Il libro, introdotto da Etyen Mahçupyan, raccoglie essenzialmente articoli, interviste ed editoriali pubblicati dal giornalista e redattore stambuliota Hrant Dink negli ultimi due anni di vita. Dink si autodefiniva "un armeno di Turchia" ed aveva fondato Agos, "Il solco", un giornale scritto in turco ed in armeno che nel corso degli anni è diventato una delle letture abituali della élite intellettuale della Repubblica. Gli scritti qui presentati hanno dunque un orientamento prevalentemente autobiografico: l'orfanotrofio, la famiglia, il servizio militare, la vita di un cittadino della Repubblica di Turchia decisissimo a rimanere tale sono lo spunto per l'esposizione di una possibile soluzione per il problema di un passato che non passa.
Hrant Dink espone negli articoli raccolti il proprio punto di vista su quelle che si potrebbero definire, con molta imprecisione, "la questione turca" e "la questione armena", e ricostruisce le tappe di una vicenda giudiziaria che contribuì in larga misura all'instaurazione e al permanere di un clima mediatico profondamente denigratorio ed ostile nei suoi confronti. Un clima nel quale poté maturare e compiersi la sua uccisione.
Hrant Dink pensava che la questione del riconoscimento del genocidio armeno dovesse essere affrontata costruendo in Turchia un movimento di opinione in grado di influenzare in questo senso la politica del governo, e che questo obiettivo dovesse essere raggiunto lavorando assiduamente in favore della libertà di espressione. Riteneva inoltre che l'essenza della questione riguardasse non tanto e non soltanto il riconoscimento giuridico dell'accaduto, quanto la comprensione condivisa del fatto che gli avvenimenti del 1915 avevano comportato lo sradicamento di un popolo intero da territori che aveva abitato per millenni.
l processo che Dink dovette affrontare nel 2005 viene ricostruito dettagliatamente; la condanna a sei mesi di carcere per "insulto all'identità nazionale" prevista dal codice penale turco arrivò dopo un crescendo di inseguimenti giudiziari, di convocazioni prefettizie e di intimidazioni di ogni genere. "Il sangue velenoso dei turchi" con cui molta stampa orientata ad un nazionalismo intransigente intitolò gli articoli di linciaggio è un'espressione che nell'intervista per cui Dink finì sotto accusa non ricorre mai, ma l'evidenza dei fatti si scontrò in sede giudiziaria con la determinazione di trovarlo colpevole ad ogni costo, lasciando a Dink solo la possibilità del ricorso alla corte europea per i diritti dell'uomo prima che il clima che i mass media vollero montare attorno al caso finisse per armare la mano di un diciassettenne dal comportamento per lo meno problematico.
La vicenda di Hrant Dink presenta un punto di estremo interesse anche per chi non sia fornito di cognizione di causa, perché è un esempio della portata e degli esiti cui possono giungere le operazioni di denigrazione mediatica. E nello stato che occupa la penisola italiana i linciaggi a mezzo stampa sono da molti anni all'ordine del giorno, al punto che si ha l'impressione che la messa in opera di roba del genere sia la prima, se non l'unica, preoccupazione di una "informazione" che intenderebbe anche definirsi "libera".
Tracciare paragoni con realtà culturali più dinamiche e critiche, come quella della stessa Repubblica di Turchia, non soltanto non è fuori luogo ma porta ovviamente a conclusioni per nulla positive sul conto dell'offerta mediatica peninsulare, peraltro perfettamente rappresentativa della bassezza, della pochezza, della piccineria e della repellente incultura che sono le principali caratteristiche di un pubblico rappresentato da sudditi che la "libera informazione" ha cura di mantenere ben lontani non solo da qualsiasi contenuto obiettivo, ma anche dalla realtà stessa delle cose.


Hrant Dink - L'inquietudine della colomba. Essere armeni in Turchia - 2008, Guerini e Associati, 156 pp.