Traduzione da Strategic Culture, 27 novembre 2023.

 
Il mago entra in scena avvolto dal suo mantello nero. Arrivato in mezzo al palco mostra a tutti il suo cappello: è vuoto. Lo picchietta leggermente per dimostrarne la solidità. Il mago prende alcuni oggetti e li mette nel cappello. Ci mette il sequestro da parte di AnsarAllah di una nave di proprietà sionista (la situazione è "monitorata"); ci mette gli attacchi iracheni alle basi statunitensi (il mainstream ci ha fatto a malapena caso); ci mette anche i mille missili lanciati da Hezbollah nel nord dello stato sionista; ci mette la guerra in Cisgiordania. Il mago si rivolge di nuovo al pubblico: il cappello è sempre vuoto. Il pubblico sa che quegli oggetti possiedono una realtà fisica, ma in qualche modo sono stati magicamente offuscati.
È in questo modo che il mainstream occidentale mantiene la deterrenza, minimizzando il fatto che c'è una guerra in corso tramite quello che Malcom Kyeyune chiama "un simulacro di pace", in cui si sminuisce senza chiasso un conflitto e si ricorre in silenzio -parafrasando Kyeyune- a una "domanda molto postmoderna": qual è esattamente il significato di "non combattente" civile?
Un aspetto di questo presentare il conflitto in modo attutito è lo scambio di ostaggi che è stato concordato. Una cosa reale, che allo stesso tempo puntella l'infondata convinzione per cui una volta annientato Hamas e liberati gli ostaggi si possa far entrare il problema di due milioni e trecentomila palestinesi nel cappello del mago, facendolo scomparire dalla vista. Alcuni sperano sinceramente e senza secondi fini che una volta cessati i combattimenti essi non riprendano, e che la fine dei bombardamenti a Gaza possa aprire uno spiraglio a una qualche "soluzione" politica, sempre che questa tregua possa essere prorogata sine die. Soluzione in questo caso non è altro che una parola educata per definire il tentativo di corruzione della UE nei confronti di Egitto e Giordania.
Secondo quanto riferito il Presidente della UE Ursula von der Leyen ha visitato Egitto e stato sionista offrendo denaro (dieci miliardi di dollari per l'Egitto e cinque miliardi di dollari per la Giordania) in cambio della diaspora degli abitanti della Striscia di Gaza in altre regioni; di fatto, per facilitare l'evacuazione della popolazione palestinese dalla Striscia in linea con l'obiettivo dello stato sionista, che a Gaza è quello di fare pulizia etnica.
Tuttavia il tweet dell'ex ministro Ayalet Shaked
"Dopo aver trasformato Khan Yunis in un campo di calcio, dobbiamo dire a ciascun paese di prendersene una parte: due milioni, e abbiamo bisogno che se ne vadano tutti. Ecco la soluzione a Gaza"
non è che una delle considerazioni con cui gli alti gradi della politica e della sicurezza sioniste esaltano quella che lo stato sionista è sempre più propenso a considerare come la "soluzione" per Gaza. Comportandosi in modo così esplicito, la Shaked ha probabilmente affondato l'iniziativa della Von der Leyen: nessuno stato arabo vuole essere complice di una nuova Nakba.
Una hudna, una tregua, ha inevitabilmente un carattere molto precario. Nei combattimenti del 2014 quando le forze armate dello stato sionista hanno iniziato a rastrellare Gaza dopo l'inizio del cessate il fuoco, il risultato fu una ripresa degli scontri e la fine della tregua. I combattimenti proseguirono per un mese.
Due lezioni fondamentali che ho imparato cercando di concordare tregue per conto della UE durante la Seconda Intifada sono state che una tregua è solo una tregua -entrambe le parti la usano per riposizionarsi per i successivi scontri- e che la fine degli scontri in una località circoscritta non diffonde la de-escalation in un'altra località geograficamente distinta; al contrario invece un'esplosione di violenza eclatante è contagiosa come un virus e si diffonde immediatamente.
L'attuale scambio di ostaggi è incentrato su Gaza. Ma lo stato sionista ha tre fronti di conflitto aperti: Gaza, il confine settentrionale con il Libano e la Cisgiordania. Un incidente su uno qualsiasi dei tre fronti potrebbe essere sufficiente a far crollare la fiducia nelle intese per Gaza e a scatenare nuovamente l'aggressione sionista contro la Striscia.
Alla vigilia della tregua ad esempio le forze israeliane hanno bombardato pesantemente sia la Siria che il Libano. Sette combattenti di Hezbollah sono rimasti uccisi.
Il punto, detto chiaramente, è che i precedenti storici in cui una hudna si è tradotta in progressi sul piano politico non sono poi così numerosi. Il rilascio di un ostaggio, di per sé, non risolve nulla. Il problema della crisi attuale è molto più profondo. Quando in illo tempore la Gran Bretagna promise agli ebrei una patria, le potenze occidentali promisero anche ai palestinesi un loro Stato, nel 1947. Ma non hanno mai tradotto le loro promesse in realtà. Una lacuna che sta raggiungendo il culmine con uno scontro frontale.
L'ambizione del governo sionista di creare uno stato ebraico nelle terre bibliche di Israele mira semplicemente a bloccare la nascita di un qualsiasi stato palestinese, sia in una parte di Gerusalemme sia altrove nella Palestina storica. In questo contesto, le azioni di Hamas avevano proprio lo scopo di rompere questa impasse e l'infinito trascinarsi di "negoziati" infruttuosi.
Non sorprende che il Ministro della Difesa sionista abbia già annunciato l'intenzione di riprendere i combattimenti subito dopo la fine del cessate il fuoco. I funzionari israeliani hanno detto alle loro controparti statunitensi che prevedono ancora diverse settimane di operazioni nel nord della Striscia, prima di spostare l'attenzione verso il sud.
Finora, l'esercito sionista ha operato in aree vicine alla costa di Gaza e in luoghi, come il wadi a sud di Gaza City, dove il sottosuolo non facilita la costruzione di tunnel. In queste zone Hamas non dispone quindi di significative capacità di difesa. Se l'azione militare dovesse riprendere, è probabile che l'esercito sionista si allontani dalla costa settentrionale per dirigersi verso il centro di Gaza City, permettendo a Hamas di manovrare più facilmente e di infliggere maggiori perdite all'esercito sionista e ai suoi mezzi corazzati. In questo senso -con tanti saluti alle illusioni- la guerra è appena iniziata.
Il Primo Ministro Netanyahu è stato descritto sia nello stato sionista che dal mainstream occidentale come un cadavere politico. Comunque sia, Netanyahu ha la sua strategia: ha sfidato apertamente l'amministrazione Biden su ogni questione legata alla guerra, tranne che sull'eliminazione di Hamas. Durante la conferenza stampa di domenica 26 novembre, Netanyahu ha parlato di una "Iron Dome diplomatica", affermando che non avrebbe ceduto alle "pressioni sempre più pesanti... esercitate contro di noi nelle ultime settimane... Respingo queste pressioni e dico al mondo: Continueremo a combattere fino alla vittoria, fino a quando non avremo distrutto Hamas e riportato a casa i nostri ostaggi".
Yonatan Freeman, della Hebrew University, percepisce l'azzardo insito nelle vaghe dichiarazioni di Netanyahu: sfida l'amministrazione Biden, ma si preoccupa di lasciare un sufficiente "margine di manovra" in modo da poter sempre incolpare Biden, ogni volta che viene "costretto" dagli USA a fare marcia indietro.
La strategia dell'esecutivo sionista quindi si basa sulla impegnativa scommessa per cui l'opinione pubblica israeliana reggerà, nonostante l'alta disapprovazione per la persona di Netayahu, a causa dello schiacciante sostegno pubblico esistente verso i due obiettivi dichiarati dal governo di guerra: distruggere il "regime di Hamas" e le sue capacità, e liberare tutti gli ostaggi sionisti.
Alla base della scommessa c'è la convinzione che il sentimento dell'opinione pubblica, incanalato dall'esecutivo sionista col ricorso a termini assolutamente manichei (luce contro oscurità; civiltà contro barbarie; a Gaza sono tutti complici del Male Hamas), finirà per suscitare un'ondata di consensi per l'ulteriore mossa che prevede di togliere una volta per tutte di mezzo questa buffonata dello stato palestinese. Si sta preparando il terreno per una lunga guerra contro il Male cosmico.
La "soluzione", come sottolineano il ministro della Sicurezza nazionale Smotrich e i suoi alleati, consiste nell'offrire ai palestinesi una scelta: "rinunciare alle loro aspirazioni nazionali e continuare a vivere sulla loro terra in condizioni di minorità", oppure emigrare all'estero. In parole povere, la "soluzione" è la cacciata dalle terre della Grande Israele di tutti i palestinesi che non facciano atto di sottomissione. Passiamo ora alle prospettive dei contendenti.
L'Asse unito che sostiene i palestinesi osserva che lo stato sionista continua ad attenersi all'iniziale proposito di distruggere Gaza fino al punto di non lasciare niente, nessuna infrastruttura civile che permetterebbe ai cittadini di Gaza di vivere, se anche solo tentassero di tornare alle loro case distrutte.
Biden ha pienamente sostenuto questo obiettivo, dato che il suo portavoce ha dichiarato:
"Riteniamo che abbiano il diritto di [intraprendere ulteriori operazioni di combattimento a Gaza]; ma [tali azioni]... dovrebbero includere maggiori e più efficaci protezioni per la vita dei civili".
Hasan Illaik, esperto osservatore della sicurezza regionale, asserisce:
I funzionari dell'Asse ritengono inoltre che le dichiarazioni concilianti degli Stati Uniti, che a volte fanno pensare che sia imminente una fase di deescalation, non siano altro che uno sforzo per consolidare un'immagine pubblica pesantemente danneggiata dal sostegno incondizionato che essi hanno fornito all'incessante massacro di palestinesi a Gaza da parte dello stato sionista.
Insomma, lo stato sionista può contare sull'amministrazione Biden e su alcuni leader della UE: sta vincendo? Tom Friedman conosce bene l'esecutivo Biden, e ha scritto sul New York Times del 9 novembre dopo aver visto lo stato sionista e la Cisgiordania: "Ora capisco perché sono cambiate tante cose. Mi è chiarissimo che lo stato sionista è davvero in pericolo, più che in qualsiasi altro momento dalla sua guerra d'indipendenza nel 1948". Inverosimile? Forse no.
Nel 2012, lo scrittore statunitense Michael Greer ha scritto che lo stato sionista è stato fondato in un momento particolarmente propizio, nonostante fosse circondato da vicini ostili:
 
Varie tra le principali potenze occidentali sostennero il nuovo stato con significativi aiuti finanziari e militari; di importanza almeno pari furono gli appartenenti alla comunità religiosa responsabile della creazione del nuovo stato rimasti in quelle stesse nazioni occidentali, che si impegnarono in vigorosi sforzi per raccogliere fondi destinati a sostenere il nuovo stato e in altrettanto vigorosi sforzi politici per garantire il perdurare o l'aumento del sostegno governativo esistente.
Le risorse così ottenute dal nuovo stato gli conferirono un sostanziale vantaggio militare nei confronti dei suoi vicini ostili, e la sua esistenza divenne un fatto abbastanza compiuto da indurre alcuni dei suoi vicini a rinunciare a un atteggiamento esclusivamente conflittuale. Tuttavia la sopravvivenza dello stato dipendeva da tre cose. La prima, e di gran lunga la più cruciale, era il continuo flusso di aiuti da parte delle potenze occidentali per mantenere un apparato militare molto più grande di quanto le risorse economiche e naturali del territorio in questione avrebbero permesso. La seconda erano la continua frammentazione e la debolezza relativa degli stati circostanti. La terza era il mantenimento della pace sul fronte interno, con il consenso collettivo attorno ad una ben precisa scala delle priorità, in modo da poter rispondere con tutta la forza alle minacce provenienti dall'esterno invece di sperperare risorse limitate in schermaglie al proprio interno o in progetti magari popolari, ma che non contribuivano in alcun modo alla sua sopravvivenza.
 
"Nel lungo periodo, nessuna di queste tre condizioni potrà essere soddisfatta a tempo indeterminato... Quando questi consolidati modelli di sostegno si romperanno, lo stato sionista potrebbe trovarsi con le spalle al muro". La settimana scorsa, un importante commentatore sionista ha osservato che:
 
Si potrebbe pensare che una visita presidenziale, un discorso presidenziale, tre visite del Segretario di Stato, due visite del Segretario alla Difesa, l'invio di due gruppi di portaerei, di un sottomarino nucleare e di un'unità del corpo dei Marines, oltre all'impegno di 14,3 miliardi di dollari in aiuti militari d'emergenza, siano la testimonianza del sostegno incrollabile che gli Stati Uniti stanno portando allo stato sionista. Ripensateci.
Sotto il pieno e solido sostegno dell'amministrazione Biden, ci sono correnti pericolose e insidiose che stanno intaccando e inquinando il consenso che l'opinione pubblica degli Stati Uniti mostra nei confronti dello stato sionista. I sondaggi pubblicati la scorsa settimana contengono dati fra i più allarmanti e significativi: il sostegno pubblico allo stato sionista sta crollando, soprattutto nella fascia d'età compresa tra i 18 e i 34 anni. Un altro sondaggio mostra che il 36% dei cittadini statunitensi si dichiara contrario a ulteriori finanziamenti per l'Ucraina e per lo stato sionista: ad approvare il finanziamento per lo stato sionista è stato solo il 14%.
 
Ciò che è davvero notevole è che a guidare la nuova narrazione sono i giovani delle generazioni Z, Y e Alpha. Sfruttando i social media e parlando direttamente ai rispettivi gruppi di pari, hanno fatto conoscere al mondo la tragedia dei palestinesi. Molti avevano una conoscenza limitata della questione, ma il loro senso di giustizia senza filtri ha alimentato la loro rabbia collettiva contro la pulizia etnica della Palestina da parte dello stato sionista.
Anche la seconda e la terza condizione sottolineate da Greer come essenziali per la sopravvivenza dello stato sionista stanno incancrenendo, mentre le placche tettoniche globali si muovono: Le potenze non occidentali non si stanno schierando con lo stato sionista. Si stanno coalizzando per opporsi all'intento dell'esecutivo sionista di farla finita una volta per tutte anche con l'idea di uno stato palestinese. Oggi lo stato sionista è aspramente diviso su quale debba essere il suo futuro, su cosa sia che costituisce esattamente "Israele" e persino sulla questione postmoderna di "cosa significhi essere ebrei".