Barricate filorusse a Donetsk nell'aprile 2014 (fonte: The Telegraph).
Traduzione da Conflicts Forum.
La scorsa settimana abbiamo sottolineato come tutte le più importanti questioni di politica mediorientale del Presidente Obama avessero girato in aceto all'improvviso, proprio alla vigilia del breve viaggio di Obama e Kerry nella regione. E' stato come se gli Stati Uniti fossero rimasti vittime di una epidemia di scarogna, e forse le cose sono andate in questo modo: per molti dei massimi politici della zona, che pure hanno punti di vista molto differenti tra di loro, la distonia tra la realtà oggettiva che si sta vivendo in Medio Oriente (il collasso di uno status quo consolidato, con lo scatenarsi delle forze distruttive che questo ha liberato) e la realtà virtuale costituita dall'interpretazione occidentale degli stessi eventi filtrata con l'ottica dell'Illuminismo è diventata troppo grande da sostenere. Il punto fondamentale è questo, anche se ci sono differenze marcate in come ciascun leader politico definisce questa realtà e i demoni ad essa associati. Detto in maniera semplice, i paesi occidentali si pensa abbiano poco da offrire, a fronte di un intero "sistema" -quello arabo- che si sta sgretolando e che sta andando in pezzi e a fronte della paura che ha preso il sopravvento.
Che cosa è cambiato dunque, dopo una settimana di intenso lavoro diplomatico ameriKKKano? Eloquentemente poco. Il Presidente Obama è andato a pranzo con Re Abdullah: è stato come se una coppia formata da soggetti ormai estranei l'uno all'altro si fosse ritrovata per cercare di porre un qualche rimedio al fallimento del proprio matrimonio. Dalle parole educate e dalle dichiarazioni confidenziali in cui la coppia dice di aver deposto ogni irritazione e ogni divergenza sul conto di un legame in cui non si riconosce più emerge con chiarezza una cosa: non ci sarà (ancora) alcun divorzio, ma ci sarà una separazione. La visita di Obama "è stata più un cerotto che una cura vera e propria per i contrasti che esistono tra i due paesi". Essi manterranno rapporti decorosi davanti agli altri, ma in privato ciascuno di essi andrà per la sua strada, libero se del caso di scegliersi un amante differente.
Nel campo dei rapporti tra palestinesi e stato sionista, è evidente che né gli uni né l'altro considerano o intendono considerare la soluzione che al momento va per la maggiore, quella basata sui due stati, quanto il mediatore John Kerry vorrebbe che facessero. Il fatto che riguardo ad una possibile soluzione il mediatore si mostri più coinvolto e più entusiasta di chi è direttamente coinvolto nel problema non è mai stato un buon segno. L'idea che predomina in giro è che il processo di pace sia giunto ad un punto morto, ma questo non è molto probabile. E' la formula dei due stati che è vecchia di vent'anni e che per un po' è giunta a un punto morto laddove prevede l'instaurazione di uno stato palestinese sovrano e indipendente; tuttavia, i leader di entrambe le parti hanno bisogno di un processo di pace di un qualche genere, per trarne un qualche utile. Sembra probabile tuttavia che questo processo di pace consista nell'indebolire progressivamente la posizione palestinese a suon di contentini (per esempio, con qualche scambio di prigionieri) e che finirà per provocare il rovesciamento della leadership palestinese. I palestinesi non sono mai stati tanto deboli, tanto poveri di autostima, tanto a corto di carte da giocare che è difficile pensare che questo "processo di affossamento del processo di pace" possa durare indefinitamente. Ci sarà un sovvertimento di palazzo, come successo a Yasser Arafat. La cosa peggiore è che sarà probabilmente Mohammed Dahlan a venir foraggiato dall'estero per occuparsi della cosa.
I negoziati con la Repubblica Islamica dell'Iran somigliano ogni giorno di più ai negoziati con i palestinesi: sono un "processo di affossamento del processo di pace", come lo hanno chiamato gli ambienti dell'opposizione conservatrice iraniana sin dal loro primo abbozzo. Le dichiarazioni di alcuni funzionari di alto livello dell'amministrazione statunitense fanno pensare che la "soluzione" non sarà ampia come annunciato all'inizio, e non contemplerà una completa caduta del regime sanzionatorio; alcune sanzioni -diciamo pure molte- sono destinate a rimanere: "Wendy Sherman ha suggerito per la prima volta che c'è la possibilità che il processo abbia un esito meno che completo e meno che totale". Sembra che il governo statunitense, proprio come nel caso dei colloqui con i palestinesi, si sia accontentato di fare il gesto simbolico di approntare una "road map" per passarla poi a chi seguirà, invece di andare alla sostanza della cosa perché farlo avrebbe significato una levata di scudi da parte dell'opposizione politica ameriKKKana ed un potenziale smacco per il governo stesso.
Dopo l'incontro tra Obama ed il re saudita Abdullah, anche per la Siria pare ci si trovi in un contesto gattopardesco. David Ignatius riferisce in termini assai vaghi che il Presidente Obama sembra intenzionato ad estendere gli aiuti sotto copertura all'opposizione siriana, ma soltanto perché servano ad esercitare pressioni su Assad affinché prenda i negoziati più seriamente. Chi decide la rotta a Washington sa benissimo che inviare qualche mitra in più a questi "moderati" che non si sa neanche bene cosa siano, è un gesto privo di effetti.
In Medio Oriente ed in Afghanistan, il risultato di una settimana di contatti diplomatici è stato scarso. Per quello che riguarda l'Ucraina, è verosimile che gli Stati Uniti si sitano man mano risolvendo a raffreddare la situazione e che il risultato finale sarà una sorta di federazione dai legami ampi, non allineata e che consenga una sostanziale autonomia a tre regioni distinte.
Ora, è proprio questo il campo in cui sono implicite le potenzialità di cambiamento di più vasta portata, anche per il Medio Oriente: l'Ucraina e le relazioni tra Stati Uniti e Russia. Obama sta cercando di raffreddare le tensioni con Putin senza troppo chiasso, ma è uno sforzo che ha i suoi oppositori. Oltre ai ben noti sostenitori della guerra fredda interni al governo, un esperto di lungo corso in materia di difesa, l'inglese Richard Norton Taylor, ha scritto: "Secondo un ex segretario alla Difesa di Sua Maestà che si riferiva ai diffusi timori circa il futuro dell'alleanza militare occidentale, 'l'operato di Putin in Crimea per la NATO è stato una specie di frustata' ".
Norton Taylor prosegue scrivendo che "Il timore era che con la fine delle operazioni di combattimento in Afghanistan sostenute dalla NATO, prevista per quest'anno, l'alleanza si ritrovasse senza niente da fare e che i suoi membri situati nell'Europa occidentale operassero ulteriori tagli alle spese per la difesa". Secondo il professor Malcolm Chalmeers, del think tank londinese Royal United Services Institute, "Al quartier generale della NATO si spera che gli avvenimenti in Crimea e in Ucraina siano una scossa per i governi dei paesi membri e facciano loro abbandonare un atteggiamento che i funzionari considerano connivente. Dopo tante dispute sul perché della NATO in Afghanistan, la crisi in Crimea ha fornito all'alleanza una nuova ragione di esistere. Se Putin attaccasse il territorio di uno stato membro, come la Polonia o la Lettonia, gli altri paesi della NATO compreso il Regno Unito sarebbero obbligati a rispondere militarmente".
Non è assolutamente realistico che nei confronti della Russia si arrivi a tanto, ma resta il fatto che l'Ucraina rimane in condizioni di volatile instabilità. Se le cose in Ucraina peggiorano e si arriva alla guerra civile, alla Russia non resterà molto altro da fare se non intervenire per proteggere la popolazione russa. In questo caso la NATO e le lobby delle armi useranno senz'altro questa scusa per spremere ogni dollaro che possono in favore delle spese militari, e in favore di una ampliata ragion d'essere della NATO basata sul pretesto della risorta minaccia russa.
La strategia di de-escalation di Obama è rimasta molto indigesta alla lobby degli armamenti, dai gruppi di pressione della NATO fino ai nostalgici della guerra fredda; lo si nota anche da eventi all'apparenza non collegati e che si verificano all'interno del sistema ameriKKKano: la scorsa settimana J.P. Morgan ha bloccato un trasferimento di denaro proveniente dalla Russia, "col pretesto delle sanzioni antirusse imposte dagli Stati Uniti".
A differenza delle sanzioni fin qui imposte alla Russia dall'Occidente, considerate in larga misura uno scherzo dall'establishment russo, in questo caso in Russia sono davvero andati su tutte le furie. Secondo Bloomberg il ministero degli esteri russo ha bollato la decisione della J.P. Morgan come "illegale e assurda". L'operazione è stata sbloccata, ma se così non fosse stato si sarebbe potuti arrivare sia ad una guerra delle valute, con la Russia che smette di usare il dollaro per il mercato dell'energia, e ad una ritorsione statunitense diretta contro le forniture russe di petrolio e gas (cosa già invocata da qualcuno, al Congresso).
Non c'è dubbioe che il Presidente Obama non abbia alcuna intenzione di percorrere questa china, ma all'interno del sistema statunitense esistono anche un sacco di quelli che i russi e Putin conoscono come "destabilizzatori automatici": il NED (National Endowment for Democracy), USAID, il Dipartimento di Stato, la CIA, i gruppi lobbystici della K street e anche le forze speciali. Tutta gente che usa quei sistemi legati alle operazioni sotto copertura di cui una volta era la CIA ad avere l'esclusiva per destabilizzare i nemici dell'AmeriKKKa. Sono così tanti che fatti come questo di J.P. Morgan che decide in proprio di sanzionare le transazioni russe rimangono una possibilità concreta. In un caso simile, il Medio Oriente si troverebbe sulla linea del fronte sia nella guerra del dollaro, sia in quella dell'approvvigionamento energetico, che avrebbe implicazioni di vasta portata.
I paesi occidentali credono davvero alla loro stessa retorica, quando dicono che Putin ha mire espansionistiche e vuole ricostruire l'impero sovietico? E' questo quello che intendeva l'ex Segretario di Stato Hillary Clinton quando ha detto che il comportamento dei russi in Crimea somiglia a "quello che ha fatto Hitler negli anni Trenta"? Frank Furedi, interrogato da un giornalista russo sul perché l'Occidente rifiuta di ammettere o di riconoscere che le sue azioni possano aver avuto un qualche ruolo nella crisi in Ucraina, giunge "alla sconfortante conclusione che gli argomenti che stanno dietro l'attuale campagna di demonizzazione della Russia si basano su convinzioni sincere".
"Naturalmente c'è un sacco di propaganda, ci sono distorsioni deliberate ed anche un considerevole apporto di pura fantasia in questa campagna mediatica", scrive Furedi, "ma la posizione che essa esprime è stata così ben interiorizzata da tante persone in Occidente che ha finito per diventare, ai loro occhi, la realtà". In effetti, Obama nel suo discorso di Bruxelles non ha fatto altro che dar voce alla consueta narrativa di progresso storico lineare che porta verso valori illuministici condivisi. Quando Obama ha pronunciato il suo discorso, abbiamo pensato che fosse stato in qualche modo obbligato a farlo, anche solo per discostarsi dalla narrativa russa che indica la complicità dell'Unione Europea nella destabilizzazione dell'Ucraina. Furedi ammonisce che questo atteggiamento superficiale, fatto di moralismo vuoto, che sembra emergere dallo spirito del momento rappresenta un pericolo molto concreto di arrivare ad una escalation con la Russia, e dunque un pericolo per la stabilità mondiale.