiamenti radicali
pretesi dalle politiche economiche basate sul libero mercato.
L'Islam rappresenta qualche cosa di opposto. Il Corano pretende
dai credenti una condotta comportamentale precisa: gli esseri umani
devono comportarsi gli uni con gli altri secondo giustizia, equità e
compassione. Esso ha dunque subordinato appetiti ed istinti umani, così
come l'intera attività economica nel suo insieme, a questa pretesa che
passa avanti a tutto. La politica diventa quello che i cristiani
chiamerebbero un sacramento, ed il suo obiettivo è l'impegno per il
perseguimento di questi valori fondamentali.
Gli scambi politici e sociali quotidiani diventano il terreno in
cui i musulmani possono aprirsi verso una maggiore comprensione di Dio.
Crescere vicini a Dio ed alla realtà è reso possibile dallo
sperimentare i suddetti valori fondamentali che agiscono, modificandolo,
sul comportamento umano. Questo, a sua volta, schiude la strada ad un
più efficace intervento del divino nelle questioni umane.
La visione islamica non è statica, ma intende il progresso
soprattutto in senso di benessere comunitario più che di sviluppo
individuale compiuto con le proprie forze. Anche il successo e le
attività economiche individuali sono qualcosa cui Dio chiama, ma alla
chiamata si deve rispondere rimanendo al servizio di tutti, non per
isolarsi perseguendo la causa del vantaggio del singolo. La situazione
politica della comunità dei credenti, definita in termini di
radicamento di questi valori fondamentali, diventa la cartina di
tornasole della condizione umana e dell'essere o meno in grazia di Dio.
Si tratta di due visioni contrastanti; Ataturk rinforzò la
secolarizzazione e l'abolizione del califfato fu considerata dai
musulmani come un attacco all'essenza stessa dell'Islam. La storia
della rivoluzione islamica emergente è in gran parte una storia della
risposta dell'Islam ad un pensiero occidentale costruito attorno
all'individualismo ed alla relazione personale con il divino, cui si
contrappone il focalizzarsi dell'Islam sul fatto che voglie ed appetiti
del singolo vanno controllati all'interno di un sistema che assegna la
priorità ad una comunità giusta ed equa, mezzo attraverso cui gli
individui possono raggiungere l'esperienza divina.
La concezione di Muhammad ed il suo contributo affermano che gli
individui si accostano a Dio facendo l'esperienza di valori vissuti a
livello comunitario, e non tramite la sola fede.
Quanto successe in Turchia fece da catalizzatore per scatenare ed
infondere energia ad una mobilitazione islamica. Una mobilitazione
basata su una rinascita del pensiero islamico centrata sull'essere
umano, sulla comunità e sul comportamento. Gli islamici credono che
l'Islam diventerà la visione del mondo e la
grande narrativa del futuro, in opposizione ad una narrativa occidentale che si sfilaccia nel mondo postmoderno.
Nel prossimo capitolo prenderemo in esame i primi appelli per una
resistenza armata islamica e l'ideologia che li accompagnava, e
tenteremo di abbozzare delle distinzioni tra le varie correnti che
comprendeva. Il capitolo successivo tratterò di come questa ideologia
islamica in evoluzione venne modellata ed estesa ulteriormente per
opera della Rivoluzione Iraniana, ed in particolar modo con l'apporto
specifico del pensiero sciita. Il capitolo tratterà anche dell'ascesa
dell'influenza di quello che ho indicato con il nome di "sciismo
politico". Infine, a chiusura di questa parte del libro, considereremo
l'impatto avuto da queste influenze su due movimenti di resistenza,
Hezbollah ed Hamas.
Portare come esempi Hezbollah ed Hamas non significa sminuire od
ignorare gli altri movimenti islamici; si tratta di due gruppi
significativi, uno sunnita e l'altro sciita, con cui si vuole mostrare
in che modo alcuni dei temi della resistenza hanno trovato incarnazione
pratica in due movimenti che hanno tra loro radici molto diverse.