Traduzione da Strategic Culture, 12 novembre 2018.

Le elezioni di metà mandato ci sono state. Non c'è stata nessuna "ondata blu" e il risultato è stato tale che entrambi i principali partiti possono affermare di averle vinte. In concreto nessuno si è imposto in maniera decisiva, e Trump se l'è cavata meglio di quanti pensavano. Piuttosto vi sarà una polarizzazione ancora maggiore a livello popolare, e un'opposizione al Congresso ancora più intransigente. Il che significa maggiori difficoltà per portare avanti il paese, e l'aria di crisi e il clima di assedio attorno alla Casa Bianca si faranno ancora più grevi. La promessa di ulteriori tagli alle tasse adesso sembra una chimera, e lo stesso vale per qualsiasi ulteriore grande aumento alla spesa militare (addio allo sperpero per un altro missile a medio raggio?). Controllare il finanziamento del deficit fiscale statunitense non diventa più facile, e diventa più probabile che l'aumento nei tassi di interesse farà calare la disponibilità di spesa federale con la crescita inesorabile degli interessi di un debito che è arrivato al 106% del PIL statunitense o, se il fenomeno verrà ignorato, porrà le condizioni per una grave crisi nei finanziamenti.
Secondo una vecchia prassi, quando un leader trova ostacoli nella realizzazione del programma di politica interna si imbarca in qualche intrapresa al di là della frontiera, di quelle che a prima vista possono apparire più semplici che non il battagliare con le fragilità della propria legislatura, e che invece spesso si rivelano dolorosamente diverse dal previsto. Dopo le elezioni Trump imporrà qualche cambiamento alla propria linea in politica estera?
Si sa che dapprincipio la politica "alla Times Square" del Pentagono lo ha fatto sentire frustrato; con questa espressione si indica la risposta che il generale Mattis avrebbe rivolto a Trump quando questi, nel corso di un incontro per fare il punto della situazione, gli aveva chiesto perché dopo sedici anni di fallimenti gli USA mantenessero ancora tanti soldati in Afghanistan, perché ce n'erano ancora tanti in Corea e perché gli USA erano ancora presenti in Siria. "Ragazzi, voi volete che mandi soldati dappertutto," avrebbe detto Trump; "ma con quale giustificativo?" Mattis gli avrebbe detto semplicemente che la presenza statunitense in quei contesti era necessaria "per impedire che scoppi una bomba in Times Square... Purtroppo, signore, lei non ha scelta," ha soggiunto Mattis: "la sua sarà una presidenza di guerra".
Trump si è già mosso per sistemare una cosa che lo frustrava da molto tempo: ha chiesto a Jeff Sessions di dimettersi. Sembra che intenda mettere fine alla tiritera del cosiddetto Russiagate. Trump ha ulteriormente inasprito durante la campagna elettorale la propria retorica contro le malefatte economiche cinesi, e Xi ha risposto denunciando la protervia statunitense; ci troveremo ad assistere a qualche mutamento di rotta anche nei confronti della Russia e del Medio Oriente? Le dimissionoi di Session all'indomani delle elezioni di metà mandato segnano il ritorno di una qualche agibilità politica per la distensione con la Russia?
Da Mosca, Dimitri Trenin scrive:
 
Per questo fine settimana è possibile che a parigi si tenga un breve vertice ai massimi livelli [fra Putin e Trump] e che faccia seguito un più ampio scambio tra qualche giorno a Buenos Aires. In molti in Russia si chiedono perché mai incontrarsi dal momento che tutti i precedenti vertici -quello di Amburgo del 2017 e quello a Helsinki dello scorso luglio- sembra abbiano fatto più male che bene alle relazioni fra Russia e Stati Uniti. C'è chi consiglia al Cremlino di tenersi alla larga dalla Casa Bianca finché c'è Trump, e a non farsi trascinare nella litigiosa e spietata politica interna ameriKKKana. La teoria operazionale che sottende il consiglio sembra essere questa: lasciamo che la guerra civile fredda in AmeriKKKa si sfoghi, e poi riprendiamo i contatti con chi vince le elezioni del 2020. Putin tuttavia appare determinato a continuare gli incontri faccia a faccia con Trump. Perché insistere in un comportamento apparentemente privo di logica?
Le considerazioni di Trenin sono fondate. I russi sono comprensibilmente irritati e frustrati per quella che percepiscono come una litania quasi quotidiana di strampalate asserzioni di ogni genere sulla loro vocazione al Male. La pazienza è finita; perché mai darsi anche solo la pena di replicare. Più concretamente, il pubblico russo sa che Trump sulle sanzioni ha le mani legate. Le sanzioni sono materia quasi esclusivamente per un parlamento ora a maggioranza democratica; inoltre, almeno fino a oggi, Trump è stato incastrato dall'assioma di "Times Square" del Pentagono, e da una fronda di consiglieri neoconservatori ossessionati da una storica avversione a qualsiasi cosa sia russa.
Interessante è la risposta di Trenin a questo paradosso:
 
L'investimento che il leader russo fa sul presidente degli USA non è gran che dovuto al Congresso o alla politica statunitense nei confronti della Russia, e neppure all'insuccesso o meno del Partito Repubblicano alle elezioni di metà mandato. Per Putin, Trump rappresenta un punto e a capo per la politica estera degli USA. Quello che Putin considera positivo per la Russia è l'elemento di rottura che Trump sta introducendo nel sistema mondiale che gli USA hanno sostenuto dopo la fine della Guerra Fredda.
In altre parole, quello che Putin apprezza è il fatto che Trump è dedito per sua natura allo smantellamento di tutta la panoplia dell'impero ameriKKKano, e con esso, soprattutto, del concetto di egemonia svincolata dalla cultura, cosmopolita e utopistica.
Questo concetto è antitetico alla risovranizzazione e alla via euroasiatica russe e rappresenta dunque un ostacolo fondamentale per l'instaurazione del mondo multipolare caldeggiato da Russia e Cina. Trenin aggiunge: "Trump, per tutte le idiosincrasie e per i suoi comportamenti incoerenti, è [dunque] il leader ameriKKKano più scopertamente favorevole alla Russia in cui Putin possa imbattersi". Più importante ancora di questa ultima considerazione di Trenin  è il modo peculiare con cui Trump intende rendere nuovamente grande l'AmeriKKKa, che passa essenzialmente da una trattativa individuale fondata sul gioco delle parti: Trump non è più il depositario di un'ideologia globale come ai tempi della Guerra Fredda, e il cosiddetto "interesse nazionale" è sempre soggetto a mutamenti.
Fin qui è tutto chiaro. Ovviamente, la leadership russa non può aver mancato di notare che le bordate a mezzo Twitter di Trump stanno rendendole accessibile l'Europa in un modo mai visto prima, anche se ancora tutto da definire. Insomma, eccoli qui: Trump e Putin sono gente da trattativa. Ma questo non significa che esista qualcosa, che esista alcunché di trattabile su cui possano trattare.
La politica estera di Trump non corrisponde affatto agli interessi dei russi: Trump vuole ristabilire una supremazia statunitense unilaterale, vuole rimettere al suo posto la Cina (che è alleata della Russia), la sua squadra di governo vuole scompaginare i piani per le vie commerciali cui stanno pensando russi e cinesi e mettere loro contro un qualche rivale, vuole intromettersi nelle questioni interne della Corea del Nord, compiervi ispezioni e spedire tutte le sue attrezzature nucleari negli USA a mezzo DHL; Trump vuole rovesciare lo stato iraniano, che è alleato della Russia; i suoi consiglieri vogliono destabilizzare la stessa Siria che la Russia cerca di stabilizzare; la sua squadra vuole cacciare Assad e vuole che i curdi diventino un "progetto" occidentale da usare per indebolire la Turchia e la Siria; Trump vuole servirsi della consolidata influenza dell'Arabia Saudita sugli altri paesi del Golfo e sul mondo sunnita per condurre le ostilità contro l'Iran e per costringere i palestinesi a rassegnarsi ad essere dei cittadini di seconda classe in un dispotico "stato-nazione ebraico". Quali spazi di trattativa offre, un elenco del genere?
Nessuno. Torniamo dunque alla prima questione di Trenin: perché mai impegnarvisi? Il Presidente Putin conosce di sicuro la posta in gioco. Sa anche che l'AmeriKKKa, a furia di sanzionare tutti quanti e di servirsi del dollaro come di un randello e delle sanzioni come di una bomba H sta rischiando scopertamente di far collassare i traffici commerciali mondiali.
Altrettanto scopertamente rischiosa è la possibilità che tutto il mondo rinunci alla considerevole sfera del dollaro, la cui esistenza è servita a finanziare per tutti gli ultimi settant'anni i deficit di bilancio statunitensi. Tutte cose messe a rischio nel tentativo di restituire all'AmeriKKKa il suo ruolo di giocatore unico, quello che ha tutti gli assi in mano.
Si scommette sul fatto che si possa far paura agli altri ricorrendo a un linguaggio da mafiosi. Paura che dovrebbe condurre al rientro in patria dei dollari che si trovano all'estero, al loro ritorno a Wall Street, col conseguente indebolimento o col crollo dei mercati emergenti in primo luogo, e poi con l'estensione del contagio all'Europa come conseguenza del venir meno della liquidità in dollari, dalla periferia fino al centro. A quel punto l'AmeriKKKa, che detta legge alle valute mondiali e può erogare (o non erogare) liquidità in dollari, avrà in mano tutte le carte vincenti per negoziare una riformulazione dei traffici mondiali in senso ad essa favorevole.
Esiste un'antica storia cinese che risale al terzo secolo avanti Cristo. Un ragazzo viene mandato dal suo maestro a catturare una lepre per pranzo. Il ragazzo si dirige in un bosco e appena vi arriva vede una grossa lepre che corre a tutta velocità fra gli alberi. Stupito, il ragazzo vede la lepre che sbatte diritta contro un albero rimanendo tramortita. Non deve fare altro che raccoglierla e portarla tutto contento a casa, direttamente in cucina.
La morale della storia è questa: diventato uomo, il ragazzo passò cinquant'anni accanto allo stesso albero, in attesa che altre lepri ci sbattessero contro. Ovviamente non successe mai; non ci si deve dunque aspettare che la storia si ripeta. Il caso degli USA per certi versi è simile. Dopo la seconda guerra mondiale il resto del mondo è andato a capofitto contro un albero ed economicamente è rimasto tramortito nell'irrilevanza. Gli USA non hanno dovuto fare altro che tirar su il proprio pranzo, che giaceva stecchito al suolo. A settant'anni di distanza un Presidente degli USA sta accanto allo stesso albero, spera che il mondo ci vada contro un'altra volta e resti tramortito battendo la testa contro le sanzioni e contro il venir meno della liquidità in dollari, rimanendo lì a farsi tirar su dagli USA e a farsi portare a casa per pranzo.
Questa allegoria non va intesa alla lettera. Ma la sostanza è questa; Xi e Putin l'hanno afferrata. E se il "mondo" riesce ad evitare l'albero di Trump, è probabile che sarà la situazione fiscale degli USA a prendere fuoco.
 
Ora, dopo la morte di Khashoggi, è in corso d'opera anche un nuovo progetto per la sistemazione del Medio Oriente. A quanto si dice gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita sono sul punto di normalizzare i rapporti con la Siria del Presidente Assad, con la riapertura delle missioni diplomatiche a Damasco. Una buona notizia per la Siria, certamente. Su questo nessun dubbio. Ma la vicenda ha un suo rovescio. A quanto sembra l'idea è quella di formare una specie di fronte contro i Fratelli Musulmani in cui troverebbero posto una Siria laica, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. In teoria il fronte sarebbe diretto contro i Fratelli Musulmani, ma in pratica il suo obiettivo è la Turchia, con il suo alleato Qatar. Da tempo i turchi hanno denunciato il complotto che si preparava e si sono messi a cercare di sventarlo. E la Turchia non permetterà né ai sauditi né agli USA di servirsi dei curdi dell'est della Siria come di un cuneo puntato contro il suo ventre molle. Sembra che Erdogan sia in un momento fortunato: sta cercando di strappare la leadership del mondo sunnita ai sauditi e l'assassinio di Khashoggi gli ha fornito proprio il destro che gli serviva.
A giustificare questa nuova alleanza, nel caso essa entri davvero in essere, è il solito bromuro buono per tutti i casi: arginare l'Iran e indebolirlo. Ovviamente ci sono delle gravi pecche: perché mai un simile fronte con la Siria dovrebbe d'un tratto indebolire l'Iran? La siria ha a tutt'oggi, e le ha fin dal 1979, relazioni molto strette con l'Iran. Dagli anni venti del XX secolo la Siria in quattro occasioni ha combattuto duramente contro i Fratelli Musulmani, eppure Siria e Iran fanno causa comune con i palestinesi, gran parte dei quali simpatizza proprio con i Fratelli Musulmani. La Siria non si metterà contro l'Iran; gli stati del Golfo hanno già cercato senza successo di corrompere il Presidente Assad perché rescindesse i legami con l'Iran. La Siria non volterà neppure le spalle ai palestinesi, e anche se le relazioni fra la Siria e il Presidente Erdogan sono tese e stanno prendendo la forma di unb confronto diretto, il Presidente Assad sa certamente che i giocatori di maggiore rilievo e gli alleati stretti come la Russia e la Cina hanno parte vitale in qualsiasi "grande gioco" della Turchia, cosa cui la Siria deve fare molta attenzione.
Mosca può accogliere di buon grado i vantaggi tattici che un fronte come questo le permetterebbe di conseguire e al tempo stesso riconoscere il fatto che è improbabile che l'idea abbia successo. La nuova iniziativa nata nel Golfo ha però un significato più profondo, che è necessario cogliere. Per riassumere in due parole una questione molto complicata, si può dire che nella supremazia saudita, storicamente, l'elemento politico è sempre stato marginale. L'Arabia Saudita deve la propria influenza più al controllo che ha dei luoghi santi, e al suo asserito diritto di interpretare il Corano secondo la propria ottica.
Gli stati del Golfo hanno agevolato gli jihadisti wahabiti nel loro tentativo di sovvertire gli stati iracheno e siriano coi più barbari sistemi. Questo li ha costretti a prendere poi le distanze dal bagno di sangue perpetrato dallo Stato Islamico. Mohammed bin Salman tuttavia si è trattenuto dal condannare esplicitamente lo wahabismo dello Stato Islamico e non ha collegato quanto stava accadendo in Siria e a Mossul ai principi dello wahabismo su cui è stato fondato lo stesso stato saudita. Simili critiche sarebbero state assolutamente inaccettabili per lo establishment religioso saudita.
I paesi del Golfo si sono risolti dunque a non esprimere condanne esplicite e ad esortare le parti a mostrare una non meglio definita "moderazione". Con questa storia della "moderazione" l'Arabia Saudita è diventata sotto certi aspetti abbastanza laica, sia pure senza assimilare principi politici laici e senza ricavarne alcun nuovo modello per il regno. Anziché adottare una completa laicizzazione i giovani principi hanno fatto proprio un neoliberismo da scuola aziendale occidentale, cui hanno aggiunto una estrema centralizzazione del potere rafforzata da un apparato repressivo ubiquo e intollerante. Un modello totalitario in stile Singapore. Nel Bahrein per esempio è oggi lecito fraternizzare con cittadini dello stato sionista, ma parlare bene del Qatar costa dieci anni di carcere.
Alcuni paesi del Golfo sono consapevoli dei rischi che comporta questa virata repressiva. Se non altro, l'uccisione di Khashoggi ha per lo meno gettato una luce negativa sulla repressione politica nei paesi del Golfo. I principi non hanno altro modello e la loro "moderazione" non ha portato idee nuove sulla pratica di governo. Di qui la proposta del nuovo fronte su descritto. L'ostilità verso i Fratelli Musulmani è popolare a Washington perché nel contesto del Golfo costituisce un utile diversivo rispetto alla guerra di Trump contro l'Iran, che non c'è modo di vincere. Un fronte che si oppone ai Fratelli Musulmani rappresenta tanto una giustificazione per l'apparato repressivo in patria quanto una piattaforma per dirigere i paesi occidentali contro la Turchia, che protegge, insieme col Qatar, i Fratelli Musulmani.
Il significato più profondo che è necessario cogliere è dunque rappresentato dalle ansie e dalle paure dei paesi del Golfo. I Fratelli Musulmani sono stati indeboliti e frammentati dalla campagna di logoramento lanciata contro di loro e sono stati messi in larga misura in condizioni di non poter reagire; eppure i paesi del Golfo vogliono una nuova offensiva. Chiaramente i fantasmi della Primavera Araba del 2011, che scosse l'autocrazia tribale, turbano ancora i sonni dei re e degli emiri. Hanno paura.
In ultimo, il Presidente Putin potrebbe anche chiedersi se le elezioni di metà mandato porteranno a qualche cambiamento della linea fin qui seguita in politica estera. Sicuramente non ce ne saranno per quanto riguarda la Cina, ma con i neoconservatori così infiltrati in tanti livelli dell'amministrazione Trump l'unico interrogativo non può essere altro che "cosa vorrà dai russi il signor Bolton, ora?".
A Mosca forse si ragiona tenendo presente l'idea che gli USA possono uscire da questa fase scoprendo di non ritrovarsi a essere la potenza egemone che avevano sperato e di essersi invece bruciati le dita scommettendo sulla supremazia del dollaro, con le ambiziose speranze mediorientali di Trump sparite nel nulla, come già successo fino ad oggi in tanti casi. Perché mai il signor Putin non dovrebbe mantenere con pazienza aperto qualche canale con il signor Trump, per quanto la cosa possa risultare impopolare in Russia dal momento che non c'è altro da aspettarsi se non altre sanzioni statunitensi e altre calunnie. Il signor Putin potrebbe aspettare la Quarta Svolta[*], e il relativo sovvertimento politico.


[*] La "fase apocalittica" nelle teorizzazioni politiche di Steve Bannon, N.d.T.