Il 16 marzo 1978 una formazione armata irregolare mise in atto il sequestro di Aldo Moro, all'epoca deputato e presidente del principale partito politico attivo nella penisola italiana. Nell'azione furono uccisi i cinque militari che lo scortavano. Cinquantacinque giorni dopo l'ostaggio fu a sua volta ucciso e il corpo fatto ritrovare nel bagagliaio di un'auto nel centro di Roma.
A oltre quarant'anni dai fatti, Paolo Persichetti è tra quanti sostengono che l'accaduto possa e debba essere esaminato storicamente. Un punto di vista che incontra una certa contrarietà, per lo più in ambienti non accademici.
I primi capitoli de La polizia della storia potrebbero proprio far pensare a uno instant book sulle vicende dell'A., che dopo aver scontato condanne di considerevole lunghezza per imputazioni legate alla militanza in un gruppo nato dalla stessa formazione armata irregolare è stato più volte oggetto di attenzioni inquisitorie da parte dello stato che occupa la penisola italiana, subendo nel 2021 anche il sequestro di un archivio documentale messo insieme consultando nel corso di diversi anni archivi di stato, biblioteche dei principali organi di rappresentanza, emeroteche e archivi giudiziari. Tutte fonti primarie indispensabili alla redazione di scritti storici e alla confutazione di complottismi, dicerie e falsità che nel corso degli anni hanno proliferato in modo significativo (e spesso remunerativo) sul tema delle formazioni irregolari attive nella penisola italiana negli ultimi decenni del XX secolo, e segnatamente sulla vicenda su ricordata.
La tesi dell'A. è che esistano argomenti su cui l'indagine storica è stata resa più agevole negli ultimi anni dall'apertura di archivi un tempo accessibili solo alla magistratura, alle commissioni parlamentari e ai rispettivi periti e consulenti e che la cosa non sia piaciuta né agli apparati né ai dietrologi.
L'impressione di trovarsi davanti a uno instant book scompare dopo le prime cinquanta pagine perché gli ultimi e molto più corposi tre capitoli del libro hanno contenuti di altra portata e presentano rispettivamente una ricostruzione evenemenziale, una enumerazione delle principali narrazioni complottiste e una esauriente confutazione della "fabbrica di false notizie" che ha prosperato sulla vicenda per vari e poco disinteressati motivi.  
La ricostruzione evenemenziale del quinto capitolo inizia, si sviluppa e si conclude fornendo un elevato numero di riferimenti documentali per la confutazione di diversi filoni di narrazioni complottiste, analizzate ed esposte nel dettaglio nei capitoli successivi. Per afferrarne la portata è utile tenere presente un paragrafo che compare nel capitolo seguente e ricordare che il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro rappresentarono avvenimenti di difficile interiorizzazione per uno establishment che reagì avallando -o quantomeno evitando di contestare- qualsiasi ricostruzione dei fatti che negasse l'evidenza. L'evidenza era che un gruppo armato che agiva di propria iniziativa e secondo una propria agenda aveva fatto tutto da solo, nel pieno centro di una capitale di stato dell'Europa occidentale e usando un arsenale fatto per lo più di residuati. Evidente -e intollerabile- fu anche il fatto che consistenti fasce della popolazione e del corpo elettorale non condivisero la afflitta costernazione dei comunicati stampa e dei comizi, a indicare in quale conto fosse tenuta l'agenda politica dei partiti. L'A. sottolinea in sostanza come le commissioni parlamentari d'inchiesta succedutesi nel corso dei decenni abbiano finito, specie in ultimo, per cercare di adattare narrazioni esistenti ai dati fattuali.

" ...La seconda commissione ha lavorato tre anni per cercare di smontare quanto accertato da risultanze scientifiche. Uno spettacolo surreale che tuttavia non è riuscito a cancellare la conferma che in via Fani le cose sono andate come hanno sempre raccontato i brigatisti: nessun attacco è stato mosso da destra, non c'erano superkiller professionisti, agenti segreti, motociclette coinvolte nell'operazione, nessuno ha sparato contro il parabrezza del teste Marini. Abbiamo anche la certezza genetica che sfata la leggenda di Moro tenuto o passato in via Gradoli e sappiamo che l'esecuzione del presidente DC all'interno del box di via Montalcini è compatibile con il luogo, le risultanze balistiche, l'analisi splatter (le gocce di sangue)e audiometrica degli spari. Insomma, è calato il sipario sulla dietrologia in via Fani".

In queste righe si riassumono molti dei punti presi come appiglio da ricostruzioni complottiste che li pretendevano e che li pretendono oscuri. Punti che oscuri non erano, e men che meno lo sono oggi alla luce delle ripetute indagini forensi svolte anche con tecnologie non disponibili alla fine degli anni Settanta. Tutto con buona pace di quello che Persichetti definisce "un circo Barnum di pagliacci e di mitomani" dietro cui si celerebbero "figure senza scrupoli" all'epoca magari in forza a qualche apparato statale ma oggi per lo più appartenenti all'industria dell'intrattenimento editoriale e televisivo, cui non è estranea la ricerca di un qualche residuo tornaconto elettorale. Tra i vari dati di fatto ormai al di là di possibili contestazioni è interessante soffermarsi sul teste Marini e sul parabrezza del suo ciclomotore che sarebbe stato mandato in pezzi da proiettili sparati da persone a bordo di una mai esistita moto di grossa cilindrata nonostante le prove fotografiche già disponibili allora facessero propendere per una rottura pregressa. Sull'unica base di quella testimonianza non solo fu avallata una versione falsata degli eventi, ma furono emesse condanne per un tentato omicidio mai avvenuto. E si tratta solo di uno degli esempi possibili in una vicenda divulgata per decenni dando per incontestabile che componenti sostanziali come quella appena accennata costituissero verità storica perché così aveva stabilito un giudicato processuale.  
Il sesto capitolo del libro approfondisce secondo le linee su accennate le principali narrazioni complottiste: moto inesistenti, accuse prive di riscontri, tesi cospirazioniste alimentate da voci attribuite a persone decedute e al di là di possibili smentite, infiltrati e doppiogiochisti inventati di sana pianta facendo a pugni con ogni decoro e con ogni logica. Il tutto passato con puntualità e diligenza a sceneggiatori, scrittori e divulgatori di pretesa serietà ma confutato in questa sede con toni che a tratti rasentano l'aperto dileggio.
Il capitolo contiene anche uno scritto di Pierluigi Zuffada, un militante del nucleo storico della formazione armata in esame che l'A. indica come "poco incline a prendere la parola in pubblico" facendo una precisazione costruttiva in considerazione del proliferare di una memorialistica (o comunque di pubblicazioni presentate come tale) spesso tutt'altro che obiettiva e disinteressata. Zuffada contribuisce a smentire la narrativa che attribuisce a Mario Moretti -altro militante del nucleo storico- il ruolo di infiltrato. Un ruolo non molto remunerativo se si tiene conto del fatto che l'interessato, a oltre quarant'anni dai fatti, si trovava ancora in stato di semilibertà. Un particolare che merita evidenza perché consente di apprezzare ancora meglio il livello di plausibilità di certe affermazioni.
L'ultimo capitolo del libro definisce la fabbrica delle false notizie, con particolare attenzione alle ultime alzate d'ingegno e alla loro sistematica confutazione resa possibile da un semplice e gelido esame delle risultanze scientifiche. Persichetti ricorda tra le altre cose che ancora nel 2015 sono state realizzate ricostruzioni della scena di via Fani e perizie balistiche allo stato dell'arte e sono state effettuate analisi del DNA su reperti rimasti più di quarant'anni negli archivi, accolte con certo fastidio dagli stessi ambienti teoricamente deputati all'accertamento della verità perché non ne sono venute né ulteriori identificazioni personali né smentite a quanto sempre sostenuto dai protagonisti. L'A. indica anche che i lavori della seconda commissione parlamentare sono stati punteggiati da un certo numero di fughe di notizie e divulgazioni di materiali ad uso interno che portavano a rumorosi effetti mediatici in grado di colmare l'assenza di nuove risultanze concrete.
In chiusura, Persichetti nota che a tutt'oggi la giustizia non soltanto non si sarebbe avvalsa delle evidenze storiche per correggere sentenze prive di fondamento, ma presterebbe ancora orecchio alle voci più ciarliere nonostante le cinque inchieste e i quattro processi giunti a sentenza.


Paolo Persichetti - La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell'affaire Moro. DeriveApprodi, Roma 2022. 284 pp.