Il testo di Giovanni Ricci costituisce un tentativo di sondare quali fossero i rapporti tra "turchi" e "cristiani" nella penisola italiana del XVI e XVII secolo, ed in che modo le relazioni tra sponde opposte del Mediterraneo abbiano lasciato tracce nell'immaginario e nella cultura materiale peninsulare dello stesso periodo. Lavoro di storico, il volume non è di alcun aiuto a chi vi cercasse conferme a costrutti geopolitici demenziali come quello della Eurabia, o ad un'asserita e odierna volontà turca di dominio continentale.
Il primo capitolo, introducendo una prassi comune a tutto l'impianto dell'opera, si rifà a fonti contemporanee agli eventi narrati ed in particolare agli scritti di frate Leandro Alberti, che scrisse pochi decenni dopo i due episodi più macroscopicamente conflittuali che abbiano mai riguardato il rapporto delle popolazioni peninsulari con i turchi veri e propri. Questi episodi furono la cattura di Otranto nel 1480, e le cinque significative scorrerie in Friuli, che si verificarono tra il 1472 ed il 1499 e che lasciarono un ricordo forte nelle tradizioni locali. Opera essenzialmente della cavalleria bosniaca guidata da convertiti all'Islam, le incursioni peggiori furono quella del 1477 per la disfatta militare inflitta ai veneziani, e quella del 1499 per la devastazione patita dalla popolazione civile. Le fortezze veneziane di Gradisca e di Fogliano, costruite a partire dal 1474 finendo poi con avere una tacita funzione antiasburgica, resistettero agli assedi ma furono aggirate ogni volta. Così come per le incursioni in Friuli, anche per l'assedio e la conquista di Otranto, rimasta in mani turche per circa un anno nella sostanziale indifferenza delle piccole potenze dell'epoca, l'autore cita fonti contemporanee il più delle volte improntate all'agiografia. Una loro sedimentazione ed una lettura neanche tanto tra le righe, però, consentono una ricostruzione storica evenemenziale relativamente oggettiva; nel 1580 lo storico Laggetto trattava la vicenda in modo da mettere in ombra i lati della permanenza turca ad Otranto suscettibili di danneggiare le ricostruzioni agiografiche, soprattutto tacendo su nomi e numeri dei sopravvissuti (in questo aiutato probabilmente dalla distruzione degli archivi) nel timore, ventilato da Ricci, che al numero di sopravvissuti, morti e schiavi dovesse considerarsi anche il numero di quanti erano partiti con i turchi in ritirata.
Nel 1539 fu aperta un'inchiesta per la beatificazione di quelli che furono chiamati gli Ottocento Martiri, nel corso della quale furono chiamati a deporre testimoni dei fatti tutti di sesso maschile -se davvero i turchi si erano tanto accaniti contro le donne, perché escluderle dalla testimonianza?- e di classe sociale medio-alta. La causa ebbe una conclusione positiva solo nel 1771: dopo il concilio tridentino il grande numero di resti umani custoditi nella cattedrale non bastava, da solo, a garantire l'esercizio eroico delle virtù cristiane di coloro cui erano appartenuti. Le fonti agiografiche insistono molto sulla licenziosità degli invasori, tracciandone da questo punto di vista un ritratto opposto a quello del ciarlatanesimo islamofobo del XXI secolo.
Il secondo capitolo porta il titolo "crociate tardive". Il concetto multiforme di crociata rientrò nell'uso con la conquista di Costantinopoli; quello della "guerra giusta" fu uno dei due estremi del continuum su cui si muovevano, a tutti i livelli, le relazioni con i turchi all'inizio del XVI secolo, l'altro estremo essendo rappresentato dal ricorrente invito alla conversione, espresso in lettere ufficiali come quella che Pio II inviò a Muhammad II. Con virulenza direttamente proporzionale a quanto subìto ed inversamente proporzionale alla distanza che separava le loro regioni da quelle turche, memorialisti e storici infierivano; il cane, accostato paraetimologicamente al vocabolo khan che designava i sovrani turchi prima del sultanato, viene usato per denigrare i musulmani in generale e i turchi in particolare con precisi riferimenti alla loro origine infernale e ad una licenziosità sessuale attribuita loro in via generale. Lo storico Laggetto all'indomani di Otranto avanzò pesanti illazioni sulla complicità o quantomeno sull'inazione dei veneziani, complicità o inazione che va peraltro inquadrata nel gioco diplomatico del tempo in cui le scorrerie turche facevano il gioco ora dell'una, ora dell'altra delle potenze "cristiane" dell'epoca. Mentre Venezia andava assumendo atteggiamenti sempre più spregiudicati (o ambigui), la letteratura popolare faceva dell'aneddotica antiturca e delle guerre contro di essi materia per un'infinità di poemetti in ottava, la cui moda durò fino all'inizio del XVIII ed alla pace di Passarowitz. La vittoria di Lepanto nel 1571 alimentò le produzioni letterarie popolari conferendo loro un carattere trionfalistico. Il carattere islamofobo insito nel mito fondante del santuario di Loreto fece sì che per decenni Loreto e Lepanto costituissero due inamovibili luoghi comuni della propaganda politica: nel 1683 il santuario fu inondato di trofei di guerra, quando l'assedio di Vienna fu spezzato. Fino ad allora la guerra di corsa, la cattura ed il riscatto dei prigionieri e le vicende dei "rinnegati" occuparono le cronache e furono ispirazione letteraria. Il rumoroso e sincero trionfalismo per la fine dell'assedio arrivò dopo un secolo di continue erosioni territoriali che avevano radicalmente ridimensionato, se non cancellato del tutto, la presenza veneziana e genovese nel Mediterraneo orientale. Passarowitz mise fine ad una effimera rinascita e segnò la fine delle "crociate" anche per l'utilizzo del vocabolo. D'altronde era stata la rottura dell'unità confessionale in Europa a far diventare le guerre contro i turchi guerre come tutte le altre.
Se il concetto di crociata e la sua evoluzione interessavano e riguardavano più che altro le élites, il rapporto della gente comune con i turchi aveva connotati ben più fisici, riassunti nel terzo capitolo intitolato mentite spoglie ed incentrato sulle interazioni reciproche in materia di abiti, oggetti e cultura materiale in genere. Dall'uso truffaldino di abiti ed oggetti in circostanze belliche all'abbandono delle vesti "turchesche" come simbolo della ritrovata libertà dei riscattati, dagli episodi di adattamento e travestimento che rendevano la vita possibile nelle zone di confine (Tabarka, Hios, Toledo) fino ai nuovi "travestimenti da cristiani" di appartenenti alla minoranza turco-bulgara riparati in Turchia negli scorsi decenni ora intenzionati a riprendere una cittadinanza "valorizzata" dall'ingresso della BUlgaria nell'Unione Europea, il capitolo enumera molti casi di "identità fittizie" costruite ai tempi in cui l'abito poteva in molti casi davvero fare il monaco. L'ultimo capitolo è di interesse locale e tratta alcuni episodi della storia ferrarese e soprattutto della sua corte: il titolo è beffe di principi. All'inizio del 1576 un tale "vestito da turco" si presentò come ambasciatore ottomano ad Alfonso II d'Este offrendogli a nome del sultano la "corona di Gerusalemme". La cosa non si rivelò una beffa ed il primo sospettato di averla messa in piedi fu il granduca di Toscana Francesco I, che avrebbe agito per una serie di motivi in cui a questioni dinastiche e di etichetta si mescolava il risentimento per la completa defezione degli Este al tempo della battaglia di Lepanto. La beffa riuscì perché aveva caratteri di verosomiglianza; una verosomiglianza che aveva una delle sue basi nel fatto che la cultura materiale turca non era affatto insolita presso le corti della penisola. Abiti "alla turchesca" erano usati per travestimenti, rappresentazioni e pose per opere d'arte. Nel 1584 lo stesso Alfonso II si divertì a spaventare i propri ospiti durante una gita in barca, facendo allestire un finto assalto turco.

Giovanni Ricci - I Turchi alle porte, Il Mulino, 2008. 192pp.