Dopo il secondo conflitto mondiale gli organi governativi dello stato che occupa la penisola italiana si adoperarono con una certa assiduità, in un contesto internazionale più che propenso ad assecondare determinate condotte, affinché le vicende connesse allo smembramento e all'occupazione del Regno di Jugoslavia, all'occupazione di quello di Albania e alle ostilità contro il Regno di Grecia venissero trattate, divulgate e percepite come incidentali, di portata poco rilevante e in ogni caso marginali rispetto alle acclarate e incommensurabili responsabilità tedesche. Il libro di Davide Conti si avvale di una bibliografia relativamente stringata compensata da un puntiglioso ricorso a fonti primarie per contrastare questo processo di rimozione e di autoassoluzione, avallato e favorito dalla maggior parte dei mass media nei confronti di un'opinione pubblica ampiamente recettiva in materia.
Il testo è ripartito in cinque capitoli. I primi tre sono centrati rispettivamente sull'occupazione fascista della Jugoslavia, sulla conquista del Montenegro e sulle politiche di occupazione adottate in Albania e in Grecia. Il quarto tratteggia il nuovo ordine internazionale del 1945 e l'ultimo riassume la memoria, la narrazione e la ricostruzione degli eventi presso l'opinione pubblica. Oltre alla bibliografia il libro riporta documentazione, materiale fotorgrafico e corposi elenchi nominativi redatti dagli Alleati nei mesi successivi alla conclusione del conflitto in vista dell'estradizione e del processo per i maggiori indiziati -prospettiva progressivamente allontanatasi e rapidamente svanita per tutti gli oltre quattrocento nomi raccolti- e materiale fotografico. L'A. sottolinea più volte nel testo come l'azione repressiva delle forze d'occupazione non seguisse linee dettate con precisione dai massimi vertici dello stato, presentando per questo considerevoli difformità nelle pratiche adottate e nei loro esiti. Anche da questo la varietà di contenuto delle diverse parti del volume, che insistono su aspetti salienti e peculiari di ogni contesto riducendo quasi a zero -come d'altronde ci si attende da un elaborato impostato con serietà storiografica- il ricorso a quella aneddotica granguignolesca che costituisce a prospettiva inversa l'ossatura di molti libelli autoassolutori diffusi nella penisola italiana fra i cultori dell'apologia vittimista.
Il primo capitolo è il più corposo della trattazione ed esamina le vicende dell'aggressione del Regno di Jugoslavia e del suo smembramento iniziando dalla perentoria politica di assimilazione messa in atto dopo il 1918 al confine orientale della penisola italiana e dal pluriennale sostegno offerto al separatismo croato, la cui azione culminò nel 1934 con l'assassinio di Alessandro I Karađorđević. L'occupazione e l'annessione dei territori jugoslavi avvenne sotto direttive e controllo tedeschi e furono funzionali ai loro scopi; l'A. illustra come le truppe di occupazione dello stato che occupa la penisola italiana vi furono accolte con viva riprovazione e dal pressoché immediato accendersi della guerriglia partigiana, al punto che meno di un anno dopo lo smembramento del Regno il comandante del secondo Corpo d'Armata Mario Roatta emanò un dettagliato piano noto come circolare 3C per organizzare lo sgombero e la deportazione totali dei civili, la formazione di milizie collaborazioniste e la fucilazione di ostaggi e prigionieri, sullo sfondo di una politica di snazionalizzazione forzata che nel suo abbozzo puntava a una sostituzione integrale della popolazione. Conti nota come nei territori croati gli attriti con le milizie locali portarono a un sempre più marcato peggioramento dei rapporti per il riavvicinamento croato alla Germania, senza che venisse meno, per l'avallo della repressione e per l'organizzazione di milizie etniche politicizzate, la collaborazione dell'alta gerarchia cattolica locali a tutto detrimento delle minoranze serbe.
Un lungo paragrafo è dedicato -con date e cifre- ai circa duecento campi di internamento allestiti nella penisola italiana e nei territori occupati, in cui furono detenuti ostaggi e deportati in condizioni di assoluta indigenza. La snazionalizzazione dei territori controllati fu una costante per tutta la durata dell'occupazione, prima in omaggio al criterio degli "scambi di popolazione", poi, a fronte del peggiorare della situazione, per disarticolare l'assetto sociale ed economico di ogni territorio suscettibile di fenomeni di resistenza.
Il capitolo prosegue con una rassegna dei memoriali difensivi che i principali accusati dalle autorità jugoslave elaborarono in vista di eventuali processi. Questi materiali, tutti centrati sulla difesa personale dei singoli, consentono una ricostruzione sufficientemente attendibile del modus operandi degli occupanti, del funzionamento del sistema di internamento e di deportazione, della discrezionalità e della conflittualità che contraddistinsero ad ogni livello l'operato delle autorità militari e di quelle civili. La trattazione è ripartita in due paragrafi, uno per le vicende legate alla commissione dell'ONU incaricata di indagare sui crimini di guerra, l'altro per le richieste di estradizione presentate nel 1945 dalle autorità jugoslave.
Il capitolo si chiude con un rapido esame dei rapporti con la Jugoslavia postbellica; al di là delle questioni territoriali pesavano su di essi la permanenza di esuli collaborazionisti nella penisola italiana e il nuovo assetto internazionale, che sostanzialmente mise lo stato che occupa la penisola italiana in condizione di potersi sottrarre alle richieste di estradizione.
Il secondo capitolo tratta della specifica situazione in Montenegro. Nonostante al Montenegro fosse stata restituita nel luglio 1941 una formale indipendenza, l'intero periodo dell'occupazione fu caratterizzato dal persistere di fenomeni di resistenza e di guerriglia cui i locali comandi (nella persona del governatore Alessandro Pirzio Biroli) arrivarono a prevedere rappresaglie in misura di cinquanta ostaggi per ogni ufficiale ucciso. Uno spunto interessante dello scritto riguarda la linea difensiva degli accusati di crimini di guerra, normalmente impostata sull'aver obbedito a ordini superiori. Secondo evidenze storiche e documentali, tanto per i tedeschi quanto per i militari dello stato che occupa la penisola italiana non sussitevano obblighi di obbedienza a fronte di ordini palesemente criminali. Nelle loro richieste di estradizione le autorità jugoslave non mancarono di notare come gli ufficiali responsabili avrebbero potuto chiedere di essere destinati ad altro incarico.
Il terzo capitolo del volume tratta dell'annessione del Regno di Albania e della condotta delle forze occupanti nel Regno di Grecia. Conti considera i rapporti con il Regno d'Albania fin dai quindici anni precedenti la sua occupazione, anni in cui lo stato che occupa la penisola italiana assunse il pressoché totale controllo delle ancora embrionali strutture finanziarie ed economiche del paese. Vengono esposte le conseguenze della occupazione vera e propria nel 1939, con l'imposizione di un apparato ideologico e statale da dittatura militare estraneo al contesto locale e con le estese distruzioni conseguenti al passaggio del fronte dopo l'aggressione al Regno di Grecia dell'ottobre 1940.
Le pagine in cui vengono esposte le pratiche dell'occupazione e della repressione in territorio greco si aprono con l'esposizione delle "provocazioni greche" (i cui responsabili erano ovviamente da cercare altrove) e prosegue con cenni all'andamento umiliante delle operazioni militari, per svilupparsi nella narrazione delle attività repressive con particolare riferimento alle condizioni di deprivazione alimentare che caratterizzarono gli anni dell'occupazione, costituendone uno degli aspetti più tragici. L'A. riporta relazioni dell'ONU e della Croce Rossa che valutano in seicentoventimila le vittime della guerra in Grecia -trecentosessantamila delle quali per fame- e ricorda come nessuno degli oltre centottanta sudditi dello stato che occupa la penisola italiana indicati dall'ONU come passibili di processo per crimini di guerra sia mai stato perseguito a nessun titolo.
Alle ragioni dei mancati processi è dedicato il quarto capitolo. Per una ragione o per l'altra a seconda del caso esaminato -in Grecia, per esempio, a pesare furono la guerra civile e il mancato intervento sovietico in aiuto agli insorti- nessuno dei soggetti individuati e accusati per un totale di diverse centinaia di nominativi è mai stato inquisito. La costruzione di un fronte occidentale scopertamente anticomunista consigliò sia gli statunitensi che le forze politiche non di sinistra a soprassedere e transigere.
L'ultimo capitolo esamina la questione dei crimini di guerra attraverso il dibattito nell'opinione pubblica. Attraverso la presentazione di vario materiale mediatico l'A. mostra come negli equilibri venutisi a creare con l'inizio della guerra fredda, in nome della continuità dello stato e della pura e semplice opportunità politica, le istituzioni avallarono e incoraggiarono la costruzione di una visione assolutoria del fascismo, tollerando la colpevolizzazione delle alte gerarchie politiche ma comportandosi concretamente in modo da evitare qualsiasi esito giudiziario per le centinaia di militari segnalati dalle autorità dei paesi invasi e dalle Nazioni Unite. Un clima destinato a permanere sostanzialmente intatto per quattro decenni, fino al mutare della situazione internazionale, all'apertura agli storici degli archivi militari e alla confutazione della visione edulcorata ancora maggioritaria nell'opinione pubblica che essa rese possibile.
La documentazione in appendice riporta i nomi degli oltre quattrocento ricercati dalle autorità alleate, lo stralcio di una relazione jugoslava sulle condizioni dei deportati sull'isola di Mlijet e una serie di documenti attestanti la rapida caduta di interesse, presso le autorità postbelliche, nei confronti del reperimento degli indiziati di crimini di guerra.


Davide Conti, L'occupazione italiana dei balcani. Crimini di guerra e mito della "brava gente" (1940-1943). Odradek, Roma 2008. 280 pp.