In dieci anni l'attualità di questa vignetta non è certo venuta meno.
Traduzione da Conflicts Forum.
Certe cose le abbiamo già sentite parecchie altre volte. Ci risiamo con una "ultima possibilità" per una soluzione basata su due stati, e magari con "l'ultimissima" possibilità per la "pace" tra palestinesi e stato sionista? Perché dovrebbe essere una cosa diversa, stavolta? Il Segretario di Stato Kerry sta esercitando pressione con successo su Bibi Netanyahu perché faccia concessioni -vale a dire si dica d'accordo per la costituzione di uno stato palestinese- che non ha mai voluto fare prima?
I politici europei, che hanno solo una vaga idea di quello che sta venendo fuori dai negoziati dal momento che non possono intromettersi in prima persona negli scambi tra Kerry e Netanyahu, pensano che nonostante tutto stavola le cose potrebbero andare diversamente. E magari potrebbero avere ragionie; peccato che l'ottimismo europeo abbia dalla sua più che altro l'interpretazione che gli europei fanno del fuoco di fila di insulti e del tiro incrociato che hanno luogo a Tel Aviv. A far loro pensare che stavolta gli ameriKKKani potrebbero averla vinta è soprattutto questa tensione politica interna allo stato sionista; in ogni caso, gli europei non si trovano in una posizione tale da poter tratte conclusioni a freddo sulle prospettive possibili, dal momento che non conoscono i dettagli dei colloqui a porte chiuse.
AmeriKKKani ed europei sentono anche che i palestinesi si trovano probabilmente nelle condizioni di maggiore debolezza, dai tempi della prima guerra del Golfo; lo si capisce dalla raffica di concessioni che il Primo Ministro Abbas ha dovuto fare. Sentono che Hamas si è spaccato ed è arrivato sull'orlo della scissione a causa dei calcoli sbagliati sulla situazione politica siriana -che hanno privato Hamas di tre alleati fondamentali- e dei massicci attacchi egiziani contro il movimento di Gaza. Gli europei capiscono anche che le pressioni esercitate sui traffici delle colonie sioniste con l'Europa stanno facendo effetto, innescando il timore che si prospetti un futuro disconoscimento della legittimità dello stato sionista. Kerry sta pestando forte su questo punto, nonostante in patria l'aver messo sul tavolo l'argomento gli sia costato reazioni siano state piuttosto pesanti. Quello che è chiaro per tutti è che gli Stati del Golfo vogliono che i sionisti facciano la pace coi palestinesi ad ogni costo, e per questo sono pronti a forzare la mano di Abu Mazen.
Tutto questo contribuisce a definire un quadro complessivo che fa pensare che stavolta gli Stati Uniti potrebbero anche farcela. Kerry ha tenuto presente la pretesa di Netanyahu che la sicurezza dello stato sionista venga prima di ogni altra cosa, presentandogli un piano statunitense per la West Bank; ha preso in considerazione la pretesa sionista che lo stato sionista venga riconosciuto come stato-nazione del popolo ebraico, si è detto d'accordo con l'istanza sionista secondo la quale ogni accordo va considerato provvisorio, e non finale o definitivo come i palestinesi avrebbero voluto, ha accettato senza commenti la richiesta dei sionisti di mantenere una presenza nella Valle del Giordano per almeno cinque anni, in un contesto in cui il temporaneo finisce spesso per diventare permanente, e infine si è dichiarato d'accordo sul fatto che di diritto al ritorno per i palestinesi non si parli neanche più. Kerry ha fatto proprio anche l'assunto secondo cui la capitale palestinese non deve essere Gerusalemme, ma una qualche località compresa nella Grande Gerusalemme.
In breve, Kerry ha fatto di tutto e di più per rassicurare lo stato sionista per quanto riguarda la sicurezza; si è spinto ben oltre qualunque "linea rossa" palestinese. Per quale motivo non si dovrebbe arrivare ad un accordo? Perché i sionisti non colgono al volo l'occasione, adesso che Kerry ha adottato quasi del tutto le posizioni di Netanyahu?
Quasi di sicuro, alla fine verrà fuori un documento: c'è comunque la probabilità che tutto il fare la spola di Kerry non porterà ad altro che ad una riproposizione dei parametri dei tempi di Clinton; linee guida generiche per i negoziati cui le parti dànno un assenso altrettanto generico intanto che avanzano riserve circostanziate che tolgono ogni significato ai parametri di cui sopra, come già successo con la roadmap e ai tempi di Clinton. In questo modo un'altra "ultima possibilità" per la pace finirà probabilissimamente per diventare semplicemente un documento in una successione di documenti, destinato a gettare le basi per una futura ed ulteriore tornata del cosiddetto "processo di pace".
Perché le cose dovrebbero andare in questo modo? Perché gli eventi dovrebbero mostrarsi così elusivi, così irrispettosi degli sforzi ameriKKKani? La risposta forse si trova nel modo in cui il "processo di pace" è stato concepito sin dall'inizio; un modo che si è rivelato errato ma che è diventato una specie di icona dottrinale, all'interno del quale semplicemente non esiste posto per le critiche.
La premessa del processo di pace è sempre stata il fatto che lo stato sionista debba necessariamente cercare di conservare una maggioranza ebraica all'interno dei propri confini. Col passare del tempo e con la crescita della popolazione palestinese, lo stato sionista si ritroverà ad un certo punto in condizioni di dover dare il proprio benestare ad uno stato palestinese, anche solo per mantenere una maggioranza ebraica al proprio interno. Questo significa che soltanto consentendo ai palestinesi di avere un proprio stato, e liberando dunque parte della popolazione palestinese che controlla, lo stato sionista può conservarsi a maggioranza ebraica.
Questo semplice assunto è alla base della dottrina che mette la sicurezza avanti ad ogni altra cosa. Venendo incontro alle necessità di sicurezza dello stato sionista così come esso le concepisce e che vengono intese come la principale cosa cui ottemperare, esso consentirà allo stato sionista di guardare con fiducia alla soluzione basata su due stati, cosa che all'epoca era dato ampiamente per scontato fosse nei suoi interessi. Per tutti gli ultimi ventun anni si è pensato che la "soluzione" del problema palestinese passasse dal rafforzamento della sicurezza dello stato sionista. L'iniziativa di Kelly, come si può vedere, si basa per intero su questo stesso assunto.
Eppure, lo stato sionista non si è mosso in nessun modo per far fronte all'evidente fenomeno in corso, nonostante le opportunità nel corso degli ultimi diciannove anni non siano certo mancate; non si è messo al riparo dalla demografia e men che meno sembra disposto a "concedere" oggi ai palestinesi un loro stato. Ci si chiede a volte come mai ancora i due stati non si siano concretizzati, nonostante la logica sia così stringente.
Non è che sono sbagliati sia la premessa originaria secondo cui "lo stato sionista ha sicuramente necessità che esista uno stato palestinese", sia il suo corollario secondo il quale la promozione della sicurezza sionista è la conditio sine qua non per arrivare ad una soluzione basata su due stati? Non è che lo stato sionista, forse, ipotizzava qualcosa di alternativo rispetto a quello che si prospettava come l'inevitabile delinearsi di due stati sovrani con eguali diritti politici per tutti i cittadini? In concreto, le azioni sioniste sul terreno non fanno assolutamente pensare che lo stato sionista si sia mai accinto in alcun modo a preparare la transizione verso una soluzione basata sull'instaurazione di due stati con frontiere nettamente stabilite e con uno stato palestinese sovrano. Non si è neppure abbozzato un piano per una definitiva separazione e per l'autonomia di due apparati infrastrutturali differenti; tutt'altro. Al contrario, tutto fa pensare l'opposto: ovvero che si sia affossata in ogni modo la soluzione che prevedeva l'instaurazione di due stati dai confini definiti.
Tutto questo fa pensare che lo stato sionista abbia idee tutte diverse, e contrastanti con quelle che il consesso internazionale ha sempre preso per buone.
Secondo il professor Mushtaq Khan i negoziati di Oslo si basavano su un assunto fondamentale, ovvero che i margini di negoziazione per i palestinesi fossero semplicemente privi di qualunque rilevanza. Khan scrive anche che "Tutti sapevano voe si sarebbe andati a parare. Alla fine, la soluzione basata su due stati si sarebbe fatta strada perché la potenza dominante... l'avrebbe accettata, perché concideva con i suoi interessi... [e] questo era l'unico modo con cui lo stato sionista poteva assicurare al sionismo una base demografica".
Il professor Khan rilevò che la presunta inevitabilità dell'instaurazione di uno stato palestinese era insita nella struttura dei colloqui, che si tennero per intero come se si trattasse di un esercizio di costruzione della fiducia piuttosto che di un negoziato serio, basato su poteri di negoziazione. "Ci si siede al tavolo, ci si conosce l'un l'altro [e] non ci si preoccupa più di tanto... alla fine, saranno loro [i sionisti] a darci quello di cui abbiamo bisogno".
In verità le cose non sono certo andate in questo modo. E' sempre Khan a spiegare: "Fin dall'inizio sapevamo che Oslo non avrebbe funzionato.. Dopo la firma ad Oslo, lo stato sionista non si è staccato dai territori palestinesi occupati. Di fatto, lo stato sionista ha invaso in maniera sempre più rilevante i territori. Ha siglato trattato dopo trattato per prendere il controllo sulle variabili fondamentali dell'economia palestinese: il commercio estero, le tasse, la valuta, i movimenti della mano d'opera... L'integrazione con lo stato sionista ha un carattere singolare: non è né un'integrazione né una separazione, ma un contenimento [asimmetrico] le cui condizioni sono definite dallo stato sionista. Questo significa che lo stato sionista ha dilagato nei territori palestinesi occupati e cerca di controllarli dall'interno. Perché mai fare una cosa del genere, se [davvero si ha l'intenzione di] tornare ai confini del 1967? Che logica ci sarebbe?"
In concreto, si faceva strada una logica ben diversa. Una logica che non teneva in alcun conto il punto di partenza di una inevitabile costituzione di uno stato palestinese, e che ai sionisti pareva aprire la possibilità sul piano politico di evitare ai loro leader il grattacapo di come mantenere lo stato sionista come patria per tutti gli ebrei su un territorio fisico che comprendeva una numerosa popolazione palestinese.
Le implicazioni di quest'ultimo punto arrivano al nocciolo del calcolo fatto dallo stato sionista sul vantaggio di statuire una Palestina racchiusa in frontiere internazionalmente riconosciute. Il problema principale è proprio quello delle frontiere nette, e di quello che significano per lo stato sionista. La soluzione dei due stati non permette di risolvere facilmente il problema di come mantenere "una patria per gli ebrei", anzi, minaccia di aggravarlo. Tzipi Livni lo ha detto chiaramente nel 2008 a dei negoziatori palestinesi, nel corso di una precedente tornata di colloqui: "lo stato sionista è stato fondato per diventare la patria degli ebrei di tutto il mondo. Un ebreo ottiene la cittadinanza appena entra nello stato sionista, dunque non dite nulla sulla natura dello stato sionista... Il fondamento dello stato sionista è che esso esiste per il popolo ebraico... Lo stato sionista è lo stato del popolo ebraico, e mi preme sottolineare che "il suo popolo" è il popolo ebraico... Il vostro stato costituirà la risposta alle necessità di tutti i palestinesi, compresi i rifugiati" [il corsivo è nostro, n.d.a.].
In tutto il territorio della Palestina storica costituito dallo stato sionista e dai territori occupati la percentuale di popolazione palestinese può passare dal 40-50% al 20% rispetto a quella ebraica, proclamando uno "stato palestinese"; tuttavia la vulnerabilità politica intrinseca al fatto che rimarrebbe una popolazione palestinese non ebraica a diritti ridotti in uno stato ebraico rimarrebbe in ogni caso. E questo venti per cento, che diventa un quaranta o cinquanta per cento senza la proclamazione di uno stato palestinese, sarà comunque costituito da cittadini di second'ordine, non foss'altro che per il fatto che innanzitutto si dovranno fornire fisicamente abitazioni, terra, acqua ed altre risorse ad ogni ebreo che deciderà di esercitare il proprio "diritto al ritorno" nella propria "patria".
Se si devono mettere in conto diritti differenziati per il quindici o il venti per cento della popolazione e rischiare così di farsi delegittimare come stato fautore dell'apartheid -cosa che si verificherebbe certamente- perché non tenere nelle stesse condizioni il trentacinque o il quaranta per cento della popolazione, e al tempo stesso rispettare la visione sionista nella sua interezza mantenendo il controllo della West Bank o almeno di gran parte di essa? Il pensiero sionista desidera forse avere da qualche parte delle frontiere precise, da un punto di vista strategico? La risposta è no. Lo stato di ambiguità intrinseco nell'avere delle frontiere indefinite permette margini di manovra più ampi. In fin dei conti, che cosa guadagnerebbe lo stato sionista dall'abbandono di alcuni territori quando dovrebbe comunque dare agli occhi del mondo una spiegazione del perché continui a mantenere una quota significativa dei propri cittadini in condizioni di minorità, e affrontare le montanti accuse di apartheid? A meno che, ovviamente, non si riescano a convincere i palestinesi e la comunità internazionale a dirsi innanzitutto d'accordo sul fatto che lo stato sionista è "lo stato-nazione e la patria degli ebrei".
Il punto è proprio questo. Per i palestinesi sottoscrivere -come viene loro chiesto- una cosa del genere significa legittimare e sorvolare su tutte le sofferenze, sulla dispersione e sullo sradicamento dalle loro antiche terre che hanno dovuto subire perché questa "patria" venisse costruita; finirebbero per sostenere la subordinazione in stile apartheid dei palestinesi rimasti al di là della Linea Verde, e dal momento che la definizione di Netanyahu parla di una patria per tutti gli ebrei (e non per quelli che si trovano oggi nello stato sionista) si apre anche la questione di come impedire che le falde acquifere e le altre risorse condivise vengano sfruttate fino all'esaurimento dal travolgente "diritto al ritorno" degli ebrei, laddove di "diritto al ritorno" dei palestinesi non si parla neppure. I palestinesi non ci staranno. Una formula come questa, intesa come viene intesa oggi, dimostra che dall'esperienza del Sud Africa non si è imparato niente. Quello della riconciliazione è innanzitutto un processo psicologico, e non una questione politico-legale come invece la si intende oggi.
Le tensioni politiche interne allo stato sionista, chiare anche agli occhi degli europei ed alla base del loro ottimismo di questi tempi sono nella loro essenza probabilmente più complesse di quanto potrebbero esserlo se fossero solo il risultato del fatto che gli Stati Uniti stanno per arrivare ad una soluzione del problema. Le tensioni politiche esplose dopo la missione di Kerry sono con ogni probabilità il frutto di un disaccordo profondo, vivo nello stato sionista, sul fatto che Netanyahu abbia anche solo affrontato assieme a potenze esterne la questione della patria ebraica, sul fatto che abbia chiesto a palestinesi e a non ebrei di dare ad essa il loro "riconoscimento". La maniera sionista consiste nel fare le cose e basta, nel costruire dati di fatto sul terreno, piuttosto che nel cercare la "legittimazione" da parte di chissà chi. In questo senso, Netanyahu ha aperto ad un'intromissione esterna il sensibile dibattito su che cosa dovrebbe costituire al giorno d'oggi la base stessa del sionismo. All'interno dello stato sionista, è una questione che divide profondamente, una questione persino esplosiva. Le fibrillazioni della politica interna notate dagli europei potrebbero riguardare più questo argomento che non un qualche segnale sull'imminente accettazione di uno stato palestinese da parte dello stato sionista.
I vertici della politica sionista e di quella palestinese, sia pure per motivi diversi, probabilmente non sono in grado sul piano politico di arrivare ad una vera soluzione: "non hanno nulla da mettere sul tavolo". I sionisti in genere non vedono perché dovrebbero fare concessioni ai palestinesi: ai loro occhi, i musulmani di tutto il Medio Oriente "si stanno scannando a vicenda"; Siria, Iraq ed Egitto sono deboli, l'Iran sta dialogando con gli Stati Uniti, le difese dello stato sionista non sono mai state così forti e i palestinesi sono tranquilli e divisi. Perché mai turbare questa situazione? Allo stesso modo, anche ai vertici di al Fatah, sono in pochi a credere che le "misure rassicuranti" che Kerry ha in mente per lo stato sionista siano qualcosa di più che una svendita della causa palestinese. Comunque, è in corso uno scaricabarile. Abu Mazen offre concessioni cui non può ottemperare, per mettere i bastoni tra le ruote a Netanyahu; Netanyahu invece usa il riconoscimento della patria ebraica come un ostacolo che pensa insuperabile per Abu Mazen. Entrambi sperano che in questa specie di melina nessuno dei due rimarrà con il cerino in mano.
Ed anche un Segretario di Stato ameriKKKano, una volta tornato a casa, può trovarsi a cozzare contro dei limiti sia per la pressione che può esercitare sui vertici della politica sionista, sia per lo scetticismo che a Washington si nutre sul fatto che valga la pena di farsi ulteriormente coinvolgere nella diatriba tra sionisti e palestinesi.
Che succede se quest'ultima schermaglia finisce per produrre un documento che entrambe le parti terranno riservatissimo, ma che contiene comunque dei "termini di riferimento"? Probabilmente non succede gran che, almeno nel prevedibile futuro. Non esistono molte prove a favore del fatto che sia in preparazione un'altra intifada. Abu Mazen potrebbe dimettersi, e i palestinesi potrebbero a quel punto provare la delizia di concedersi a quel Mohammad Dahlan privo di ogni scrupolo, che i paesi del Golfo hanno preparato per loro. Nello stato sionista, le istanze pacifiste sono appassite da un bel po'. E gli stati mediorientali, per adesso, sono più attenti a guardarsi l'ombelico che non ad impegnarsi per la causa palestinese. Peccato per i palestinesi.