Traduzione da Conflicts Forum.
Uno degli aspetti più significativi degli accordi raggiunti a Ginevra tra la Repubblica Islamica dell'Iran ed il "cinque più uno" è il fatto stesso che gli accordi ci siano stati, nonostante i milioni che l'Arabia Saudita avrebbe speso per opporsi ad essi, e nonostante la totale condanna di Netanyahu e dell'AIPAC. Il fatto in sé suggerisce che le relazioni degli Stati Uniti con l'Arabia Saudita e lo stato sionista abbiano già attraversato una metamorfosi ed una riconfigurazione abbastanza profonde; di conseguenza sembra che la viscerale contrarietà espressa nelle reazioni dei sauditi (che sono informali) e dei sionisti (che sono formali) non solo non sia più così influente sugli eventi, ma contribuisca piuttosto a indicare un notevole declino della loro influenza su Washington.
Certo, gli accordi rappresentano una svolta dal punto di vista strategico, un momento di grande potenzialità, un punto di svolta: Iran e "cinque più uno" si sono scambiati concessioni sostanziali e sono giunti ad un accordo provvisorio. Un risultato negoziato di tutto rispetto, se si considera la portata delle forze scatenate contro di esso. Comunque, il modo cui si è giunti all'accordo e il piano su cui si svilupperà non rendono difficile scorgere anche le minacce che in fin dei conti potranno affossarlo. In un certo senso, la debolezza strutturale che lo sottende rappresenta una specie di vittoria per chi si è opposto ad esso, dal momento che la base adottata riflette più che altro il bisogno dei contraenti di tutelare se stessi contro le pretese, deliberatamente gonfiate, degli oppositori. L'impianto dell'accordo riflette più i bisogni degli oppositori, ovvero la possibilità di controllare e inasprire le sanzioni, che non i più ampi interessi degli Stati Uniti.
Come suggerito dal professor Stephen Walt, esiste una grossa disparità tra quello che dovrebbe essere l'obiettivo dei negoziati (il programma nucleare iraniano) ed il loro obiettivo vero e proprio: "la questione vera è l'equilibrio del potere a lungo termine, nel Golfo Persico e in Medio Oriente. L'Iran conta su un potenziale di gran lunga più alto di qualunque altro paese della regione; una popolazione più numerosa, una middle class abbaastanza sofisticata e preparata, alcune buone università e petrolio e gas sufficienti a sostenere la crescita economica a patto che siano usati con intelligenza... Lo stato sionista e l'Arabia Saudita non pensano che l'Iran si svegli una mattina e inizi a passare testate nucleari ai suoi vicini, e probabilmente non credono seriamente che l'Iran si azzarderebbe neppure a tentare di dar luogo ad una minaccia nucleare. No, essi temono soltanto che un Iran potente finisca per esercitare col tempo una maggiore influenza nella regione, in tutti i modi che sono possibili alle potenze di un certo rilievo. Visto da Tel Aviv e da Riyadh, l'obiettivo è quello di cercare di tenere l'Iran isolato il più a lungo possibile. Isolato, senza amici, e tenuto artatamente in condizioni di debolezza".
In effetti gli elementi su come si possa assicurare ma anche sorvegliare l'arricchimento dell'uranio per scopi pacifici da parte dell'Iran sono disponibili da dieci anni; l'Iran stesso li propose nel 2004. Sicuramente è possibile anche trarre in inganno un sistema di trasparenza che consente una chiara differenziazione tra arricchimento a scopi militari e arricchimento di scorte a bassa concentrazione per reattori industriali. Non è che sia molto difficile. E non c'è dubbio che il possesso di un ciclo di combustibile come questo sia esattamente quello che il quarto articolo del Trattato di Non Proliferazione descrive come "diritto inalienabile" (si veda qui per la formulazione esatta).
Quello che ha letteralmente minato la questione del nucleare iraniano è stata l'affermazione di Albert Wohlstetter, una figura molto influente in AmeriKKKa negli anni Sessanta e Settanta, secondo cui il Trattato di Non Proliferazione presentava dei difetti fatali. Si noti: non diceva che gli stati sovrani non avessero diritto di produrre combustibile nucleare, ma semplicemente che il trattato era difettoso perché agli stati che non godevano della fiducia degli USA non avrebbe mai dovuto esser concesso il diritto di arricchire uranio, perché non ci si poteva fidare. Alla base dell'affermazione c'era l'argomento, discutibile, secondo cui la procedura per l'arricchimento per scopi pacifici era materialmente la stessa di quello militare.
Da allora gli Stati Uniti e tre dei loro più stretti alleati hanno tenuto in conto che il Trattato di Non Proliferazione non garantisse di per sé il diritto di arricchire uranio, minandone alla base gli intenti: lo spirito del Trattato era far sì che i paesi privi di armi nucleari non si cimentassero nel loro sviluppo in cambio di un accesso garantito alle tecnologie necessarie per il ciclo del combustibile nucleare. I paesi dotati di armamenti nucleari avrebbero accettato la cosa per togliersi dall'imbarazzo di detenere simili armamenti; a questo si deve ancora arrivare.
Il balletto ginevrino ha dunque girato attorno a questa vecchia questione centrale di cosa l'Iran avesse o meno il diritto di arricchire, con entrambe le parti ad affermare che l'accordo sosteneva l'interpretazione del Trattato da esse presa per buona. Sicché la discussione non ha affrontato la questione più importante, che riguarda il potere in Medio Oriente. Le paure dei sauditi e dei sionisti superano il programma nucleare e la possibilità di una "capacità di arrivare a produrre velocemente armamenti": tutti gli stati che arricciscono il combustibile possono teoricamente arrivarci.
Jeremy Shapiro è stato funzionario al Dipartimento di Stato e nota che alla base dei timori sauditi "c'è l'Iran in quanto tale", in quanto possibile "piccola Cina" per il Medio Oriente, in quando modello per la governance islamica, e soprattutto per i potenziali effetti dello sciismo rivoluzionario sul potere della Casa dei Saud attualmente regnante. In un simile contesto le sanzioni internazionali contro l'Iran che hanno inibito le ambizioni del paese e la sua capacità di proiezione di potenza hanno rappresentato un fondamento della politica estera dell'Arabia Saudita. Da questo punto di vista un accordo sul nucleare non contribuisce certo alla riabilitazione dell'Iran: piuttosto, contribuisce a scatenare un pericoloso rivale, in grado di minacciare il regno e di danneggiarne gli interessi.
La secoda questione sul tavolo a Ginevra è stata dunque quella delle sanzioni, e non tanto perché le sanzioni siano servite ad ostacolare il programma nucleare iraniano, perché non ci sono riuscite e l'Iran è diventato, qualunque significato si voglia dare all'espressione, uno stato nucleare sottoposto a sanzioni. Si è discusso delle sanzioni internazionali perché, insieme all'isolamento politico, costituiscono una pastoia che agisce nel lungo periodo e che ha permesso fin qui allo stato sionista e all'Arabia Saudita di mantenere il predominio.
Il punto è che la prassi sin qui adottata, che consiste nel richiedere all'Iran di fornire prove della propria "non intenzione" di sviluppare armi nucleari unita ad un'esagerata insistenza occidentale sul mantenimento delle sanzioni costituisce in sé una struttura rigida, ma aperta alla malevola azione di una lobby che, esprimendo una serie di "preoccupazioni" -del tipo che abbiamo visto in Iraq- agisce perché le sanzioni restino in vigore. Il punto debole è anche in questo caso quello della sovranità nazionale. E chi rema contro l'accordo sa come premere su questo tasto, facendo presenti "problemi" che possono essere risolti soltanto con sensibili intromissioni a scapito della sovranità, come nel caso iracheno. Questo modo di frapporre ostacoli, che consente di ribadire pretese e relative sanzioni, è stato introdotto nel processo quando i tre paesi dell'Unione Europea appartenenti al gruppo dei "cinque più uno" hanno chiesto all'Iran di dimostrare le proprie intenzioni, all'indomani del fallimento del colloqui di Parigi.
L'obiettivo dell'Iran a Ginevra era quello di mettere le cose in chiaro con l'Occidente, specificando nero su bianco le regole del gioco. Se l'Iran darà soddisfazione su tutte le questioni inerenti il nucleare, gli sarà permesso di prendere il posto che gli spetta come paese popolato di persone ben istruite, ricco di risorse e potente, nonché generosamente dotato di petrolio e gas naturale?
Questa è la vera sostanza dei negoziati, anche se il linguaggio usato si è ammantato del gergo tecnico inerente il ciclo del combustibile nucleare. Ed è su questo punto, effettivamente, che c'è da preoccuparsi.
Gareth Porter è un affidabile commentatore in materia di sicureza nazionale e di nucleare in genere; nota che "A poche ore di distanza dalla sigla dell'accordo ci sono già indizi, provenienti da funzionari superiori, che fanno pensare che l'amministrazione Obama non sia del tutto intenzionata ad arrivare ad un accordo definitivo che comporti la completa decadenza delle sanzioni. Pare che l'amministrazione abbia maturato qualche riserva su un accordo del genere, nonostante le concessioni del governo del Presidente Hassan Rouhani, che si spingono molto più in là di quanto si potesse prevedere pochi mesi or sono".
Ironicamente, le mosse compiute dal governo Rouhani per rassicurare l'Occidente possono aver rinfocolato le speranze di una parte dei funzionari superiori dell'amministrazione Obama che gli Stati Uniti possano arrivare all'obiettivo minimo di ridurre la capacità iraniana di sviluppare velocemente armi nucleari senza dover giocare le proprie carte migliori, che sono le aspre sanzioni sull'esportazione di petrolio e sul settore bancario.
A dare ad intendere di qualche incertezza statunitense per arrivare ad un accordo definitivo è stato un incontro tra funzionari superiori statunitense che ha fatto seguito ad una conferenza stampa tenutasi lo scorso sabato a Ginevra. Per teleconferenza, i funzionari hanno ripetutamente suggerito che la questione era del "se" si sarebbe arrivati ad un accordo definitivo, piuttosto del come arrivarci.
La stessa fonte, prima di parlare, ha specificato che "per quanto riguarda l'accordo definitivo, noi non riconosciamo all'Iran il diritto di arricchire l'uranio".
L'ignoto funzionario, durante l'incontro, per altre tre volte ha fatto riferimento ai negoziati per arrivare ad una soluzione definitiva, specificati nell'accordo poi siglato domenica mattina, come ad come ad una questione ancora aperta più che come ad un obiettivo della politica statunitense.
"Verificheremo in futuro se possiamo arrivare ad un accordo definitivo che consenta all'Iran di avere energia nucleare per uso pacifico", ha affermato uno dei funzionari.
Non c'è dubbio sul fatto che queste affermazioni siano in parte frutto della necessità del governo statunitense di immunizzarsi contro le accuse di cedevolezza cui è ormai abituato. Il loro scopo è quello di togliere mordente alle critiche sul fronte interno più che di riflettere il contenuto che sta transitando sulla linea di comunicazione con la controparte, e ci sono indicazioni piuttosto chiare sul fatto che, al contrario, l'Iran ha ricevuto rassicurazioni di un qualche genere sul fatto che in futuro gli verrà permesso di arricchire uranio per uso pacifico. Non c'è tuttavia da dubitare che il tenore dell'incontro ospitato a Washington abbia avuto l'effetto contrario sul gran numero di iraniani che sono scettici, profondamente scettici sulla buona fede con cui l'AmeriKKKa ha affrontato i colloqui, temendo si ripeta quello che successe ai colloqui del 2004-2005m quando i tre dell'Unione Europea finirono per rivelare di essere contrari all'arricchimento tout court. Più seriamente, è ad incontri come questo che stavamo riferendoci quando abbiamo scritto che l'amministrazione statunitense rischia di trovarsi chiusa in difesa su una posizione che non riguarda in nessun modo questioni concrete, ma che si attiene a materie strettamente inerenti il nucleare in cui quanti sono contrari all'accordo troveranno modo di infilare le proprie manipolazioni, come a suo tempo in Iraq. Il settore in cui i contrari all'accordo hanno ottenuto la loro piccola vittoria è questo.
Da una parte troviamo dunque la questione tecnica sul nucleare, e questo non possiamo ignorarlo. A fare da contrappeso c'è però un'ottica più ampia che considera il ruolo futuro dell'Iran in quanto storica potenza regionale, e tiene presenti i settori in cui Iran ed Occidente condividono interessi in comune, che sono molti. Obama, contrariamente al suo consueto stile, dovrà agire di polso in sede negoziale se vuole che gli Stati Uniti non scivolino nello sterile copione delle dottrine formulate da Wohlstetter negli anni Sessanta. Obama deve fare in modo che al centro dei colloqui ci sia la questione fondamentale, ovvero l'equilibrio dei poteri in Medio oriente, e fare in modo che i negoziati non si arenino sulle questioni tecniche. Se non si tiene presente che c'+ in ballo il futuro del Medio Oriente, non si arriverà nemmeno ad un risultato tecnico perché l'Iran non farà altro che ritirarsi dal negoziato.
E' chiaro che gli Stati Uniti intendono arrivare ad un nuovo equilibrio in Medio Oriente, in cui nessun paese otterrà sostegno indiscriminato e per giunta influenza sulla politica ameriKKKana, L'AmeriKKKa intende fare un passo indietro: si sta autolimitando a pochi e ben definiti obiettivi ed organizzerà il proprio coinvolgimento esclusivamente in funzione di questi limitati intenti.
Gli ameriKKKani fanno pensare che lo stato sionista e l'Arabia Saudita non potranno far altro che prendere atto della nuova dottrina politica: gli Stati Uniti continueranno ad appoggiare i sionisti ed i sauditi, ma solo nel contesto tracciato dal nuovo equilibrio tra poteri regionali oggi in via di definizione, modellato essenzialmente attorno ai due poli regionali dell'Iran e dell'Arabia Saudita. I funzionari statunitensi sanno che l'Arabia Saudita e lo stato sionista non considereranno le nuove disposizioni come esattamente confacenti ai loro desideri, abituati come sono ad ottenere sempre e comunque l'appoggio degli Stati Uniti, ma i funzionari stessi affermano che entrambi i paesi dovranno adattarsi; dopo tutto, a chi altro possono rivolgersi?
Se queste sono le motivazioni inespresse che stanno dietro le dichiarazioni dei funzionari statunitensi su un accordo definitivo che non faccia cadere le sanzioni più dure contro l'Iran, magari intese come un contrappeso in favore della più debole Arabia Saudita, si deve pensare che i sauditi disperino adesso di trovarsi in cima alla lista nella politica statunitense.
Qualcuno davvero pensa che le cose sarebbero rimaste com'erano, viste le condizioni di una regione in via di disintegrazione e di frammentazione? Il Medio Oriente si trova in condizioni di estrema volatilità e disgregazione, e contenere o controllare concretamente le dinamiche in atto è al di là delle potenzialità di qualsiasi stato sovrano o di qualsiasi costrutto che implichi un equilibrio dei poteri. Gli eventi si prenderanno gioco di ogni centro di potere: è questo il contesto in cui i sauditi hanno tutte le ragioni per mostrarsi timorosi.