Aprile 2002. Afghanistan aggredito con successo, "talebani" spariti e cattura di Bin Laden imminente... o almeno così davano ad intendere allora. Liste di proscrizione pronte, scribacchini in grande spolvero e piani per l'aggressione all'Iraq fuori dai cassetti. In questo contesto uno dei "libri" di Oriana Fallaci, La rabbia e l'orgoglio, viene imposto all'attenzione generale con metodi da propaganda totalitaria, secondo una strategia comunicativa che fa in modo da derubricare a "terrorismo" qualunque obiezione si faccia ai propositi in esso contenuti.
Oltre a Franco Cardini, che di lì a poco coordinerà un
La paura e l'arroganza in risposta all'autrice, sono in pochissimi a non calare prontamente e disgustosamente le brache: tra questi, l'antico collega Massimo Fini, che ripercorre in un lungo articolo sul Quotidiano Nazionale la storia del suo rapporto con la "scrittrice", evidenziandone ad un tempo le caratteristiche comportamentali che inducevano chiunque a tenersene a debita distanza -e che tante imitatrici hanno a tutt'oggi, purtroppo non sempre stigmatizzate, evitate ed isolate socialmente come sarebbe doveroso fare- ma riconoscendo anche, e in modo esplicito, le competenze e la professionalità di Oriana Fallaci giornalista. Massimo si beccherà una querela, secondo la prassi ormai abituale che vede le querele ed i risarcimenti milionari sostituire qualunque tipo di confronto dialettico. Perché a questo, in fin dei conti, si è ridotta la libertà di opinione in "occidente". La vicenda giudiziaria ebbe poi sviluppi piuttosto rivelatori, sui quali lo stesso Fini tornerà due anni dopo.

"Cara, prepotente Oriana, così non ti riconosco più"
Massimo Fini

Un giorno -correva la fine degli anni Sessanta- la Fallaci arrivò in redazione all'Europeo con una guancia vistosamente fasciata, come per un enorme mal di denti, e un braccio rotto. Ai colleghi che, incuriositi, le chiedevano cosa fosse successo, rispose che era stato un banale incidente casalingo. Ma poi venne fuori la verità. A Greve in Chianti, dove abitava ed ha tuttora una casa, aveva un vicino, un contadino, che era la sua vittima predestinata. Non c'era cortesia, favore, servizio, aiuto che Oriana non gli chiedesse. E quello, paziente, eseguiva. Un giorno che lui doveva andare a Firenze lei gli appioppò, come tante altre volte, un mucchio di incombenze e di acquisti dandogli disposizioni minuziosissime: la tal cosa e la talaltra dovevano essere fatte proprio in un certo modo, non si sbagliasse. Al ritorno del contadino risultò che uno degli acquisti non corrispondeva esattamente ai desideri di Oriana che, a berci e urli, gli fece una scenataccia. Il contadino girò il culo e non sifece più vedere. Sembrava essersi smaterializzato, quando Oriana lo cercava non lo trovava. Ricomparve d'improvviso molte settimane dopo, dietro una siepe, mentre Oriana passeggiava per i campi e la riempì di botte, vendicando d'un sol colpo i redattori dell'Europeo, che si abbandonarono, quando lo seppero, a scene di giubilo e tutti quelli, infiniti, che della Fallaci avevano subito le prepotenze e le violenze.

Mollata sulla Quinta Strada

Oriana non ha per gli altri un milionesimo dell'attenzione che pretende per se stessa. E' totalmente egoriferita. Il corrispondente da New York dell'Europeo era allora Duilio Pallottelli, il mite, il garbato, il bravissimo Pallottelli che dell'aristocrazia da cui veniva (era nato De Fonseca) conservava i tratti del gran signore. In quegli anni la Fallaci andava di frequente a New York e Duilio si metteva a sua disposizione, non per piaggeria ma per naturale cortesia. Ma la Fallaci interpretava questo atteggiamento come servilismo e ne abusava, come suo solito. Duilio alla fine lo capì. E un giorno mentre la stava portando in albergo con la sua auto, all'ennesima prepotenza di lei si vide il mite, il bonario, il gentiluomo Pallottelli frenare di colpo, uscire dalla macchina, aprire la portiera, estrarne di peso l'Oriana e lasciarla lì, come una babbea sul marciapiede della Quinta Stada con lo sterminìo dei suoi bagagli, ripartendo a razzo. Duilio è morto qualche anno fa e non si sono mai più rivisti.
Una volta in un grande albergo di Atene, dove si era fermata al ritorno da un'intervista a Golda Meir, affidò ad una cameriera la rosa che la grande vecchia le aveva donato. Ma al mattino la rosa era appassita. Oriana, furiosa, chiamò il direttore dell'albergo e pretese il licenziamento in tronco della ragazza. Il direttore l'accompagnò fuori dall'hotel, lasciandola lì, ancora sul marciapiede con i suoi bagagli.
Prepotente con i deboli, molto più accomodante con i forti. Era lei che si stringeva platealmente al braccio di Bruno Tassan Din ai funerali di Walter Tobagi, funerali barocchi, con Rolls Royce, in uno stile kitsch che era all'opposto del gusto di Walter, per ritagliarsi, anche in quell'occasione, uno spazio sotto i riflettori.
Il momento migliore, dal punto di vista umano, della Fallaci fu nei primi anni Settanta quando filava con Alessandro Panagulis, l'eroe della resistenza greca ai colonnelli. Lui le mollava dei gran ceffoni, che è l'unico modo di trattar l'Oriana, e lei si metteva cheta. Appagata sentimentalmente -benché Panagulis, gran bevitore e gran tombeur, avesse anche altre donne- era diventata persino simpatica. Io arrivai all'Europeo in quegli anni felici. Ero il più giovane della compagnia e lei si prese di simpatia per me. Una piccola casa editrice scolastica, La Sorgente, le aveva chiesto un'autobiografia per gli studenti delle medie, lei non aveva tempo e mi propose di farla io. Accettai con entusiasmo, l'idea di stare a contatto stetto con un mito del giornalismo italiano e internazionale mi allettava moltissimo. Ed effettivamente le conversazioni con Oriana erano un fuoco d'artificio di urli, di berci ma anche di straordinari aneddoti, di storie, di ricordi, di intuizioni, una scuola di giornalismo. Dai suoi racconti, di lei che giovanissima quattordicenne, minuta, più bambina ancora della sua età, spinge d'inverno sui pedali di una pesante bicicletta su per i colli gelidi di Firenze, a far il giro di ospedali e questure, veniva fuori un giornalismo d'antan, eroico, già allora perduto. Mi disse: "Con questo libro tu devi fare un panegirico del nostro mestiere, del giornalista, di questo personaggio straordinario che va in Paesi di cui non conosce la lingua, non conosce la geografia, non conosce la storia, non conosce nulla, e torna indietro con un grande racconto col quale, d'intuito, ha penetrato lingua e storia e umanità del posto in cui è stato". Le piacque moltissimo un mio ritratto di Malaparte, che era stato il suo grande maestro, ma rileggendolo sul giornale si impuntò su una virgola fuori posto, una sola virgola in 26 cartelle. "Vedi", mi disse, "vorrei prendere uno scalpello e tirarla via a colpi questa virgola, perché deturpa un pezzo così bello". Era perfezionista, doverista, come si deve essere in questo mestiere. Scriveva le sue interminabili interviste, raccolte al registratore, in due giorni e due notti di seguito, senza dormire, poi si buttava, disfatta, sul letto.
I nostri colloqui si svolgevano a Milano, ma anche nelle sue case di Greve e di Firenze. A quell'epoca la Fallaci non amava affatto gli americani ed aveva l'ossesione della Cia. Passeggiando per Firenze bisognava nascondersi ad ogni momento dietro una colonna, una statua, in un portone. Eravamo sempre seguiti, a sentir lei, da agenti dello spionaggio americano. Fra me e me sorridevo di quella megalomania, che mi pareva innocente, e le tenevo bordone. Dopo che le ebbi fato leggere le prime settanta cartelle del libro mi mandò una lettera che conservo, colma di elogi. Poi, improvvisamente, decise che non se ne faceva più nulla. Probabilmente considerò che il materiale che mi aveva consegnato era sproporzionato per un libretto destinato alle scuole e troppo bello perché lo firmassi io. Avrebbe potuto utilizzarlo lei, in prima persona, più avanti. Secondo me aveva ragione: si trattava della sua vita, in fondo, e inoltre io utilizzavo molto, virgolettando, il suo splendido parlato, il suo straordinario italiano. Sarebbe bastato che me lo dicesse, chiaramente, e non ci sarebbero stati problemi. Ma la Fallaci non è tipo da ammettere queste cose. Così si inventò che ero una spia della Cia. Così rompemmo, come tutti, prima o dopo, hanno rotto con lei. La morte di Panagulis, che ubriaco andò a schiantarsi di notte con la macchina, fu per Oriana un bruttissimo colpo. In tanti sensi, Panagulis le dava quell'equilibrio di cui un personaggio come lei aveva particolarmente bisogno.

La tragedia di Panagulis

Scomparso Panagulis il suo narcisismo, il suo egocentrismo, l'ipertrofia del suo io non ebbero più argini. Si mise a fare la vedova dell'eroe morto ammazzato, per tutta la vita aveva desiderato essere una donna tragica e alla fine ci era riuscita. Si mise anche a scrivere romanzi, equivocando su un consiglio di Curzio Malaparte che aveva preso a benvolere quella ragazzina, sbarazzina e timida (perché la prepotenza di Oriana, come spesso succede, non è che il riflesso di una profonda timidezza) intuendone il grande talento: "Orianina" le aveva detto "a un certo punto della carriera un giornalista deve cominciare a scrivere libri, così aumenta il suo prestigio". Ma Malaparte intendeva saggi o reportages appena un po' più forzati degli articoli destinati a un giornale, come aveva fatto lui con La pelle e Kaputt. Ma la Fallaci si mise a fare il romanzo per il quale non è assolutamente tagliata. La sua enfasi, la sua retorica, le sue tinte forti vanno bene sulla distanza di un articolo, ma trascinate per cinquecento pagine diventano stucchevoli, intollerabili. Il romanzo vuole le sfumature, l'accennato, il non detto e la Fallaci non conosce questa misura. Un uomo è stato un successo ma Insciallah, con trecentomila copie rimaste in magazzino, fu uno dei più grandi bagni della storia dell'editoria. La Fallaci è grandissima in superficie, ma non è profonda. Lei stessa mi ha confessato di detestare gli autori tedeschi. Goethe in testa, e non credo sia un caso. È un gigantesco utero estroflesso che coglie ogni dettaglio della realtà, ma non la scava. Del resto, se si va a ben guardare, la Fallaci migliore è quella che faceva i ritratti dei personaggi dello spettacolo e del mondo letterario (Mastroianni, la Magnani, lo stesso Malaparte di cui scrisse, in morte, il più bel "coccodrillo").

Ma non si può non amarla

Mi ricordo, a memoria, la formidabile chiusa di un'intervista ad Anna Magnani. Si fa chiedere da Anna: "E allora cosa pensa di me, signora Fallaci". E risponde:"Penso che lei è un grand'uomo, signora Magnani". La Fallaci che comincia a trafficare con la Storia è molto meno convincente. Se le si va a rileggere quasi tutte quelle interviste risultano sbagliate, sconfessate da ciò che è successo dopo. In Vietnam prese partito contro gli americani e, nel clima di retorica anti yankee di quegli anni, vi costruì la sua fortuna. Poi si è pentita, ma intanto quei pezzi fuorvianti, acritici, scioccamente ideologici, li ha scritti. La Fallaci delle ultime interviste, quelle a Gheddafi e Khomeini, che sono ormai quasi di vent'anni fa, ha già rotto tutte le acque. Non sono più interviste. La protagonista è lei nella parte di Oriana Fallaci che interpreta se stessa, dipingendo personaggi modellati sulla sua fantasia e sulla sua faziosità e quindi inesistenti. L'ultimissima Fallaci, quella di questi mesi e giorni, di "La Rabbia e l'Orgoglio" e di "Io trovo vergognoso", è imbarazzante. Si preferirebbe non parlarne. Della antica Fallaci sono rimaste solo la prepotenza, la faziosità, forse l'intuito per ciò che fa scandalo, ma la cifra della grande giornalista, che sapeva sposare passione e ragione, pare perduta per sempre. E continuando ad amare Oriana, perché, pur detestandola, alla fine non si può non amarla, per ciò che è stata, per quello che ci ha dato, per come si è spesa, ricordo un verso di Menandro che ci dicemmo un giorno, tantissimi anni fa e che vale per tutti: "Caro agli Dei è chi muore giovane".