Da Consortium News, 12 novembre 2016.
 
Insomma, eccoci. La Brexit, come avevamo ipotizzato tempo fa, non è uno sporadico ritorno di fiamma ma la manifestazione di un'insoddisfazione profonda e diffusa nella società occidentale. Per dirlo con chiarezza, non soltanto sessanta milioni di ameriKKKani hanno votato per Trump, ma altri tredici milioni che avevano votato alle primarie per Bernie Sanders hanno anch'essi votato per un mutamento strategico, anche se partendo da una posizione politica differente.
Qui non vogliamo fare le Cassandre a bocce ferme, ma cercare di capire cosa possa esserci dietro la Brexit e l'elezione di Trump, un qualcosa che al momento è in ombra a causa della sovraesposizione mediatica e politica degli avvenimenti.
Per prima cosa consideriamo Donald Trump. Non sorprende il fatto che le sue defaillances personali e il fatto di essere un miliardario abbiano attirato gli strali dei mass media, che si chiedono se sia in grado di imporrre un mutamento strategico oppure no. In effetti è una cosa importante, ma non inquadra la questione. La questione è che gli elettori hanno poche, pochissime opportunità di contestare lo stato di cose presente, soprattutto quando i partiti centristi occidentali hanno apertamente macchinato in modo da offrire agli elettori varianti poco distinguibili della stessa agenda progressista, liberale e globalizzata.
In poche parole si è evidentemente consolidata una base così esasperata dalla impermeabilità delle élite nei confronti delle sue vere condizioni da volere che l'attuale stato di cose finisca, non importa ad opera di chi.
Non importa ad opera di chi; l'essenza della questione è questa. Non si è mai trattato di fare una specie di concorso di bellezza tra aspiranti capi dell'esecutivo: Bernie Sanders sarebbe stato un presidente ideale? E Nigel Farage? Trump sarà in grado di aprire un'epoca nuova? Non lo sappiamo, ma non è una possibilità da escludere a priori. Il non importa ad opera di chi, piuttosto rivela quanto sia profonda la alienazione che giace latente nella società ameriKKKana.
La smodata attenzione per l'esuberante personalità del signor Trump rischia di mettere in ombra il fatto che l'insoddisfazione nei confronti della democrazia, della cultura politica delle identità, della globalizzazione e dei suoi problemi non scomparirà certo adesso. Il signor Trump potrà avere successo oppure no, ma l'ondata di scontento è destinata a durare, in un modo o nell'altro, ed è probabile che si diffonda ad altre parti del continente europeo lasciandolo confuso e politicamente ininfluente. Essa rappresenta una condizione di profonda alienazione. Non dovremmo aspettarci un facile ritorno ad un mondo liberale, nel caso il signor Trump dovesse fallire in qualche modo.
Allo stesso modo il signor Trump non va considerato come uno strano fenomeno politico fuori dal mondo. In concreto corrisponde abbastanza fedelmente ad uno dei principali orientamenti del conservatorismo ameriKKKano. Questo orientamento dubita per istinto delle riconfigurazione politiche e sociali di portata grandiosa e preparate a tavolino, e preferisce considerare la natura umana per quello che è; preferisce concentrarsi sui bisogni interni del paese invece che su avventure all'estero dall'esito incerto; è conservatore dal punto di vista finanziario; non cerca di influenzare l'economia, e tende a considerare la famiglia come il costituente essenziale della società. Si tratta di uno spirito che considera gli altri paesi come la Russia o la Cina come paesi normali coi quali si dovrebbe dialogare in nome degli interessi comuni.
Il fatto che Trump andrebbe considerato come una sorta di bizzarro corpo estraneo invece che come un esponente della linea dei Burke e del tre volte candidato alla presidenza Pat Buchanan (che ammette fino ad un certo punto la propria influenza) dice più di come i neoconservatori siano riusciti a imporsi sul conservatorismo ameriKKKano negli anni Sessanta piuttosto che riflettere lo spettro storico di questa corrente di pensiero. Si potrebbe dire che i neoconservatori non sono mai stati conservatori, allo stesso modo in cui i neoliberisti non sono mai stati liberali nel senso comunemente dato a questi vocaboli. Il fatto nuovo è che il presidente eletto sembra aver riunito un nuovo elettorato repubblicano, che ricopre la metà dei votanti ameriKKKani. Questo nuovo elettorato non è formato soltanto da red necks, gli operai bianchi; è interclassista ed interetnico. Anche gli operatori di Wall Street, che si presumevano allineati con i Clinton, pare gridassero entusiasti "in galera" mentre la Clinton pronunciava il discorso in cui riconosceva la sconfitta, e le donne con una formazione universitaria avevano assegnato alla Clinton solo un 6% di margine rispetto a chi aveva votato per Trump.
Potrebbe anche darsi che "[al principio] si intendesse, con questa consultazione elettorale, facilitare il trionfante ritorno del paradigma neoconservatore neoliberale pur presentato in una nuova confezione. Per varie ragioni è stata presa la decisione di assegnare questo ruolo a Hillary Clinton", forse perché veniva considerata in una buona posizione per fondere l'interventismo liberista e le tendenze neoconservatrici insieme alla politica identitaria di stampo clintoniano, o magari perché semplicemente "toccava a lei" diventare presidente. Se le intenzioni erano queste, il fallimento è stato spettacoloso.
Perché il fallimento? Uno degli aspetti dello scontento, come abbiamo avuto già modo di rilevare, attiene al lento declino del nostro modello di crescita finanziarizzato, neoliberista e sostenuto dal debito. Sono stati in molti in America e in Europa a dover fare i conti con una realtà che non prosperità economica ha portato, ma preoccupazioni e - per la prima volta dal dopoguerra - l'idea che le prospettive delle prossime generazioni fossero molto più ostiche e molto peggiori di quanto fossero le nostre.
Ecco una dichiarazione di Naomi Klein, che non è certo una simpatizzante di Trump:
Daranno la colpa a James Comey e allo FBI. Daranno la colpa alle epurazioni dalle liste elettorali e al razzismo. Daranno la colpa a chi diceva "o Bernie o il fallimento", daranno la colpa alla misoginia. Daranno la colpa alle terze parti e ai candidati indipendenti. Daranno la colpa ai grandi mass media per avergli tirato la volata, daranno la colpa ai social per aver fatto da cassa di risonanza, e a WikiLeaks per aver scoperto gli altarini.
Si tace su quello che è il maggior responsabile dell'incubo in cui ci troviamo: il neoliberismo [finanziario]. Dobbiamo capire questo: un sacco di gente sta male. Le politiche neoliberiste di deregulation, di privatizzazioni, di austerità e di commercio d'impresa hanno fatto crollare il loro tenore di vita. Hanno perso il lavoro, hanno perso la pensione. Hanno perso molte delle reti di sicurezza che un tempo rendevano meno preoccupanti evenienze come queste. Per i propri figli vedono un futuro anche peggiore del loro già precario presente.
Nello stesso tempo hanno assistito all'ascesa della classe di Davos, una rete iperconnessa di banchieri e tecnologi miliardari, di leader eletti orrendamente condiscendenti verso questi interessi e di attori di Hollywood che conferiscono a tutto questo un'aria modaiola insopportabile. Il successo è una festa a cui nessuno li ha invitati e saranno in cuore loro che questo potere e questa ricchezza crescenti sono direttamente collegati al crescere dei loro debiti e della loro impotenza.
Per gente che considerava di aver diritto a certe sicurezze e ad un certo status, per lo più si tratta di uomini bianchi, queste le privazioni sono intollerabili.
Donald Trump parla direttamente a questo dolore. La campagna favorevole alla Brexit parla a questo dolore.
 

Eccone una rappresentazione visiva (fonte: ZeroHedge.com).

 

Linea blu: quota del reddito interno lordo: retribuzioni dei lavoratori, maturazione di stipendi e salari, pagamenti verso persone.
Scritta in rosso: una tendenza al ribasso lunga quarantasei anni. Le enormi bolle del 1995-2000 e del 2003-2008, alimentate dal credito, sono responsabili di effimere crescite nella quota di reddito interno lordo andata ai lavoratori, il cui declino è ripreso una volta avvenuta la loro esplosione.
Scritta in nero: il reddito interno lordo del 2015 è stato di diciottomila miliardi di dollari. Di questi, il 42,5% sono andati alle retribuzioni. Se la quota fosse stata del 50% si sarebbe trattato di 1350 miliardi di differenza: tredicimilacinquecento dollari in più per ogni famiglia.
Ovviamente, questo non è il caso delle élite cittadine (Fonte: ZeroHedge.com).
 

 

Il divario nelle retribuzioni diventa sempre più ampio.
Il grafico mostra il crescente divario, dal 1973 in poi, delle retribuzioni spettanti a uomini che occupano i vertici e quelli che si collocano ai livelli medi.
La linea azzurra è il novantacinquesimo percentile, quella rossa il cinquantesimo.
La casta dei tecnocrati, dei professionisti, della nomenklatura statale contro tutti gli altri.

 

Il secondo aspetto dell'attuale insoddisfazione è rappresentato dall'oppressione culturale, O, per dirla con la retorica del partito democratico, dalla politica delle identità, che era uno dei capisaldi della base elettorale clintoniana. Le radici del fenomeno sono complicate e vanno rintracciate nelle correnti filosofiche nate in Germania nel corso della seconda guerra mondiale, in qualche modo fuse con il pensiero degli intellettuali trotzkisti ameriKKKani (virati dunque a destra). In buona sostanza questa corrente del pensiero politico mutuò dalla allora nascente disciplina della psicologia il concetto di spianamento della mente umana attuato per mezzo dello shock, o costringendola a diventare una tabula rasa su cui lo psichiatra (o, nel nostro caso, il politico) avrebbero potuto innestare un nuovo programma.
All'epoca l'obiettivo politico da perseguire era l'eliminazione del pensiero totalitario e della programmazione mentale fascista, e la sua sostituzione con un apparato, un circuito, liberal-democratico. Lo US immigration and Nationality Act del 1965 venne promosso da un gruppo di intellettuali di questo orientamento alla luce dell'assunto che concetti come quello di "cultura nazionale" avrebbero perso ogni significato in virtù della diluizione culturale portata dall'immigrazione. Nel corso degli anni Settanta ed Ottanta l'intento cambiò, e diventò quello di imporre l'idea che non esisteva alcuna politica della modernità (la "fine della storia" di Fukuyama) dal momento che ogni azione politica avrebbe in qualche modo ceduto le armi davanti al dominio della tecnica. Si trattava solo di assicurare un efficiente funzionamento al mercato liberale, una cosa che era senz'altro meglio delegare agli esperti.
Sul piano politico eliminare ogni mentalità frutto di precedenti retaggi toccava alla guerriglia culturale condotta dalla correttezza politica. La guerra di classe non godeva più di alcun credito, ma c'erano altre vittime per conto delle quali si poteva combattere: le discriminazioni di genere, il razzismo, la negazione dei diritti degli omosessuali, gli stereotipi sull'orientamento sessuale, le piccole aggressioni verbali, il linguaggio sessista, o qualunque idea o espressione che ledesse il senso individuale di "spazio sicuro" sono stati utilizzati come strumenti per eliminare i vecchi cespugli di cultura nazionale ereditata e per aprire la strada ad un mondo globalizzato a guida ameriKKKana.
L'elemento ostentato che riuniva tutte queste "guerre" condotte in nome delle vittime era il fatto che il loro contrario veniva fatto risalire al fascismo o ad un qualche altro autoritarismo. Il problema, in questo, è che qualunque lavoratore ameriKKKano bianco che frequentava la chiesa, credeva alla vita familiare e si dimostrava patriottico diventava un potenziale fascista, un potenziale razzista, un potenziale sessista, un potenziale intollerante.
Molta gente comune in AmeriKKKa ed in Europa non apprezza questa guerra culturale che la fa finire (per dirla con la signora Clinton) nel "'mucchio dei detestabili'. Va bene? Razzisti, sessisti, omofobi, xenofobi, islamofobi, chiamateli come vi pare" e che guarda al loro ambiente di tutti i giorni come ad un qualche cosa che le élite della costa statunitense considerano un qualche cosa da saltare a piè pari. Insomma, i detestabili sono di molto aumentati di numero. La colpa non è del linguaggio salace di Donald Trump: è stato un intero settore dell'elettorato a tapparsi il naso a fronte della correctness e di cosiddette sensibilità da mammolette. La scorrettezza politica di Trump ha toccato corde di risentimento profonde nella società tradizionale ameriKKKana.
L'AmeriKKKa dei saltati a piè pari non è offesa solo per esser stata intruppata tra i detestabili. Percepisce con chiarezza il disprezzo che le riservano le élite ameriKKKane ed europee e non tollera l'arroganza con cui queste élite le fanno sapere che esiste un solo modo razionale e riguardoso di fare le cose, e che sono loro stesse, le élite di esperti e del giro di Davos, che devono dire a tutti quanti noi come stanno le cose, nonostante vengano da decenni di fallimenti.
Gli animi si sono riscaldati da ambo le parti. Per avere un'idea dei toni aspri con cui sarà combattuta la guerra culturale, si ascolti questo audio che viene da una petizione appena lanciata dalla piattaforma di mobilitazione populista Avaaz, parzialmente finanziata da Soros e collegata all'organizzazione ameriKKKana Move On. "Caro signor Trump, non è grandezza la tua. Il mondo rifiuta i tuoi timori, il tuo fomentare odio, la tua intolleranza. Noi rifiutiamo il tuo sostegno alla tortura, i tuoi appelli all'uccisione di civili, il tuo generale incoraggiare la violenza. Noi rifiutiamo la tua denigrazione delle donne, dei musulmani, dei messicani, dei milioni di altre persone che non ti somigliano, che non parlano come te, che non pregano lo stesso dio. Invece delle tue paure noi scegliamo la misericordia; invece della tua disperazione scegliamo la speranza; invece della tua ignoranza scegliamo la comprensione. Cittadini del mondo, siamo uniti contro l'arma della tua divisione."
Insomma, tra Brexit e vittoria di Trump, stiamo assistendo ad un giro di boa epocale. A metà ottobre scrivevamo, citando il filosofo politico britannico John Gray:
 
 Se la tensione fra capitalismo globale e stato nazionale è stata una delle contraddizioni del thatcherismo, il conflitto tra globalizzazione e democrazia è stato la nemesi della sinistra. Da Bill Clinton a Tony Blair in poi il centrosinistra ha abbracciato il progetto del libero mercato globale con lo stesso ardente entusiasmo dimostrato dalla destra. Se la globalizzazione colpisce la coesione sociale, occorre riplasmare la società perché faccia da puntello al mercato. Il risultato? Ampi settori della popolazione sono stati abbandonati a marcire nella stagnazione o nella povertà, in qualche caso senza alcuna prospettiva di trovare un ruolo produttivo nella società.
 
Se Gray ha ragione ad affermare che quando l'economia globalizzata passa un brutto momento la gente esige che lo stato presti attenzione alla situazione economica dei loro paraggi, del loro paese e non alle utopistiche preoccupazioni della élite accentratrice, se ne deve concludere che la fine della globalizzazione comporta anche la fine della concentrazione della ricchezza in tutte le sue manifestazioni.
 
Insomma, non pare proprio che il mondo stia andando nella direzione auspicata da Avaaz. Sembra anzi che la tendenza sia a mettere avanti a tutto la riscoperta dello stato, della sovranità statale e dell'impegno dello stato nel perseguimento di politiche economiche adatte al particolare contesto di ciascun paese, e verso la sostanziale responsabilità dello stato per il benessere della comunità nella sua interezza.
Dunque, cosa significa questo dal punto di vista geostrategico? Trump sarà capace di aprire una nuova epoca? Nell'immediato si può rispondere che questa nuova epoca sembra presagire un periodo di volatilità politica, di volatilità finanziaria e, per l'Europa ed il Medio Oriente, la prospettiva di shock politici prolungati.
Il signor Trump non è un globalista, chiaramente. Chiaro è anche il fatto che è consapevole di alcuni dei rischi delloa politica monetaria globale oggi attuata. Ha detto che la Fed statunitense ha creato "gran brutte bolle" e che il "barattolo" rappresentato dalla crisi economica e finanziaria "è stato spinto a calci lungo la via" dal Dottor Yellen e che con esso dovrà vedersela chiunque diventi presidente il 20 gennaio.
Il fatto è che trent'anni di politiche di crescita basate sul debito e sulla finanza mettono sostanzialmente all'angolo il presidente eletto: il debito globale è diventato una spirale, le bolle sono ancora lì (tenute in vita dall'intervento coordinato della Banca centrale) ed è nota la loro tendenza ad esplodere senza troppa delicatezza; gli interessi a zero o addirittura negativi stanno minando molti modelli economici, ma non possono essere abbandonati a cuor leggero senza mandare in frantumi il mercato dei titoli di Stato; il quantitative easing (la stampa di denaro) sta sistematicamente erodendo il potere di acquisto dei consumatori diluendo continuamente il potere di acquisto da esso stesso prodotto e la deviazione di esso dalla sua destinazione originaria al settore finanziario - che fa lievitare il valore dei titoli- non crea alcuna ricchezza tangibile.
L'AmeriKKKa e l'Europa si trovano effettivamente in una fase di deflazione. Come fare a far crescere i redditi in modo che i produttori di beni e servizi possano anche permettersene l'acquisto? Secondo Trump si deve investire su progetti infrastrutturali in patria. Questo può essere un aiuto ma è improbabile che in sé riuscirà a sollevare e a mandare avanti l'intera economia statunitense. Il dato di fatto è che non esiste alcun motore della crescita universalmente valido (specie adesso che la rivoluzione industriale cinese sembra giunta per lo meno ad un punto morto). Ogni paese sta cercando nuovi motori di crescita. Non è facile pensare che l'Europa o l'AmeriKKKa riusciranno a ricreare tutti i posti di lavoro perduti nel corso del processo di globalizzazione. Anzi, nel tentativo di provarci potrebbe di per sé far ulteriormente precipitare il commercio mondiale e giungere per questo a risultati di conseguenza inferiori.
In breve, l'economia mondiale potrebbe anche attraversare un breve periodo di luna di miele grazie ad un probabile aumento momentaneo della indulgenza statunitense in materia fiscale e di un concomitante alleggerimento psicologico, che nascerebbe dal fatto che perlomeno il settore delle costruzioni negli Stati Uniti conoscerebbe qualcosa di simile ad un boom. Alla fine però la crisi sostanzialmente economica che il signor Trump prevede potrebbe rivelarsi l'unico modo per tagliare il nodo di Gordio in cui ci hanno intrappolato tre decenni di indebitamento e di immissione di denaro senza precedenti. Se sarà lui a dover attraversare la crisi che si profila, il signor Trump dovrà ignorare la voce da sirena delle élite che non farà che dirgli che non ci sono alternative se non l'andare avanti come prima.
Il campo in cui il signor Trump potrebbe cercare un successo immediato e relativamente alla portata può essere quello della politica estera. Come Nixon andò in Cina, Trump può andare in Russia e in Cina e cominciare a trattare entrambi paesi come paesi normali con i quali è possibile trovare interessi comuni, così come è possibile trovare temi oggetto di contesa. Questo sarebbe rivoluzionario. Potrebbe cambiare la mappa geostrategica. Come spesso ripete il Presidente Putin, la porta è aperta.
Almeno per il momento.
In politica nulla dura per sempre.