Traduzione da Consortium News, 10 luglio 2017.
Verso il 1920 Harry Philby, giovane ed ambizioso ufficiale britannico, spinse un capo saudita -all'epoca non ancora re- ad alzare il tiro: poteva diventare il capo del mondo arabo scatenando una sollevazione con gli wahabiti e trasformarsi in un sovrano vero e proprio. Per prima cosa però era assolutamente necessario assicurarsi il sostegno del governo britannico; in secondo luogo il capo saudita avrebbe dovuto cambiare l'aspetto dei masnadieri nomadi che costituivano il suo Ikhwan assassino. Abdul Aziz, spesso in Occidente chiamato Ibn Saud e primo re dell'Arabia Saudita, ebbe successo in entrambe le questioni, anche se nel secondo caso si limitò ad avvalersi dell'opera sterminatrice dei britannici.
Nel 2016 Mohammed bin Zayed, un ambizioso principe del Golfo, ha spinto un giovane principe saudita che vorrebbe diventare re ad alzare il tiro: poteva diventare il capo del mondo arabo scatenando una sollevazione con gli wahabiti e assicurare all'Arabia il primato sul mondo arabo. Per prima cosa però era assolutamente necessario assicurarsi il sostegno del governo sionista, cui avrebbe fatto séguito quello statunitense; in secondo luogo, egli avrebbe dovuto cambiare l'immagine dell'Arabia Saudita da una basata sull'identità islamica ad una più rivolta all'ambiente globale occidentale e finanziarizzato. Mohammad bin Salman (MbS), un nipote di Abdul Aziz detto Ibn Saud, può fallire in entrambi i compiti. Per quale motivo? Perché nessuno degli attori in questa replica della storia è forte quanto pensa di essere.
"A partire dai primi incontri, Philby rimase affascinato dal leader saudita", afferma la storia, e alla fine si convertì allo wahabismo e trascorse gli anni che gli rimanevano alla "corte" di colui che era nel frattempo diventato il re. La "regalità" saudita e la sua illimitata propensione allo sperpero hanno sempre esercitato un fascino potente sulle élite anglo-ameriKKKane. Chiaramente, Trump è rimasto affascinato allo stesso modo nel corso della sua visita a Riyadh, al punto che ha ignorato il segretario alla Difesa e quello del dipartimento di Stato preferendo avallare il tentativo di bin Salman di far implodere politicamente il Qatar, e ha lasciato i segretari Tillerson e Mattis a cercare di ricomporre la disputa venutasi a creare e a tirare maldestri fendenti all'aria, visto che una voce ufficiale della Casa Bianca ha qualificato come "opinioni personali" le loro dichiarazioni, intese come contrapposte all'editto presidenziale emesso via Twitter.
Come risultato si è avuto un ginepraio, per la diplomazia ameriKKKana; un ginepraio che potrebbe portare a conseguenze geopolitiche negative per gli USA. Che cos'è che è andato male? Sembra che tutte le parti in causa in questo affare abbiano sovrastimato le proprie capacità di raggiungere lo scopo, e che lo "schieramento occidentale" sia svaporato insieme alla pasticciata prospettiva di una coalizione sunnita e sionista a guida statunitense che avrebbe sconfitto lo Stato Islamico, rimesso al suo posto l'Iran, "fatto sparire" la "questione" palestinese dal tavolo e costruito per Trump delle credenziali in politica estera.
L'accordo tra sauditi e sionisti
In linea di massima il progetto prevedeva che un'Arabia Saudita guidata da MbS si sarebbe gradatamente mossa per il riconoscimento dello stato sionista e al tempo stesso avrebbe provveduto a laicizzare senza chiasso l'Islam di casa propria passando per l'adozione dell'ecopnomia liberale (in modo da ridurre l'ostilità del Congresso statunitense). Bin Salman avrebbe guidato uno jihad sunnita comprendente tutta la regione contro l'Iran, ridimensionandone l'influenza. Col pretesto del "terrorismo" da combattere, avrebbe assestato una mazzata al Qatar, a Hamas e ai Fratelli Musulmani, cosa che ci si aspettava avrebbe compiaciuto alcuni attori fondamentali: la lobby filosionista negli USA, lo stato sionista, l'Egitto e lo stesso Trump. Sicuramente quest'ultimo ne è rimasto compiaciuto: Mohammed bin Salman era stato designato proprio a questo scopo.
L'equivoco è stato pensare che USA e stato sionista avrebbero agito di concerto per indebolire ed arginare l'Iran, la bestia nera dei sauditi, e che lo stato sionista sarebbe al tempo stesso andato incontro all'intrapresa normalizzazione dei rapporti messa in atto da bin Salman per progredire in qualche modo sulla questione palestinese.
Il problema è che le parti in causa sembrano aver nutrito aspettative esagerate in merito agli obiettivi che ciascuna diesse poteva realisticamente pensare di raggiungere. Nello stato sionista poteva anche esserci qualcuno dotato di prospettive più realistiche, ma l'idea che una sorta di riallineamento geostrategico in grado di cambiare le regole del gioco fosse a portata di mano si evinceva con chiarezza dai discorsi dei funzionari superiori dello stato sionista alla recente conferenza sulla sicurezza a Herzaliyya.
La capacità degli USA di far recedere l'Iran dalla Siria, dall'Iraq o dal Libano sembra anch'essa esser stata oggetto di esagerata stima da parte dello schieramento occidentale, che si sta comportando come un "Dipartimento di Stato" alternativo. Lo schieramento occidentale sembra aver ignorato la nuova realtà rappresentata da un asse Libano - Siria - Iraq - Iran che oggi è geograficamente interconnesso, e la portata della mobilitazione militare degli sciiti in corso in Iraq. Allo stesso modo, esso sembra aver ignorato il fatto che non è mai esistita un'opposizione sunnita unitaria nei confronti dell'Iran, che non è mai esistita unità di intenti all'interno del Consiglio degli Stati del Golfo, e che nei paesi sunniti c'è poca voglia di vedere un'altra affermazione dell'egemonia saudita.
ben Caspit è un corrispondente di lungo corso dallo stato sionista; ha scritto, citando un ufficiale superiore, che "ci sono oggi nello stato sionista elementi che ammettono apertamente di aver commesso 'un errore storico madornale' nei primi tempi della sua esistenza, quando hanno fatto la guerra agli sciiti invece di accettarli e di stringere con loro un'alleanza."
"Avremo da pentircene per generazioni", continuava l'ufficiale dell'esercito. "Possiamo solo considerare l'idea di cambiare registro quando sarà finita la rivoluzione iraniana... ma nessuno sa quando questo succederà."
Anche la capacità dell'Arabia Saudita di spingersi oltre qualche limitata concessione di fiducia come il garantire i passaggi via mare intesi come parte degli accordi di Camp David, i diritti di sorvolo e l'instaurazione di telecomunicazioni con lo stato sionista è chiaramente molto limitata in mancanza di un rispettivo e commisurato sforzo dello stato sionista per alleviare le sofferenze dei palestinesi. Né l'Arabia Saudita né alcun altro paese musulmano ccetteranno un qualsiasi esito che pregiudichi, agli occhi del mondo islamico, la posizione di Gerusalemme.
I limiti di Netanyahu
E questo è proprio quello che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu non può ammettere, se non vuole perdere il governo. Non può fare quasi nessuna concessione ai palestinesi se vuole tenere in piedi la sua coalizione. Riesce a far intendere di poter fare di più, e magari lo schieramento occidentale ha preso alla lettera le sue dichiarazioni. Non sarebbe il primo a commettere questo errore.
Anche la debole leadership palestinese non può permettersi di cedere su Gerusalemme. I leader arabi sunniti possono anche esser venuti su a pane e a questione palestinese, ma capiscono che combinare pasticci con lo status di Gerusalemme significa toccare una linea ad alta tensione che può sgretolare la loro stessa legittimità.
Come finirà? Oggi è troppo presto per giudicare l'impatto sull'Arabia Saudita. Le regole del gioco potrebbero cambiare davvero, ma per lo stato sionista l'atteggiamento nei confronti dei palestinesi continuerà ad essere quello di controllare e di garantire lo stato di cose presente. Una eccezione a questo ostinarsi sulla stessa strada potrebbe essere rappresentata dal tentativo che lo stato sionista sta portando avanti per realizzare un cordone sanitario attorno al Golan occupato e per allontanarne le truppe siriane, con particolare riguardo alle formazioni appoggiate dall'Iran. Questo tentativo potrebbe sfociare in una escalation militare di qualche genere. I funzionari sionisti sono preoccupati perché una volta caduto lo Stato Islamico a Raqqa gli USA potrebbero accordarsi con la Russia e levare le tende, lasciando il governo siriano e le forze che lo spalleggiano ad agire sul Golan dall'altra parte della linea armistiziale con profonda frustrazione per lo stato sionista.
Non sorprende dunque il fatto che gli alleati dello stato sionista si stiano mobilitando per "tenere gli USA dalla parte giusta del conflitto", ovvero dalla parte dello stato sionista. I neoconoservatori già intravedono il vuoto che si è venuto a creare nella politica estera statunitense con l'aria che tira per la "grande alleanza" dello schieramento occidentale; un vuoto in cui si possono inserire le preoccupazioni dello stato sionista.
Non è una coincidenza il fatto che Mark Dubowitz abbia invocato sullo Wall Street Journal una vera e propria offensiva a tutto campo contro l'Iran, aperta e coperta, e che lo stesso abbia fatto Ray Takeyh sullo Washington Post, scrivendo che "è ora di lavorare per il collasso politico dell'Iran." Di fatto, questi editorialisti invocano la resurrezione dell'AmeriKKKa, dell'etica della guerra fredda, delle sue pulsioni istintuali.
Mi chiedo se il Presidente Trump ha davvero la volontà politica, o il desiderio, di arginare l'Iran con i metodi di una guerra fredda in piena regola come vorrebbero gli alleati dello stato sionista e Mohammed bin Salman. Probabilmente se ci prova si ritroverà isolato, con soltanto lo stato sionista e i suoi alleati a pretendere che l'AmeriKKKa impieghi in questo modo le proprie energie e magari anche la vita dei propri soldati. Gli europei -ovvero la Francia e la Germania- hanno già deciso di opporsi all'AmeriKKKa per quanto riguarda l'Iran: i due governi hanno approvato un accordo preliminare con l'Iran per lo sviluppo del giacimento di gas chiamato South Pars per un totale di cinque miliardi di dollari; Cina e Russia sono già partner strategici e commerciali dell'Iran.
Sembra piuttosto che l'amministrazione statunitense stia lentamente realizzando che la linea politica schiettamente neoconservatrice adottata in politica estera dal cosiddetto schieramento occidentale sta lasciando la presidenza USA senza nulla da dire al Presidente russo Vladimir Putin. Le dichiarazioni rilasciate prima del G20 dal Segretario di Stato Rex Tillerson circa la situazione in Siria, e che ammettono effettivamente che la Siria è nelle mani dei russi, possono riflettere una prima presa di consapevolezza di quella che è la situazione.
Un Trump indebolito
Il vespaio sulla Russia ha indebolito Trump. Nel frattempo Putin si preoccupa innanzitutto di missili balistici, di armi nucleari, dell'espansione della NATO di equilibrio strategico. Appena Trump rilascia una qualche dichiarazione che appena appena sappia di comprensione per le serie preoccupazioni di Putin, si trova ad affrontare l'orda dei segugi dell'establishment liberale che gli scagnano contro dandogli del collaborazionista; proprio quello che è successo dopo l'incontro dei due al G20. Lo stesso vale per l'Ucraina, con l'eccezione di qualche assoluta banalità sull'importanza degli accordi di Minsk, cui Tillerson potrà tranquillamente e più concretamente rimediare in seguito.
Quello che hanno ottenuto gli alleati dello stato sionista e dei Paesi del Golfo con il loro cordone sanitario alle frontiere siriane o con la pretesa di arginare l'Iran e Hezbollah in Siria, o ancora con la balcanizzazione della Siria e con i tentativi di staccare l'Iran dalla Siria inframezzando fra i due paesi il cuneo dei curdi è stato il lasciare Trump a mani vuote. Cosa può offrire Trump a Putin per la guerra allo Stato Islamico, al di là del porre ostacoli ai suoi alleati e al suo obiettivo, che è quello di manenere intatte le infrastrutture e il territorio dello stato siriano. che Putin possa considerare ben accetto ed utile? Allo stesso modo, come può Putin sostenere Trump quando l'agenda statunitense evita come la peste qualunque approccio di qualunque genere nei confronti delle forze che davvero stanno cercando di ripristinare la stabilità in Siria?
La dichiarazione di Tillerson potrebbe essere soltanto il primo accenno al fatto che queste considerazioni sono oggetto di serie meditazioni, come quelle che hanno portato all'accordo fra Putin e Trump per un parziale cessate il fuoco nella Siria sudoccidentale. Presto ne sapremo di più.