Lascia che il mare entri è il quinto libro di Barbara Balzerani; è uscito nel 2014 ed è la prima pubblicazione successiva alla fine del lunghissimo periodo di detenzione inflitto all'A. dopo dieci anni di appartenenza ad una formazione armata irregolare. Il testo ammonta a un centinaio di pagine, ripartite in scritti di lunghezza variabile che tracciano un racconto autobiografico di storia familiare sulle condizioni di vita delle donne di tre generazioni, soprattutto quella della bisnonna materna e della madre dell'autrice. All'attivismo politico dell'A. e alle successive vicende della guerriglia e della detenzione sono riservati soltanto scarsissimi e stringati cenni. Rispetto agli scritti precedenti lo stile è più scorrevole e meno contraddistinto da densità e asciuttezza.
Il titolo è ispirato dalla conformazione tutta particolare di una vecchia abitazione di pescatori sullo stretto di Messina, in cui l'ondata della marea può entrare e uscire da una rimessa per le barche senza trovare ostacoli. La Balzerani ne riferisce a conclusione del libro per farne la metafora di una weltanschauung rispettosa della terra e degli elementi naturali ancora identificabile in quanto resta dell'operato di generazioni passate e quasi cancellata dalla modernità e dai suoi fenomeni di massa.
Fra i primi temi affrontati, le condizioni di vita e di lavoro ai tempi dell'infanzia materna in una valle del vicentino in cui "appena raggiunta saldezza di gambe nessuno mangiava alle spalle degli altri" e in cui frequentare la scuola era motivo di oroglio e di speranza; una realtà stravolta dai decenni al punto che, ignorando puramente e semplicemente realtà come il freddo e la fame, un nipote della figura descritta avrebbe reagito decenni dopo con un incredulo "...Mi stai dicendo che dovrei andare a lavorare?!" a fronte del consiglio più ovvio su come procurarsi del denaro. Una vita quotidiana cui sovrintendeva in casa una nonna vedova da tempo immemorabile, animata da una presenza tanto attiva che a paragone "i maschi di casa apparivano spenti, infiacchiti precocemente dalla fatica e dai litri di troppo" "come ragazzini che da soli non ce la fanno" da lusingare in modo da non averli "sempre sulle spalle". E soprattutto pervasa da una consapevolezza delle leggi dell'universo tale da rendere superflua qualsiasi professione di fede.
Il tema fondamentale del libro è identificabile in questa consapevolezza e nelle sue variazioni -per non dire della sua scomparsa, e della necessità di un suo recupero- riscontrabili nelle generazioni portate a esempio.
La consapevolezza da invocare nei momenti di difficoltà come quelli del cambiare del corpo nell'adolescenza, quella che permetteva di accettare gli eventi della vita e la morte stessa; una "intelligenza delle forze che regolavano il mondo" contro cui irrompe l'arrivo della modernità, prima con le ribellioni che fanno capolino nei racconti delle veglie a far capire come a volte la giustizia "si sbendi e colpisca veloce", poi con le lotte sociali. E con la percezione che l'istruzione e la scuola possano garantire una vita migliore, in un'epoca in cui si fa rapidamente strada la convinzione che "una buona vita" dipendesse "da quanta innovazione poteva essere messa nella produzione materiale e quanta giustizia nella sua distribuzione". L'A. si reputa "più fortunata" per una rivoluzione che il maestro della madre aveva solo vaticinato e da cui lei viene "sorpresa in piena giovinezza". "Un esercito di irregolari si esercita a rivoluzionare lo stato presente delle cose", lasciando macerie di antiche ingiustizie.
E l'intelligenza su accennata che continua a mostrarsi a sprazzi, anche nei contesti urbani più abbrutiti.
In questo, Balzerani identifica nella generazione materna quella che ha pagato in buona sostanza il prezzo più alto, perché "prodotto di spinte contrapposte, di modelli mescolati, di cambiamenti straordinari". Nello specifico la prima guerra mondiale a ridosso del fronte, l'emigrazione verso le fabbriche del Lazio, un'altra guerra preceduta dalla disconferma di molte speranze e da una vita in un "grigio paese dei balocchi". Un grigiore che accomuna città e periferie, dove -ancora- a sprazzi torna l'armonia tra vivente e materia, come nell'architettura di Antoni Gaudí.
Ancora, la resa "alle suggestioni del migliore dei mondi possibili", il futuro che passa da "un cielo pesante di fumi e di aria avvelenata" in cambio di una busta paga ogni mese, non solo in quelli "con qualche cosa dentro i sacchi del raccolto". Una situazione che, a detta dell'A., la farà nascere e crescere "in un girone di violenti contro gli dei e contro la natura" reso sopportabile dalle catene ancora relativamente allentate dai sempre possibili sprazzi della intelligenza su ricordata, fino all'ammonimento della strage del Vajont a indicare che quella imboccata era una strada senza ritorno. I contrasti sempre più forti tra una madre che vede giustizia sociale in una vita meno grama e una figlia che la vede nella rivoluzione imminente, entrambe non consapevoli del fatto che per rimediare ai danni di cambiamenti tanto veloci non sarebbe stato disponibile alcun secondo tempo. Fino a che "il tempo veloce si è fermato" lasciando tutti incastrati fra rottami neanche tanto metaforici, "nella palude di deboli pensieri unici, nei cimiteri di fabbriche chiuse".


Barbara Balzerani - Lascia che il mare entri. DeriveApprodi, Roma 2014. 108 pp.