Guenter Lewy dedica agli avvenimenti legati alla deportazione degli armeni decisa nel 1915 dai vertici del governo ottomano un volume di quattrocento pagine significativamente intitolato Il massacro degli armeni; il vocabolo genocidio compare soltanto nel sottotitolo assieme all'aggettivo controverso che ne limita ancora di più la portata e ancora meglio specifica i dubbi che l'autore promette di avanzare sulla questione.
Il volume è dotato di un indice analitico e di un apparato bibliografico completo e si divide in quattordici capitoli, quindici se contiamo un epilogo in cui si affrontano i temi legati alla politicizzazione cui la ricostruzione storiografica degli eventi è andata incessantemente soggetta, sia da parte armena che da parte turca.
I primi quattro capitoli, racchiusi in una prima parte intitolata Il quadro storico delimitano il campo di indagine e tracciano un quadro di massima sulla presenza, sul ruolo e sulle condizioni degli armeni ottomani alla fine del XIX secolo; viene affrontata anche la questione dei movimenti rivoluzionari armeni, con i loro partiti e con la loro pratica politica, ed il loro legame con i cosiddetti "massacri hamidiani" del 1894-1896, di cui viene esaminata la particolare prassi e di cui l'autore fa il possibile per risalire per quanto possibile alle responsabilità, senza fidarsi di alcuna presunta certezza e di alcun luogo comune (un atteggiamento, questo, che permea tutto il lavoro). La tesi di fondo di Lewy è che la pratica politica dei rivoluzionari armeni, attuata in un periodo di gravissime sconfitte militari e di una continua erosione territoriale che già per suo conto provocava un afflusso di profughi musulmani la cui accoglienza poneva problemi di non poco conto alla traballante logistica e alla più che farraginosa burocrazia ottomane, non sia stata certo estranea alla instaurazione di un clima di tensione e di paura, aggravato dal ventilato appoggio che questa o quella potenza europea avrebbero dato ad una sollevazione generale che nell'ottica ottomana poteva sfociare soltanto in una dissoluzione territoriale dell'impero stesso.
Di qui i massacri "hamidiani", in realtà più attribuibili alla bassa truppa e a civili armati spesso invidiosi dello status altrui che non ad una precisa volontà imperiale. E'interessante notare che il partito armeno Dashnak rimase in buone relazioni con il Comitato per l'Unità ed il Progresso, che aveva prodotto il governo in carica ad Istanbul, fino al 1915.
In tutto il volume, Lewy non assegna al "fanatismo religioso" altro che un ruolo marginale tra le motivazioni che possono aver mosso gli autori dei massacri presi in considerazione; preoccupazione di ordine politico, peggioramento delle condizioni di vita ed invidia pura e semplice per lo status di molte vittime gli paiono fattori molto più determinanti.
La seconda parte del volume è intitolata Due storiografie rivali e mette a confronto storiografia armena e storiografia turca. La storiografia armena non avanza dubbi sulla natura pianificata, e quindi propriamente genocidiaria, degli avvenimenti; quella turca ne avanza di tutte le specie lungo un continuum che va dall'ammissione di colpa per massacri consequenziali all'esecuzione degli ordini di evacuazione fino al negazionismo più assoluto, per quanto raro e caratteristico della propaganda assai più che della storiografia. Il quinto capitolo, dopo aver esposto l'ideologia del panturanismo come pilastro del nazionalismo turco, ed il ruolo che Ziya Gökalp ebbe nella sua definizione scagionandolo dall'accusa di aver teorizzato anche il suprematismo razziale turco, esprime pesantissimi dubbi circa l'affidabilità dei "dieci comandamenti" e di una certa riunione segreta del febbraio 1915 che avrebbe, secondo gli storici armeni, costituito l'occasione per una deliberata pianificazione del genocidio. In conclusione Lewy espone documentazione e testimonianze a sostegno della tesi secondo la quale la poca o nulla attenzione per la vita umana fosse una costante della guerra in Anatolia nel 1915, e che non fosse diretta alla mera afflizione dei cristiani e degli armeni.
Nel sesto capitolo Lewy esprime dubbi assai pesanti sulla validità documentale di molte delle prove addotte in merito alla pianificazione del genocidio armeno, tra le quali i telegrammi inviati da Tal'at pascià le cosiddette "Memorie di Naim Bey" di Aram Andonian. Esamina poi la vicenda delle corti marziali turche del dopoguerra, che sotto occupazione alleata imbastirono processi sulla base di dicerie, di testimonianze discutibili e di articoli di giornale, e la vicenda di membri del CUP deportati a Malta per esservi detenuti e processati, iniziativa voluta dal governo britannico in risposta ad una rivolta popolare contro l'occupazione inglese che si arenò dopo pochi mesi per la profonda differenza tra i sistemi giuridici e per la validità -giudicata nulla- della documentazione raccolta a carico degli imputati. Il fatto che la maggior parte delle "prove" a carico della cosiddetta "Organizzazione Speciale" esplicitamente incaricata dei massacri sia stato raccolto per i processi celebrati sotto occupazione la priva, secondo Lewy, di molta credibilità.
Il settimo capitolo considera le posizioni della storiografia turca, che non ammette la pianificazione dei massacri e fa notare come, nonostante la lealtà iniziale del Dashnak, il disfattismo armeno e la propensione armena per gli Alleati non fossero un mistero per nessuno e citando documenti del partito Hnçak che auspicavano l'insurrezione generale giustificano la deportazione in massa degli armeni fuori dall'Anatolia come resa necessaria dalla guerra in corso e dalla dubbissima fedeltà all'Impero della popolazione armena. La rivolta di Van al tempo dell'avanzata russa in Anatolia, il gran numero di armi russe trovato in mani armene ed il passaggio all'invasore di interi gruppi di soldati vengono visti dalla storiografia turca come una conferma delle peggiori intenzioni della popolazione armena. La presenza documentata di ispezioni destinate a punire gli arbitrii verificatisi nelle deportazioni del 1915 e l'esistenza documentata di una lunga serie di atrocità perpetrate anche dagli armeni inducono l'autore a considerare limitata validità scientifica di molti studi schierati.
La terza parte del volume è dedicata alla Ricostruzione storica: ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. L'ottavo capitolo affronta il problema delle fonti storiografiche: archivi turchi, tedeschi e statunitensi, report imperiali britannici, rapporti dei missionari presenti all'epoca in Anatolia, testimonianze dei sopravvissuti, evidenziando pregi e limiti di ciascuna di esse.
Il nono capitolo tratta specificamente dell'ordine di deportazione approvato il 30 maggio 1915 e dovuto ai timori governativi che la situazione in Anatolia diventasse ingovernabile, portando al collasso finale un impero in cui i russi dilagavano ad est ed in cui gli Alleati erano appena sbarcati a Gallipoli; si esamina poi la negligiente ed approssimativa applicazione del decreto, avvenuta in condizioni di penuria di ogni cosa, dalle derrate alimentari ai trasporti in quel contesto di totale disorganizzazione che secondo Lewy fu il primo colpevole del massacro della popolazione anatolica in generale, non soltanto di quella armena. Allo stesso modo, Lewy non considera rilevanti -e tanto meno determinanti- le prove presuntamente a carico di una complicità tedesca, riportando anzi numerosi casi di addetti militari tedeschi che fecero il possibile per alleviare le condizioni di assoluta miseria e di inedia in cui si venne a trovare gran parte dei deportati.
Nel decimo capitolo si trova un'esposizione dettagliata dello svolgimento delle deportazioni, destinate nelle intenzioni a reinsediare la popolazione armena al di fuori dell'Anatolia. L'Autore ricostruisce le vicende dei deportati da Erzurum, Harput e Trabzon, dei deportati dalla Cilicia, la situazione che venne a crearsi ad Aleppo, ad Urfa e nei luoghi lungo la ferrovia per Baghdad destinati al reinsediamento come Deir Ez Zor e Ras-ul Aim, evidenziando tante e tali differenze nelle vicende e nel trattamento delle colonne partenti da questa o quella città da rendere a suo giudizio poco probabile che le deportazioni avessero come fine ultimo l'annichilimento del popolo armeno.
Nell'undicesimo capitolo viene affrontata la questione di un reinsediamento pianificato -senza che sostanzialmente nulla di pratico venisse fatto per mettere a disposizione materiali, derrate alimentari e risorse- nelle città siriane e che soprattutto lungo l'Eufrate espose i pochi deportati che erano riusciti a sopravvivere agli attacchi della popolazione curda e circassa, a quelli dei disertori e al comportamento per lo meno inefficiente dei gendarmi di scorta ad ogni specie di incertezze e di vessazioni.
Il dodicesimo capitolo va alla ricerca di responsabilità precise che, se non sono identificabili con la certezza ed in quelle sedi che basterebbero per giustificare l'utilizzo del vocabolo genocidio, sono sicuramente rintracciabili quel tanto che serve ad utilizzare il vocabolo massacri per la definizione degli avvenimenti in esame. Lewy espone il ruolo avuto in essi, e suffragato dalla documentazione, da parte della popolazione curda (peraltro non tutta e non ovunque), da parte di una gendarmeria come minimo impreparata a compiti che avrebbero in ogni caso messo in difficoltà un organismo statale di assoluta efficienza, da parte di bande circasse e di delinquenti comuni che presero parte attiva alla spoliazione e all'uccisione di moltissimi deportati. Lewy prende in esame anche le intollerabili condizioni di vita nei battaglioni di lavoro cui i soldati ottomani di origine armena furono destinati dopo esser stati disarmati, e l'arbitrio spesso assoluto delle autorità locali.
L'ultimo capitolo della sezione cerca di fare un bilancio delle vittime, operazione resa difficile dall'inaffidabilità dei dati a disposizione e dalla polarizzazione delle posizioni espresse in merito, che vanno dai cinquantaseimila morti citati dal turco Halaçoglu agli oltre due milioni riportati dall'armeno Karajian. Lewy ritiene più corretto citare innanzitutto il numero dei sopravvissuti, valutato in circa un milione e centomila persone, e poi quello delle vittime, quantificate in oltre seicentoquarantamila.
La Storia della controversia chiude il volume passando in rassegna le motivazioni a favore o contro l'esistenza di una premeditazione e di uno svolgimento pianificato degli avvenimenti. Secondo Lewy "non esiste documentazione comprovante la colpevolezza del governo centrale turco in ordine ai massacri del 1915-16": la sopravvivenza sostanziale delle comunità che non si trovavano in Anatolia orientale, la disparità dei trattamenti riservati alle diverse colonne di deportati, il comportamento difforme delle autorità locali costituirebbero prove di questa affermazione. L'ultimo capitolo del volume ripercorre brevemente la storia delle pressioni politiche esercitate -negli ultimi anni con sempre maggiore forza- sulla storiografia e sui mass media da politici e studiosi armeni e turchi; le prove incontrovertibili di una pianificazione dello sterminio degli ebrei d'Europa non avrebbero secondo l'Autore alcun corrispettivo in quanto successo in Anatolia nei primi anni della guerra mondiale. L'accostamento alla shoah è uno dei refrain della propaganda armena cui Lewy non intende prestare credibilità e a questo proposito ricontestualizza anche una pretesa affermazione di Hitler ("...Dopotutto, oggi chi si ricorda degli armeni?") che sarebbe stata pronunciata in un discorso del 22 agosto 1939 in cui Hitler si riferiva alla Polonia in generale (e non agli ebrei in particolare) e che neppure risulterebbe dai resoconti stenografici della giornata.


Guenter Lewy - Il massacro degli armeni, un genocidio controverso - Einaudi, 2008 pp. 394.