Luglio 2014. Soldati russi manovrano un Sukhoi 25
appena arrivato alla base militare di Al Muthanna, presso l'aeroporto iracheno di Baghdad (Reuters)


Traduzione da Conflicts Forum.

La confessione sunnita ha sempre avuto un legame particolare con lo stato. Non stiamo parlando di un qualcosa come la Westfalia, che è omogenea dal punto di vista dell'identità nazionale, ma di qualche cosa di più complesso in cui confluiscono etnie diverse, sette e gruppi tribali tenuti insieme da una singola e forte autorità. I sunniti provano un senso di stretta connessione con lo stato, qualcosa che è sconosciuto altrove; con questo vogliamo dire che essi sentono di esser stati i fondatori dello stato, che lo stato sono loro e che allo stato essi appartengono. Di conseguenza gli sciiti sono spesso chiamati, in modo denigratorio e soprattutto dai sunniti, "i refrattari" (nei confronti dello stato sunnita) e vengono considerati troppo attaccati al loro particolare concetto di giustizia per essere adepti affidabili delle pragmatiche arti degli statisti. In poche parole, i sunniti considerano gli sciiti come gente potenzialmente disgregatrice, o addirittura rivoluzionaria, per natura. Gli sciiti dal canto loro pensano che i sunniti siano tanto pragmatici nell'esercizio del potere da perdere di vista la radicale componente spirituale insita nel messaggio dell'Inviato.
Il fatto è che negli ultimi anni gli stati sunniti non se la sono passata troppo bene. Tutti i modelli di governabilità presi ad esempio dai sunniti sono implosi o hanno sofferto discredito. Il mondo sunnita ha sofferto un processo di degrado e dal momento che l'identità sunnita è così strettamente legata al concetto di stato forte -l'ideale è dato dai primi anni dell'espansione islamica dopo la morte dell'Inviato- ad esso si è accompagnata una pari frammentazione psicologica, assieme alla profonda sensazione che il loro modo stesso di intendere la vita ed i loro valori culturali stessero venendo calpestati ed ignorati.
Tutto questo è successo proprio mentre gli ambienti sciiti vivevano invece un momento di rinnovata energia e la cosa ha contribuito ad aggravare il senso di sconforto dei sunniti. Non è dunque motivo di sorpresa constatare come i sunniti pensino di esser stati spodestati dalla posizione eminente che rivestivano "a buon diritto", né il fatto che provino frustrazione per quella che loro intendono come una deminutio capitis nella pianificazione dell'Islam e del Medio Oriente, né tantomeno il fatto che si sentano messi ai margini delle questioni che contano, e che accolgano la cosa con rancore.
Ora, in tutto questo c'è più immaginazione che realtà, il che non significa che se ne debba in alcun modo sminuire la valenza psicologica e politica. Infatti, quelli che  sono i modelli per lo stato sunnita sono in crisi sul serio: in Iraq i sunniti sono stati marginalizzati dalla vita pubblica, questo è innegabile. Tuttavia, non è corretto considerare in tutto il Medio Oriente -Siria compresa- i sunniti come vittime minacciate di sopraffazione dalla cappa culturale "straniera" che arriva dall'Iran. I sunniti sono la maggioranza, anche se non così schiacciante come spesso si pensa, e per lo più continuano a tenere le leve del potere politico ed economico. Solo che in Medio Oriente è in atto un processo di riequilibrio dei poteri ed è comprensibile che la cosa sia sconvolgente e causa di disordini.
La cosa più significativa dal punto di vista politico è che l'Europa e l'AmeriKKKa hanno fatto propria in modo così acritico la narrativa centrata sul vittimismo sunnita che la cosa ha fatto sì che assistessero con atteggiamento confuso e passivo all'ascesa del Da'ish, lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante. L'Islam sciita sta vivendo un'epoca di rinascita, ma sarebbe davvero semplicistico affermare che il malessere sunnita dipende soltanto da questo. I fallimenti interni al mondo sunnita ne sono causa almeno quanto la crescente fiducia in se stesso ostentata dall'Iran. Insomma, i sunniti sanno benissimo perché si trovano in certe condizioni e non si può incolpare sempre di tutto qualche forza che agisce dall'esterno.
D'altronde, ad uscire screditati dalle recenti sollevazioni arabe sono stati leader sunniti. La fine del contratto sociale sunnita che era al centro di tutto, alla quale ci è stato dato di assistere, non è stata certo colpa di qualche macchinazione ordita dall'Iran. Tuttavia, l'idea che le sofferenze dei sunniti siano causate soprattutto dall'Iran e dall'attivismo sciita è alla base di attribuzioni causali semplicistiche fatte proprie dagli europei e dagli statunitensi. Gli europei e gli ameriKKKani sono in realtà preoccupati -e ne hanno buoni motivi- per l'ISIL e per la rapidità con cui ha guadagnato terreno in Iraq, e sono rimasti impressionati per il sostegno di cui l'ISIL gode, sia a livello popolare tra i sunniti sia a livello politico tra certi paesi del Golfo. Un autorevole editorialista politico ha scritto che "I funzionari statunitensi hanno notato che l'ISIL ottiene un sostegno significativo dalla popolazione sunnita; il rischio è che si diffonda l'idea che gli Stati Uniti [potrebbero] intraprendere azioni anti sunnite [intervenendo a sostegno dell'Iraq]". Un ex ambasciatore del Qatar negli Stati Uniti ha diffidato il governo Obama dall'intervenire a fianco di Al Maliki perché la cosa verrebbe considerata come una dichiarazione di guerra da tutti gli arabi sunniti.
L'adesione alla narrativa dei sunniti che contempla l'assunto -privo di qualunque senso- secondo cui la nascita dell'ISIL è colpa di Assad e del settarismo di Al Maliki ha paralizzato fin dal primo momento le reazioni occidentali nei confronti delle richieste di aiuto che venivano dall'Iraq e ha messo la linea politica occidentali in condizioni fondamentalmente contraddittorie: gli Stati Uniti aumentano il sostegno finanziario agli insorti siriani, che sono il terreno fertile in cui l'ISIL è nato e da cui trae i propri armamenti, e al tempo stesso temporeggiano nell'offrire al governo iracheno un minimo di assistenza per sconfiggere l'ISIL.
Abbiamo già trattato della natura radicale dell'ISIL e del significato autenticamente rivoluzionario del suo approccio revisionistico alla storia, ma quello che è davvero importante per capire la rilevanza di significato dell'ISIL è lo spostamento paradigmatico dell'enfasi, che passa dalle azioni dell'Inviato stesso e dalle vicende di Medina, intese come modello di società, alle vicende del primo e del secondo califfo, rispettivamente Abu Bakr, da cui il "califfo" di oggi ha preso il proprio nome di battaglia, ed Omar. Questo cambiamento ci fornisce molte informazioni su come sia cambiato il pensiero di fondo e sul perché esso dovrebbe avere un fascino tanto esteso, al punto di coprire un pubblico sunnita che va dalla gioventù arrabbiata ai politici del Golfo.
Da una parte l'ideologia dell'ISIL sembra in grado di offrire ai giovani musulmani una soluzione romantica, eroica allo screditamento cui sono andati incontro i modelli di organizzazione statale di orientamento sunnita (si veda qui un eccellente brano in cui si tessono le lodi dell'ISIL per il modello di cittadinanza che propone... le critiche al sostegno espresso dall'Arabia Saudita e degli altri stati del Golfo verso l'ISIL e gli jihadisti radicali sono ridotte al minimo indispensabile).
Abu Bakr e Omar consolidaroo lo stato. Dichiararono guerra agli apostati e ai nemici di Dio e non ebbero alcuno scrupolo nell'uso della violenza più rude, ivi compresi il rogo e la decapitazione degli oppositori; nell'Iraq di oggi assistiamo ad atteggiamenti dello stesso tipo.
Solo che Abu Bakr ed Omar sono noti anche per aver messo in secondo piano i contenuti spirituali e radicali del messaggio dell'Inviato, delimitandone il complesso ed inserendolo nell'alveo dei costumi e della cultura araba prevalenti all'epoca. Non si trattava solo delle condotte da adottare in guerra, che erano quelle arabe tradizionali; anche il patriarcato tradizionale e la supremazia del maschio vennero reinseriti fra le interpretazioni e negli apparati di commento di quanto detto e fatto dall'inviato. I messaggi dell'Inviato in materia di relazioni sociali vennero mitigati con il recupero della cultura araba tradizionale, soprattutto ad opera di Omar.
Quando prendiamo in considerazione la letteratura dell'ISIL dobbiamo tenere presente il fatto che l'accentoposto sull'operato di Abu Bakr e di Omar fa pensare non tanto ad un ritorno al modello di Medina, che è quello cui pensano i Fratelli Musulmani e la maggior parte dei salafiti, quanto ad un modello di stato islamico che è pre-islamico in molte delle sue caratteristiche essenziali. Nella narrativa dell'ISIL la "comunità di Medina" intesa come modello sociale e politico, concretizzatosi durante la permanenza dell'Inviato in quella città, non ha spazio; così come non vi trova spazio la pretesa dei Fratelli Musulmani secondo cui le prime comunità di credenti avevano come fondamento la sovranità popolare. Nell'ISIL si trova un cambio di atteggiamento che costituisce un rimarchevole e significativo mutamento nell'Islam sunnita, qui rivolto verso concezioni pre-islamiche dello stato e della società.
In sostanza, l'ISIL sta spostando il paradigma dal periodo dell'Inviato, l'epoca di Muhammad, a quella immediatamente successiva, che è quella dell'impero islamico ed il cui ethos sostanziale e caratteristico era incarnato dall'efficacia sul piano militare. Fu nel contesto di questo spirito che i primi due califfi rimisero in auge molte delle concezioni pre-islamiche sul comando e sul combattimento.
Ai nostri giorni l'ISIL sta offrendo ai giovani musulmani un modello politico pre-islamico, che viene indicato come soluzione alla crisi che i sunniti stanno attraversando. Questo significa che la soluzione proposta dall'ISIL è rappresentata dall'Islam innestato su un modello di stato che è tradizionale arabo del periodo pre-islamico. Le figure di riferimento per chi governa sono Abu Bakr ed Omar.
Si tratta di un modello autocratico, che per giunta pretende una completa sottomissione; per chi si rifiuta c'è la pena di morte. Questo specifico aspetto, rappresentato dal ruolo centrale dell'autorità costituita, rende facile capire per quale motivo qualche autocrate del Golfo guardi con attenzione ad esso, e provi al tempo stesso repulsione per come l'ISIL nega i pilastri su cui poggia l'autorità di certi monarchi (si veda qui). L'idea romantica di "combattere per l'Islam" come fecero gli "studiosi combattenti" dei primi anni, e l'impegno totalizzante imposto da un ideale attiereranno sempre la gioventù, che già si vede intenta a strappare e a gettar via quanto c'è di corrotto e di putrefatto in una società degradata. 
In poche parole, l'ISIL è più una manifestazione di malessere psicologico e di frammentazione che una soluzione politica davvero praticabile. In questo momento può presentarsi come consonante alla psicologia di molti sunniti, ma è difficile pensare che la maggior parte dei sunniti rimarrebbe a lungo sotto l'autorità di un califfato del genere. In ogni caso si tratta di un modello in cui l'efficacia viene prima della moralità e che nasce affetto dallo stesso vizio fondamentale che ha colpito l'Islam sin dalle sue origini: l'opacità dei sistemi con cui viene scelto chi deve ricoprire la carica di califfo. La sua cartina di tornasole è l'efficacia, ma è probabile che verrà giudicato essenzialmente sulla base di quest'ultima caratteristica e che si troverà che lascia a desiderare.
In Arabia Saudita -cosa sottolineata in un editoriale di Abdulrahman Al Rashid, direttore di Al Arabiya e massimo editorialista allineato con lo establishment- la reazione ufficiale è che occorre una buona comprensione della minaccia rappresentata dall'ISIL perché è in corso una "autentica rivoluzione (sunnita) contro un'autorità ripugnantementye settaria" sia in Iraq che in Siria. L'ISIL è l'incarnazione della "rabbia dei sunniti" e questo ne ha fatto "una stella al botteghino" per i sunniti di tutto il mondo. ...Ovviamente, "se non fosse stato per Assad ed Al Maliki, né l'ISIL ne il Fronte Al Nusra sarebbero mai esistiti". Questo refrain saudita è la visione dei fatti che il mainstream occidentale ha fatto propria praticamente in blocco.
Abdulrahman fa pensare che l'Arabia Saudita sia in grado di confrontarsi con l'ISIL, ma che questo avverrà soltanto dopo -e soltanto se- "in Siria ed in Iraq si imporrà una soluzione politica", ovvero un rovesciamento dei governi in carica in grado di suscitare una mobilitazione sunnita di maggiore ampiezza. La politica settaria di Assad e quella di Al Maliki "hanno dato il via a questo caos. Dunque, la soluzione è rappresentata da governi centrali forti sia a Baghdad che a Damasco, appoggiati da ameriKKKani, europei e paesi mediorientali".
Una cosa è bene che sia chiara: Abdulrahman insiste sul fatto che Nouri Al Maliki deve essere rimosso dalla carica, ma non sta certo proponendo che sia un altro sciita a prendere il suo posto, come sarebbe logico che succedesse in un panorama politico come quello presente in cui gli sciiti sono il sessanta o il sessantacinque per cento dell'elettorato. Abdulrahman vorrebbe che si rovesciasse il sistema e che un uomo forte sunnita -o quel Iyad Alawi gradito a Ryiadh- venisse messo al potere, un po' come Al Sissi in Egitto. In siria dovrebbe succedere lo stesso. Abdulrahman vorrebbe che in Medio oriente venisse fatta piazza pulita.
E' difficile che le smodate pretese dei sauditi portino a qualcosa di concreto. Col passare del tempo l'ISIL perderà la sua attrattiva, gli sciiti iracheni si stanno mobilitando, e man mano si riorganizzeranno per assolvere al compito di sconfiggere l'ISIL. Non sarà un processo veloce, ma è già iniziato.
Cosa sta succedendo, allora? Davvero l'Arabia Saudita crede che il modello del Da'ish sia un modello sostenibile, al di là dell'iniezione di adrenalina che sono state per i sunniti le prime vittorie militari dell'ISIL? A giudicare da quanto succede in Siria, non si direbbe. E se davvero l'ISIL altro non è che una sincera rivoluzione contro un governo settario e ripugnante, come Abdulrahman va dicendo, per quale motivo l'Arabia Saudita sta concentrando trentamila uomini alla frontiera con l'Iraq? E' chiaro che i sauditi sono assai più nervosi di quanto potrebbero ammettere davanti a tutti.
Anche la famiglia Al Saud è divisa, e si trova in una situazione conflittuale. L'avallo tanto autorevole dell'ISIL su citato, e che viene da qualcuno che è ben addentro al sistema del potere, fa pensare che l'Arabia Saudita sia alla deriva e che non sia in grado di smantellare le linee politiche fin qui seguite, nemmeno se ne va della sicurezza del regno. "Assad deve lasciare", "Al Maliki deve lasciare", e l'ISIL che viene considerato proprio quello che ci vuole. Una politica con l'autopilota e sembra che nessuno sia in grado di riprenderne il controllo, almeno per il momento.
La situazione sta portando verso tempi molto incerti. Al Maliki potrà non destare eccessiva ammirazione ed il fiasco militare di Mossul lo ha reso bersaglio di molte critiche, ma non c'è dubbio che si tratti di una figura di fondamentale importanza per la politica irachena. Fino ad oggi è riuscito a sopravvivere e lo scoperto tentativo degli Stati Uniti di rimuoverlo dalla sua carica può aver paradossalmente ottenuto l'effetto contrario di accelerare le forniture e l'assistenza militare da parte di Russia ed Iran, che si sono mosse per anticipare un tentativo statunitense di ricattare i parlamentari iracheni mettendo come condizione a qualsiasi aiuto la decadenza di Al Maliki. Qualcuno ha detto che "La palla oggi come oggi sta nel campo opposto al nostro; se gli Stati Uniti non si fanno coinvolgere militarmente, nessuno ne lamenterà l'assenza".
L'Iran, la Russia e l'Iraq agiscono in modo strettamente coordinato; l'Iran pensa che le incursioni dell'ISIL possano costituire il casus belli perché l'Arabia Saudita entri contro di esso in una guerra regionale. I politici iraniani adesso additano l'Arabia Saudita come responsabile della nascita dell'ISIL e, contrariamente al solito, lo fanno esplicitamente; "L'Arabia Saudita è il sostenitore spirituale, materiale ed ideologico dell'ISIL; il re saudita ha incaricato l'ex capo dei servizi segreti del suo paese [il principe Bandar] di fornire sostegno all'ISIL" (Mohammed Hassan Asafari, un influente membro della Majlis iraniana). La stampa iraniana di orientamento conservatrice è anche più pesante: "Pare che la seconda grossa scommessa degli ameriKKKani in Iraq stia finendo con una sconfitta. Mentre le forze dell'esercito popolare iracheno e i bassij [i volontari] stanno riconquistando la citta di Tikrit... gli ameriKKKani non vogliono aiutare il governo dell'Iraq nato da regolari elezioni a sedare la minaccia terroristica; hanno persino fatto mosse che garantiscono un sostegno al Da'ish. Invece di gettare discredito sui terroristi... i funzionari statunitensi hanno accusato [Al Maliki] di aver monopolizzato la scena politica e di aver esacerbato gli scontri settari!" (Keyhan, 30 giugno 2014).
L'atteggiamento ambiguo di europei ed ameriKKKani (gli occidentali hanno fatto propria la linea seguita dai paesi del Golfo, secondo la quale l'ISIL è soltanto un "fenomeno" con cui l'Occidente dovrebbe riconciliarsi, e non un fronte che si dedica ad assassinare tutti gli "apostati") sta generando crescenti sospetti e reazioni ostili da parte dei politici iraniani di maggiore esperienza. Si avvicina il 20 luglio, giorno in cui si chiudono i negoziati sul nucleare; è difficile che un clima del genere possa tradursi in qualcosa di diverso da un irrigidimento della determinazione iraniana a difendere i propri interessi nell'ultima tornata di colloqui con il "cinque più uno" prima della data ultima del venti. Al momento, non esiste neppure alcun segnale di una qualche "comprensione" tra Arabia Saudita ed Iran, che potrebbe stabilizzare la regione. Al contrario, le cose stanno andando nella direzione opposta.