Traduzione da Consortium News, 17 febbraio 2017.
 
Attenzione all'ego. Anzi, agli ego perché in questo caso sono due. Jared Kushner è il genero del Presidente Trump e pare convinto di poter risolvere il conflitto tra stato sionista e Palestina. Sta cercando di convincere il suocero che potrebbe essere lui a fare questo colpo grosso in politica estera. Dietro le quinte c'è un dubbioso Tony Blair che sta comportandosi da lobbista tramite Wendy Deng, la ex moglie di Rupert Murdoch che ha fatto riconciliare Kushner e Ivanka Trump dopo la loro separazione nel 2008. Ci sono anche un altrettanto dubbioso Sheldon Adelson e l'ambasciatore sionista Ron Dermer, che a quanto pare gode delle confidenze di Bibi Netanyahu.
Se finisse per abboccare all'amo, Trump non sarebbe il primo Presidente degli USA a farsi irretire dalla prestigiosa prospettiva di diventare il risolutore del conflitto. Ci sono caduti in tanti: non soltanto non ci è riuscito nessuno, ma ogni volta l'esca ha finito per rivelarsi avvelenata. Per i predecessori di Trump la cosa si è tradotta nel solito bicchiere di cicuta. Nel suo caso invece si tradurrebbe nell'aperto accoglimento di un cavallo di Troia in seno all'organico. Un cavallo di Troia che, come afferma giustamente Robert Parry, riporterebbe i neoconservatori dritti al cuore della politica estera. Risultato, "la politica estera del Presidente Trump che in Medio Oriente va alla deriva verso l'ortodossia neoconservatrice...".
E l'esca in cosa è consistita, questa volta? Una cosa molto semplice. Invece dello stato sionista che fa la pace con i palestinesi e arriva così alla pace con i paesi circostanti, si segue il percorso contrario: lo stato sionista si avvicina al mondo arabo, che a sua volta concorda con esso una "soluzione" e la impone ai palestinesi. Netanyahu ha definito il piano con una battuta ad effetto, il contrario di "Inside out". Con il suo "Outside in" è il fuori (il mondo arabo) che inpone il piano ai palestinesi. Il punto fondamentale è che i palestinesi sono ormai così deboli e divisi -si assicura- che non avranno la forza di porre obiezioni.
A parte il fatto che il governo sionista ha davvero desiderato una soluzione negoziale -è su questa premessa che si fondarono gli accordi di Oslo nel 1993- perché era interesse di ambo le parti arrivare ad un compromesso, negli ultimi venticinque anni allo stato sionista le occasioni per arrivarci non sono certo mancate. La storia mostra che lo stato sionista ha sempre preferito il cosiddetto processo di pace piuttosto che la vera conclusione di una pace. I funzionari statunitensi ed europei che si sono avvicendati negli anni a prendere parte al "processo", tra cui il sottoscritto, condividono questa interpretazione delle cose.
Nel caso di Trump non è il probabile fallimento di questo azzardo che rende l'iniziativa sionista così potenzialmente pericolosa, quanto il fatto che dare il via alla politica estera partendo da basi del genere potrebbe rivelarsi letale per i suoi obiettivi più generali. Sapere da dove cominciare è importante; è molto importante. Dal come si comincia dipende la successiva definizione delle alleanze. Sulle prime -e forse è ancora così- il punto di partenza di Trump era la distensione con la Russia. Una cosa che aveva un senso, considerata la sua volontà di trasformare la politica estera statunitense. Il fatto che il signor Trump si stia muovendo con una certa calma in merito alla Russia, dopo il colpo dello stato profondo contro il generale Flynn e le sue continue frizioni con la presidenza è comprensibile, ma se dovesse far proprio il piano proposto dal genero Trump passerebbe la politica estera ai neoconservatori.
Per quale motivo? Perché se Trump vuole che il mondo arabo, ed in particolare l'Arabia Saudita, aiuti lo stato sionista ad imporre un accordo ai palestinesi, gli toccherà adottare la falsa narrativa sionista che vede nella Repubblica Islamica dell'Iran il primo motore del terrorismo in Medio Oriente. Trump dovrà pagare dazio anche alla narrativa, parimenti sionista e parimenti falsa, sulla minaccia costituita dalla "bomba nucleare" iraniana. Già lo ha fatto nel corso del suo incontro con il Primo Ministro Netanyahu. Ma ad impensierire i funzionari sionisti non è mai stata l'inesistente bomba iraniana, quanto il potenziale militare convenzionale dell'Iran e ancora di più il suo soft power rivoluzionario.
Questo vedere il mondo alla rovescia, tipico dei neoconservatori, è la causa principale della putrefazione della politica estera ameriKKKana. Da decenni l'AmeriKKKa è allineata all'Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo che finanziano, armano e sostengono movimenti terroristi come Al Qaeda, e al tempo stesso stigmatizza l'Iran -che questi "jihadisti" li combatte sul serio e li sconfigge anche- come principale sostenitore del terrorismo in Medio Oriente. Sarebbe difficile vedere le cose all'incontrario più di così, e il pubblico ameriKKKano è oggi maggiormente consapevole di come stanno la cosa. Eppure i neoconservatori insistono: non cessano un istante di lavorare ad un asse che unisce l'AmeriKKKa all'Arabia Saudita e allo stato sionista e di promuovere la fobia dell'Iran.
Il Presidente Trump si accorgerà del pericolo? La sua sbandierata guerra contro l'Islam radicale diventerà oggetto di scherno appena fuori dai riflettori in Medio Oriente, al pari di quella di Obama, se si farà vedere in sintonia con lo stato sionista, con l'Arabia Saudita, con il Qatar. In Medio Oriente si assisterà ad una riedizione dello spettacolo di un'AmeriKKKa in guerra con il terrorismo e che intanto ci si infila a letto insieme.
Anche a Mosca un simile allineamento strategico farà alzare più di un sopracciglio. I responsabili della linea politica russa si chederanno se Trump farà un po' più sul serio di Obama per combattere lo jihadismo radicale, e sarà un'altra domanda da affiancare all'interrogativo più grande che nasce dal fatto che Trump ha accettato le dimissioni del generale Flynn. Secondo Pepe Escobar "anche prima della caduta di Flynn tra gli addetti ai lavori in Russia si dibatteva accesamente se il Presidente Trump non fosse un nuovo Victor Yanukovich, [il presidente ucraino] che non è riuscito a fermare una rivoluzione colorata sulla porta di casa."
Un interrogativo che è diventato importante. La conversazione di Flynn con l'ambasciatore russo su una linea telefonica aperta che avrà pur saputo essere abitualmente sotto controllo da parte dei servizi non ha infranto alcuna regola; Flynn ha parlato della propria salita in carica come un qualunque diplomatico. Nella sua condotta non c'era nulla di non consono; un Ministro degli Esteri ombra, nel Regno Unito, si terrebbe costantemente in contatto con gli ambasciatori di altri paesi; è quello che ci si aspetta da lui. Se mai sono state infrante delle regole, è stato altrove, magari nel contesto dei servizi o al Ministero della Giustizia. Perché le regole dicono che non si devono spiare di proposito le proprie cariche di stato, e neppure quanti stanno per assumerne l'ufficio. Se la cosa si verifica involontariamente, si devono minimizzare la loro identità ed il loro contributo alla conversazione, che non devono essere oggetto di divulgazione. Se in tutto il caso c'è una sola cosa che lascia perplessi e non è tanto il comportamento di Flynn quanto la reazione del Presidente. Il Vicepresidente è rimasto irritato dal fatto che il Generale Flynn fosse stato parco di particolari nel riferirgli l'accaduto. Perché allora non convocarli entrambi, Flynn perché si scusasse e Pence perché accettasse le scuse, e finirla qui? Perché darlo in pasto agli oppositori che stanno nello stato profondo?
Lo stupore rimane. Eli Lake su Bloomberg View traccia le implicazioni dell'accaduto:
 
...Domande senza risposta. Probabile che Flynn intrattenga con la Russia più legami di quanti ne abbia mostrati al pubblico e ai propri colleghi. Può anche darsi che un gruppo di burocrati della sicurezza nazionale e di ex funzionari di Obama stiano facendo trapelare apposta informazioni molto delicate dal punto di vista del rispetto della legge, per indebolire il nuovo governo.
Per gli organismi statali che sovrintendono alla sicurezza nazionale Flynn è stato un bersaglio. Si è creato la reputazione di riformatore e di spietato critico dei capi dei servizi insieme a cui aveva servito quando era direttore della DIA sotto il Presidente Barack Obama. Flynn stava lavorando ad una riforma del complesso dell'industria dei servizi, cosa che metteva in pericolo le prerogative burocratiche dei suoi avversari.
Flynn era anche un bersaglio di primo piano per i democratici. Si ricordi che Flynn la scorsa estate balzò all'onore delle cronache nazionali quando si unì alla folla che alla convention repubblicana, invocando dal palco il carcere per Hillary Clinton.
In tempi normali l'idea che funzionari statunitensi a parte dei nostri segreti più delicati se ne sarebbero serviti per rivelarne a proprio comodo per indebolire la Casa Bianca avrebbe messo in allarme quanti temono uno strisciante autoritarismo. Cosa sarebbe successo se fosse finita sulla stampa l'intercettazione di una chiamata tra il consigliere alla difesa in pectore di Obama ed il ministro degli esteri iraniano prima che iniziassero i negoziati sul nucleare? Gli ululati di indignazione sarebbero stati assordanti.
Alla fine, Trump ha deciso di troncare i pettegolezzi su Flynn ed ha ceduto ai suoi oppositori degli ambienti politici e degli ambienti burocratici. [Il presidente della commissione per i servizi, Devin] Nunes mi ha detto lunedi sera che la cosa non finirà a tarallucci e vino. "Intanto tocca a Flynn. Poi sarà la volta di Kellyanne Conway, poi di Steve Bannon, poi di Reince Priebus," ha detto. Insomma, detta in un altro modo Flynn è solo l'antipasto: il piatto principale è Trump.
 
Il problema è questo: lo stato profondo ha già neutralizzato la politica estera di Trump? Troppo presto per dirlo, ma qualcosa nell'aria fa pensare che la politica presidenziale potrebbe slittare verso posizione conservatrici ortodosse sia per il caso della Russia sia per quello della Palestina.
 
[Il 14 febbraio] Il portavoce della Casa Bianca ha detto: il Presidente Trump ha fatto chiaramente presente che si aspetta che il governo russo raffreddi la situazione in Ucraina e che restituisca la Crimea.
[Il 15 febbraio] Trump scrive su Twitter:
 
Donald J. Trump, account verificato @realDonaldTrump
La Crimea è stata PRESA dalla Russia nel corso dell'amministrazione Obama. Obama con la Russia è stato troppo morbido?
4:42 AM – 15 Feb 2017

Una posizione che Trump non aveva mai assunto in precedenza. Il restituire la Crimea è una cosa che non prevede risposte positive dal governo russo in carica e neppure da un qualsiasi successore. Se Trump insiste, la distensione nasce morta.
 
Non è possibile trarre conclusioni definitive sull'uscita di scena di Flynn. La scacchiera è grande, e Trump ha deciso che poteva sacrificare un pedone. Il generale aveva determinate qualità come la spietatezza che è forse necessaria a vibrare un colpo alle agenzie dei servizi, ma nel libro che ha avventatamente firmato assieme al neoconservatore Michael Leeden ha anche mostrato di non avere senso dell'opportunità politica e neppure una sua elementare comprensione. Trump ha deciso che non valeva la pena rischiare pezzi più importanti per difendere un pedone, con particolare riguardo per Bannon, decisamente un pezzo più importante, che a quanto pare ha personalmente auspicato il sacrificio del pedone Flynn.
Infine, il problema è il carattere di Trump: ha il polso necessario a colmare la lacuna? Può trovare alleati sufficientemente determinati all'interno dello stato profondo, pronti a combattere un'odiosa guerra intestina e ad epurarlo da cima a fondo? Può eliminare le cellule dormienti che si trovano nel suo stesso governo? Scrivere su Twitter non sarà sufficiente: dovrà presto muoversi in concreto.
Ancora, virerà verso lidi cari ai neoconservatori, inghiottirà l'esca di Netanyahu e si lascerà andare all'abbraccio dell'alleanza neoconservatrice con l'asse saudita e sionista, per finire allamato all'iranofobia e a continuare con i tentativi di dividere Putin dall'Iran e dalla Cina, nel miglior stile neocon?
Questo fa presagire una odiosa guerra interna agli USA: anche se la "rivoluzione colorata" dello stato profondo dovesse riuscire, non si tratterebbe della fine della guerra ma forse della sconfitta in un'importante battaglia che fa parte di una guerra di più ampia portata.