Traduzione da Huffington Post.
L'Arabia Saudita ha annunciato la fine della campagna militare nello Yemen, eppure gli attacchi aerei contro Ansar Allah e contro le formazioni dell'esercito yemenita alleatesi con l'ex Presidente Saleh continuano, sia pure su scala minore. Senza la minima ironia un giornale saudita ha titolato "missione compiuta". Cosa sta succedendo, insomma?
Tutti i dettagli non li conosciamo, ma è chiaro che c'è voluto un grosso sforzo diplomatico per far smettere l'Arabia Saudita di agire in totale rimessa. Una rimessa che comprende anche le immagini di civili morti nei bombardamenti -ampiamente diffuse nei mass media mediorientali- il definitivo logorarsi di qualunque residuale rapporto col Presidente yemenita Hadi, il fallimento nella costruzione di quella forza di intervento sunnita di cui si è tanto parlato, e il fatto che è ormai chiaro che mentre l'Arabia Saudita poteva anche avere un obiettivo come il ripristino al potere dell'ex Presidente, non aveva alcun piano per raggiungerlo.
Come conseguenza di tutto questo, l'Arabia Saudita si è trovata isolata. Iran, Oman e Russia hanno alacremente lavorato sul piano politico, al tempo stesso cercando di mettere un freno ad Ansar Allah. Gli Stati Uniti hanno cercato sommessamente di far desistere i sauditi dall'andare avanti con la loro campagna di attacchi aerei, che hanno avuto poco effetto sull'efficienza militare di Ansar Allah e di Saleh, ma hanno reso infernale la vita della maggior parte degli abitanti delle città yemenite, le cui perdite stimate assommano a più di mille tra morti e feriti.
I militari statunitensi si sono mostrati molto scettici fin dall'inizio sui bombardamenti sauditi; hanno fornito assistenza per l'individuazione dei bersagli più che altro per ridurre i danni collaterali causati da bombardamenti fatti a casaccio. Gli alti quadri statunitensi si sono espressi, più che giustamente, in modo molto dubbio sui vantaggi di un'invasione terrestre; anzi, hanno giustamente considerato lo Yemen come un ginepraio, in cui l'Arabia Saudita rischiava di cacciarsi senza poterne uscire.
Ci si potrebbe chiedere allora perché mai gli Stati Uniti hanno accordato pubblico sostegno all'Arabia Saudita ed alla sua coalizione. Dovrebbe essersi trattato di una decisione tesa sostanzialmente a bilanciare i progressi fatti nei negoziati sul nucleare con l'Iran, di un modo per rassicurare gli alleati sunniti più che di una decisione presa tenendo presenti le sue implicazioni strategiche di più ampia portata. Nelle cronache e nei corridoi della politica occidentale, si fa riferimento allo Yemen come ad una guerra per interposti contendenti -cosa che non è vera- che rischia di far esplodere le tensioni settarie se non si pone ad essa qualche limite -e questo è vero- ma che dopotutto non ha una grande importanza strategica.
Come si è arrivati alla fine dei bombardamenti? Il Presidente Putin ha parlato al telefono con re Salman. Il contenuto della telefonata non è stato reso pubblico, ma è verosimile che il Presidente russo, con l'approvazione di alti funzionari a Washington, abbia detto senza giri di parole al re saudita di farla finita con la guerra aerea e di cercare una soluzione politica. Forse Putin è stato capace di capitalizzare sul mancato veto russo al Consiglio di Sicurezza dell'ONU nei confronti di una risoluzione sullo Yemen dal sapore molto unilaterale, e se ne è servito per rendere ancor più convincenti le sue parole. In ogni caso, in Medio Oriente la Russia sta di nuovo aiutando l'AmeriKKKa a togliersi le castagne dal fuoco e non c'è dubbio che nel far questo la Russia abbia agito in stretta coordinazione con Tehran, da cui la notizia di un possibile cessate il fuoco è trapelata ore prima che esso venisse formalmente dichiarato. In poche parole, fatta eccezione per pochissimi paesi della regione, Riyadh poteva contare su un sostegno molto debole per la propria azione, nonostante le dichiarazioni rese in pubblico.
Lo Yemen minaccia di trasformarsi in una grossa umiliazione per l'Arabia Saudita. L'ambizioso progetto di mettere insieme un nuovo esercito di coalizione sunnita per mettere un limite all'influenza iraniana in Medio Oriente si è bruscamente arenato. Dapprima ci sono state le inattese defezioni della Turchia e del Pakistan ed una sensibile mancanza di entusiasmo da parte dell'Egitto, che per partecipare ha chiesto una cifra ingente, dell'Iraq, il cui Primo Ministro ha criticato senza mezzi termini l'impresa, e della Giordania. Ancora peggio, negli ultimi tempi i sauditi hanno iniziato a sospettare il principe Mohammed bin Zayed, degli Emirati Arabi Uniti, di abboccamenti con Ali Saleh per arrivare alle loro spalle ad una soluzione politica rispettosa dei suoi interessi. Si ricorderà che bin Zayed avrebbe cospirato anche con Tuwaijri, il più stretto collaboratore di re Abdullah, perché la linea di successione dinastica saltasse proprio Salman. Cosa ancor più significativa, in questa nuova fase il regno saudita sembra ancora difettare di uno straccio di piano su come arrivare agli obiettivi che si è prefissato e che ha sbandierato con tanta profusione di retorica.
Simon Henderson dello Washington Institute ha scritto in un articolo intitolato "Il giovinastro inesperto dell'Arabia Saudita" [Mohammed bin Salman]: "Nella maggior parte degli altri paesi, un capo militare o un ministro della difesa che non riescono a giungere ad un risultato definito rappresenterebbero una sconfitta politica. Se in Arabia Saudita questo non succede, è perché Re Salman si trova probabilmente sotto pressione da parte di principi più anziani, che stanno puntando a mutamenti assai più radicali".
Il punto essenziale è in ciò che questo fallimento può rivelare sulle condizioni in cui si trova la regione, checché ne pensi Henderson.
Graham Fuller, ex vicepresidente dello U.S. National Intelligence Council, ha scritto:
Nessuno ricorda il vecchio concetto geopolitico in uso ai tempi della Guerra Fredda sugli stati della cintura nord? Erano la Turchia, l'Iran e il Pakistan; a volte si considerava anche l'Afghanistan. Si trovavano alla frontiera meridionale dell'Unione Sovietica e in Occidente li si considerava un potenziale baluardo contro un'aggressione sovietica diretta a sud, verso il Medio Oriente. Forse oggi stiamo assistendo alla rinascita di questo costrutto, ma stavolta esso non si presenterà affatto unito contro la Russia. Anzi, i tre paesi presentano una calda sintonia con molti aspetti della concezione politica "euroasiatica" russa e cinese.
Il conflitto in Ucraina ha spinto la Russia e la Cina ad intensificare i propri sforzi per essere meno vulnerabili nei confronti della supremazia militare con cui l'AmeriKKKa tutela il proprio dominio del governo finanziario mondiale. La guerra nello Yemen, in qualche modo, ha reso più chiare certe dinamiche mediorientali. La bilancia del potere ha smesso di pendere dalla solita parte, e sta seguendo un moto già visto in passato.
I tre paesi fondamentali della regione (Iran, Turchia ed Egitto), oltre al Pakistan, si stanno rivolgendo ad est, ciascuno con i suoi motivi. In Occidente non si capisce ancora appieno quanto abbia influito su questo fenomeno l'iniziativa cinese della "nuova via della seta", che prevede anche il pieno coinvolgimento russo. I paesi mediorientali notano che la Cina si sta muovendo con molta serietà per realizzare vasti progetti infrastrutturali tra Asia ed Europa. Hanno fatto caso anche a quello che è successo con la Asia Infrastructure Investment Bank, con il mondo che si affolla al suo ingresso e l'evidentissimo disappunto degli Stati Uniti. I paesi del Medio Oriente vogliono essere della partita.
Non è stato solo per la cattiva gestione da parte dei sauditi e per le pressioni che hanno esercitato che la "grande iniziativa sunnita" volta ad arginare l'Iran ha ottenuto pochi consensi. E' stato anche per la consapevolezza del fatto che il denaro -almeno quello destinato a diventare infrastruttura- oggi passa per la Cina, e che un Iran magari libero da sanzioni diventerà un attore di primo piano in questo nuovo schema economico e politico. Invece di schierarsi con qualche fragile monarchia mediorientale, gli stati sovrani hanno preferito pensare al futuro.