Traduzione da Consortium News, 25 febbraio 2017.

Pat Buchanan è forse il politico statunitense che meglio capisce quello che Trump sta cercando di fare, dal momento che è stato per tre volte egli stesso candidato alle elezioni presidenziali.
Pat Buchanan spiega in modo convincente perché Trump è diventato Presidente degli USA.
 
[Trump] ha [semplicemente] compreso il paese ed il mondo meglio dei suoi avversari.
Ha notato in patria l'ascesa del nazionalismo ameriKKKano e quella del nazionalismo etnico in Europa, ed ha appoggiato la Brexit.
L'establishment statunitense di ambo le parti tiene nel massimo conto le diversità; Trump invece ha visto che il ceto medio teme il mutamento demografico portato dall'invasione dal Terzo Mondo, e ha promesso di fermare gli immigrati.
Mentre i sostenitori delle multinazionali bruciano incenso al sacrario dell'economia globale, Trump è andato a cercare le vittime appartenenti alla classe operaia. E quegli ameriKKKani dimenticati che vivono in Pennsylvania, nello Ohio, in Michigan, nello Wisconsin hanno ricambiato.
Mentre Bush II e il Presidente Obama ci hanno buttato in Afghanistan, in Iraq, in Libia, nello Yemen e in Siriam Trump si è reso conto che i suoi compatrioti non volevano più saperne di guerre senza fine, e ha iniziato a mettere l'AmeriKKKa avanti ad ogni altra cosa.
[E] ha prospettato una politica estera nuova... La Russia di Putin non è "il nostro principale nemico geopolitico."
Ecco. Questa è, al tempo stesso, la politica interna e la politica estera di Donald Trump.
Ad essere diventata ossessiva per tutti, oggi come oggi, è la bellicosa isteria che Trump e la sua agenda hanno sollevato. La distensione con la Russia è morta e sepolta, grazie a questa ondata di maccartismo russofobico? O forse non stiamo assistendo ad altro che "ai puri e semplici capricci di un pugno di spie che hanno paura di perdere il lavoro... ed alle contemporanee bizze di una stampa liberale [che non riesce a credere di aver] perso le elezioni in favore di Trump", come ha scritto un editorialista statunitense?  O forse è qualcosa di più profondo, come lo sgretolarsi dello establishment ameriKKKano?
Non conosciamo la risposta. L'idea di far decadere Trump dalla sua carica pare piuttosto impraticabile ma sicuramente l'AmeriKKKa è divisa profondamente; è chiaro che Trump evoca reazioni emotivamente forti. Tre quarti degli ameriKKKani hanno reazioni forti nei suoi confronti, in positivo o in negativo che sia. L'ultimo sondaggio del Pew Research Center mostra che solo l'8% dei democratici e degli indipendenti di parte democratica approvano l'operato di Trump, che è il valore più basso mai riscontrato in oltre trent'anni nell'atteggiamento del partito di opposizione nei confronti del nuovo Presidente.
La cosa interessante però è che il sondaggio mostra che l'84% dei repubblicani e dei loro simpatizzanti considera invece in modo positivo le prime mosse del Presidente Trump.
Poi però, come scrive Gilbert Doctorow, appena insediatasi la nuova amministrazione
 
...Abbiamo assistito ad un sorprendente voltafaccia al primo dispiegarsi della nuova politica estera di Donald Trump, che somigliava parecchio alla vecchia politica estera di Barack Obama. Abbiamo sentito il segretario stampa presidenziale Sean Spicer dire che Trump "esigeva che il governo russo... restituisse la Crimea" all'Ucraina.
Poi Il Segretario alla Difesa James Mattis al quartier generale della NATO a Bruxelles, il Segretario di Stato Rex Tullerson all'incontro dei ministri degli esteri del G20 a Bonn e il Vicepresidente Pence alla conferenza sulla sicurezza a Monaco hanno giurato immutata fedeltà alla NATO, e hanno insistito sul fatto che qualsiasi nuova tornata di colloqui con la Russia debba essere condotta "da una posizione di forza" e debba mirare a far sì che la Russia risponda della piena attuazione degli accordi di Minsk, il che significa che tutte le sanzioni rimangono in vigore fino al raggiungimento di un traguardo cui il governo ucraino ha frapposto ogni sorta di ostacoli intanto che ne incolpava Mosca.
A simili segnali di cedimento dell'amministrazione Trump, che fanno pensare ad un proseguimento della disastrosa politica estera degli ultimi venticinque anni, i rinfrancati nemici della distensione a Capitol Hill sono andati aggiungendo ancor più sanzioni e ancor più minacce. In risposta ad una serie di pretese violazioni del Cremlino al trattato sui missili a medio e corto raggio, che risale al 1987, il senatore repubblicano dell'Arkansas Tom Cotton ha presentato un ordine del giorno che autorizzerebbe la reinstallazione di missili cruise a testata nucleare in Europa. Nel caso si arrivasse alla sua messa in atto, i principali traguardi raggiunti dal disarmo ai tempi di Reagan verrebbero meno, riportandoci ai tempi della guerra fredda vera e propria.
La cosa ha inquietato i sostenitori di Trump, sembra abbia deluso qualcuno a Mosca e non è riuscita a rassicurare gli ansiosi europei alla conferenza di Monaco. In Europa stanno andando in confusione perché non sanno quale corrente dell'amministrazione rispecchi più correttamente la futura politica statunitense, se a spuntarla sarà l'ala di Pence, Mattis e Haley -come si spera in Europa- o invece il triumvirato di Trump, Bannon e Miller, che Bannon spinge a considerare l'Unione Europea come un inutile costrutto e che prevede di condurre le future relazioni con l'Europa su base bilaterale con i singoli paesi.
Quale delle due posizioni riflette con più accuratezza la probabile condotta ameriKKKana? L'establishment è già riuscito a far sì che Trump tornasse sui propri passi? Chi è adesso che parla per il Presidente?
La risposta è facile da trovare. Basta ripensare alla chiara spiegazione di Pat Buchanan su come Trump è diventato Presidente: "Ha notato in patria l'ascesa del nazionalismo ameriKKKano e quella dell'etnonazionalismo in Europa, ed ha appoggiato la Brexit. L'establishment statunitense di ambo le parti tiene nel massimo conto le diversità; Trump invece ha visto che il ceto medio teme il mutamento demografico portato dall'invasione dal Terzo Mondo, e ha promesso di fermare gli immigrati."
Si tratta dell'ala di Trump e Bannon, ovviamente. Nel caso Trump abbandonasse la visione del paese e dell'Europa che lo hanno portato alla massima carica, potrebbe anche finire diritto nella spazzatura e non essere rieletto.
A giudicare dal guazzabuglio di messaggi che ha prodotto il suo eterogeneo ensemble, il signor Trump non mostra alcun segno di voler tornare indietro. Torniamo allora alla questione fondamentale: in cosa consiste la sua politica estera? Semplicemente in una cosa. Se il Presidente Trump vuole mantenere il suo 84% di approvazione tra i repubblicani e rimanere in carica, non può fare che una cosa: continuare a sostenere "le vittime appartenenti alla classe operaia e quegli ameriKKKani dimenticati" (come li ha definiti Buchanan) del Mid West, del Michigan, dello Indiana, dello Ohio, dello Wisconsin e della Pennsylvania.
Il solo modo per farlo è riportare in patria posti di lavoro nel settore manifatturiero, a beneficio di questa base elettorale politicamente pericolosa, formata dal ceto medio bianco. E il solo modo per riportare in USA questi posti di lavoro è grazie ad un dollaro debole. Per i piani di Trump, un dollaro forte sarebbe micidiale.
Il dollaro oggi è troppo forte perché sia possibile un qualunque apprezzabile ritorno del manifatturiero negli USA. Trump deve impedire che il dollaro salga, per qualsiasi motivo. Nella sua primissima intervista all'atto dell'insediamento rilasciata allo Wall street Journal Trump ha espresso innnanzitutto la volontà che il dollaro perdesse quota.
Ecco, dunque. Il primo obiettivo di Trump in politica estera è il rientro di posti di lavoro a beneficio del ceto medio; nella pratica, questo significa avere un dollaro debole. In secondo luogo, la funzione essenziale della distensione con la Russia, a parte la comprensione da parte di Trump del fatto che la borghesia ameriKKKana è stanca di guerra, è che la distenzione potrebbe produrre un "dividendo di pace" che sarebbe vitale per la ricostruzione delle infrastrutture ameriKKKane oggi a pezzi. In campo fiscale questo dovrà avvenire in modo da non causare un aumento delle tasse se Trump vuole evitare un brutto attrito con i suoi sostenitori del Tea Party, aggressivamente coservatori da questo punto di vista.
Insomma, la distensione con la Russia rappresenta una necessità per il piano politico interno; è indispensabile per potersi dedicare alla ricostruzione del disastrato tessuto sociale delle zone urbane che gli hanno dato il voto. Non è cosa ancorata ad un particolare orientamento ideologico in politica estera, ma con il dato puro e semplice dell'esasperazione della gente.
Ovviamente, volere un dollaro più debole ed anche la distensione con la Russia non significa che Trump riuscirà ad ottenerli; continuerà a doversela vedere con un fronte interno propenso a resistere e a girare nel manico. Sono questi due obiettivi tuttavia a rappresentare la prospettiva che Trump ha assunto per formulare la propria politica estera in un più lungo termine. Nell'immediato, forse, stiamo assistendo ad una sosta tattica dovuta a quanto il sistema ha lasciato trapelare in malafede al pubblico e alla perdurante guerra condotta dai principali mass media. Una sosta per consentire a Trump di ultimare la formazione di governo, di turare le falle alla sicurezza delle informazioni, di mettere in riga i suoi e di chiudere la contesa con parte dei mass media di cui sopra.
Pare che le falle stiano venendo pian piano riparate; un lavoro impegnativo che richiede un sacco di tempo. Solo che non è molto realistico per Trump arrivare ad un accordo con la Russia o con la Cina intanto che si trova praticamente sotto assedio e che la sua stessa permanenza in carica viene ampiamente messa in discussione. Inoltre, cosa ormai di pubblico dominio, Trump crede si debba negoziare da una posizione di forza, non da una di debolezza. Probabile che Pence e Mattis siano stati mandati in Europa per diffondere l'equivalente di un balsamo anestetico, intanto che si sistemano le difficoltà del primo mese.
Insomma, come potrebbe essere perseguita in termini pratici questa linea politica? Se Trump dovesse imporre misure protezionistiche agli altri paesi (alla Cina, per esempio) la conseguenza verosimile sarebbe un deprezzamento delle rispettive monete. Un dazio del 30% potrebbe avere come risultato una svalutazione del 30%. Qualcosa di simile è successo con il peso nel caso del Messico. Se la moneta messicana o quella cinese si indeboliscono, il dollaro si rafforza ipso facto, indebolendo la capacità di competere dgli USA.
Ci sono due strade percorribili. La prima è quella di negoziare bilateralmente, poniamo, con la Germania, il Giappone, la Cina ed altri paesi, per imporre loro una rivalutazione delle rispettive monete o che ne tengano almeno stabile il valore, pena le conseguenze del protezionismo iposto dagli USA che danneggerebbe pesantemente le loro economie. Altrimenti, Trump potrebbe tornare alla tattica usata da Reagan a metà anni Ottanta; all'epoca l'allora Presidente degli USA riunì a Parigi i principali ministri delle finanze e le autorità delle banche centrali, per comunicare loro che non dovevano lasciare che il valore del dollaro salisse ulteriormente dopo il rapido apprezzamento dell'inizio degli anni Ottanta. Quelli che furono chiamati "gli accordi del Plaza".
Sembra che Trump abbia scelto la prima strada, quella del bilateralismo; ha già detto chiaramente che vuole negoziare su basi ben più ampie che non la stabilità del cambio con le valute estere. In agenda ci saranno accordi commerciali specifici e per gli investimenti negli USA, e ci sarà anche l'uso, che Trump ha dichiarato di voler fare, dell'estensione della difesa statunitense come do ut des nei negoziati bilaterali; l'ombrello difensivo statunitense non sarà un bene ampiamente sovvenzionato, ma un qualcosa che gli USA forniranno in cambio di un maggior ritorno economico.
Le implicazioni di questo modo di intendere le cose sono significative. Non significa per forza che Trump voglia dividere la Russia dalla Cina. Trump, nella sua logica, non è in fin dei conti intenzionato a ricorrere al protezionismo contro la Cina al di là del farne uso come carta negoziale. Mettere dazi punitivi sulle merci cinesi significherebbe probabilmente rafforzare il dollaro e rischiare la svalutazione dello Yuan, o addirittura una sua svalutazione massiccia. Trump vuole invece un accordo. Un accordo che porti in AmeriKKKa posti di lavoro, e investimenti cinesi nelle infrastrutture.
L'idea che l'AmeriKKKa abbia bisogno di dividere la Russia dalla Cina (o dall'Iran) per motivi strategici di un qualche genere, anche se probabilmente fatta propria da qualche esponente del governo, appartiene sostanzialmente ad un vecchio modo di pensare. Appartiene all'epoca dei neoconservatori, che dava per assodato che l'AmeriKKKa dovesse restare egemone nel campo della difesa e della finanza mondiali e che dunque dovesse arginare e indebolire qualunque potenza in ascesa in grado di tenere testa. La Russia non romperà mai con la Cina. Ma -nella logica di Trump- perché mai ci si dovrebbe curare di questo, se si arriva ad accordi commerciali soddisfacenti con ciascuno dei due paesi, anche se Kissinger potrebbe cercare di persuadere Trump altrimenti?
Secondo questa logica la guerra all'Islam radicale -Trump ha chiesto al Pentagono di fare delle proposte in merito- non comporterebbe per forza un intervento militare decisivo degli USA in Medio Oriente. Un mutamento nella linea politica e nella linea etica, attuati da una CIA riformata, invece di usare l'Islam radicale come uno strumento per perseguire i propri fini porterebbe in sé e di per sé ad un cambiamento profondo. Un cambiamento che passerebbe velocemente ai servizi europei e che, più lentamente, a farsi recepire anche dalla mentalità dei Paesi del Golfo.
Pat Lang, ex funzionario superiore dei servizi della difesa afferma che un piccolo spostamento nel "pensiero di gruppo" burocratico da un paradigma ad un altro può portare a mutamenti cruciali, per semplice virtù del fatto che ci si accosta ad un problema da un punto di vista differente.
 
1. Il generale Dunford dei Marines, comandante in capo delle forze armate degli Stati Uniti, si incontra questa settimana a Baku in Azerbaigian con il generale Gerasimov, che comanda lo stato maggiore russo.
2. Le mie fonti dicono che le forze aeree statunitensi e quelle russe stanno sempre più coordinandosi e riducendo gli attriti in Siria ed in Iraq. Lo si nota con chiarezza dal fatto che l'aeronautica e la marina bombardano i "moderati" (jihadisti, in realtà) nella provincia di Idlib. Questi attacchi sono stati ovviamente coordinati con le difese aeree russe.
3. La CIA ha smesso di fornire assistenza ai suddetti jihadisti "moderati", e alle forze del "Libero" Esercito Siriano. Non lo avrebbe fatto senza istruzioni da parte di qualcuno che sta al di fuori e ad un livello più alto della stessa CIA.
Cose del genere mi rivelano che nell'amministrazione Trump regna la sanità mentale, non importa quello che vanno pensando o dicendo elementi problematici come Schumer, Waters o McCain.
 
Quali sono allora i rischi più gravi nell'approccio di Trump? Non si può negare che ve ne siano. Qualsiasi aumento della tensione internazionale di solito conduce ad un ricorso massiccio al dollaro statunitense, inteso come valuta sicura, e dunque ad un suo rafforzamento. Questa è una buona ragione per cui Trump potrebbe limitarsi alla retorica contro l'Iran, invece di passare all'azione.
In secondo luogo, nonostante Trump abbia cercato di sminuire a parole il valore del dollaro, la maggior parte delle sue politiche (il rientro dei capitali delle società, la deregulation, il taglio delle tasse) sono del tipo che causa inflazione e che dunque spinge il dollaro verso l'alto. Lo stesso vale per i comunicati della Federal Reserve su un ventilato aumento dei tassi di interesse per il mese prossimo. Non è chiaro se Trump riuscirà a mantenere debole il dollaro a fronte della generale sensazione di una salita dei tassi di interesse. L'indice dell'inflazione di David Stockman si basa su più realistiche valutazioni di prezzo dell'eneriga, dell'alimentare, degli alloggi e dell'assicurazione medica di quelle usate dall'indice dei prezzi al consumo, e oggi come oggi mostra una crescita annua ben oltre il 4%.
In terzo luogo, la Cina può comunque mandare all'aria i piani di Trump. Come afferma un competente osservatore economico,
...ho forti dubbi che un'ampliamento di credito da parte dei cinesi per oltre cinquecento miliardi di dollari all'inizio del 2017 avrà sull'inflazione un impatto diverso rispetto a quelli dell'inizio del 2016...
La tendenza inflazionistica si evolve in modo significativo nel corso del tempo... La liquidità tenderà ad enfiare ancor di più le classi di valori già enfiate, e denaro liquido mobile andrà ad ingrossare una bolla speculativa in rapidissima crescita. Un rapido aumento dell'inflazione nella crescita del credito può avere impatti molto diversi a seconda delle aspettative sulle inflazioni, della struttura economica e della natura dei flussi finanziari.
Direi che oggi come oggi le autorità cinesi devono contenere una montante leva finanziaria e sbilanciamenti crescenti; un compito più scoraggiante oggi rispetto a qualche mese fa.L'orologio continua a scoccare, e le probabilità che pechino sarà forzata a prendere quel tipo di ptovvedimenti che rischiano di provocare incidenti stanno crescendo.
Questi rischi di inflazione sono per Trump una minaccia, assai più della improbabile prospettiva di un impeachment. Trump ha sempre detto che, chiunque avesse vinto le elezioni presidenziali, si sarebbe presto o tardi trovato davanti una crisi finanziaria e probabilmente una concomitante crisi sociale. Come la maggior parte delle rivoluzioni, anche la rivoluzione di Trump non può permettersi di fermarsi: se non può andare avanti, o non va avanti comunque, torna indietro. Ritorneremmo al passato. E le implicazioni di questa prospettiva, senza dubbio, Trump le capisce benissimo.