Correvo pensando ad Anna
è una storia degli anni Settanta che nelle intenzioni del suo autore vuole superare i limiti dell'autobiografia di un combattente irregolare e portare un contributo alla storia dei Nuclei Armati Proletari, una formazione legata alla realtà carceraria poco illustrata dalla memorialistica e ancor meno indagata dalla storiografia. Le oltre trecento pagine del testo sono ricchissime di aneddotica, di analisi politiche e soprattutto di nomi e cognomi sia di amici che di nemici coi quali l'A. ha intrecciato le proprie vicende, a volte per un episodio specifico a volte per la vita. Un'ottantina di note a piè di pagina aiuta quanti volessero approfondire i temi trattati a rintracciare i riferimenti bibliografici che il più delle volte sono fonti primarie. Il punto di vista, poco incline ai reducismi e in fin dei conti ai giudizi perentori, con l'eccezione di qualche nemico dal comportamento particolarmente abietto anche agli occhi di un osservatore non di parte, è quello di un appartenente alle frange più intransigenti di un movimento vastissimo la cui storia è presto diventata nelle mani dei vincitori materia per esercitazioni propagandistiche e script gazzettieri e librineschi da ripetere a piacimento secondo necessità e il più delle volte anche a sproposito, con un volume di fuoco e una penetrazione verso il pubblico che non sono certo quelle dei piccoli editori che hanno pubblicato volumi come questo.
Pasquale Abatangelo è nato a Firenze nel 1950 da una famiglia emigrata a Patrasso agli inizi del XX secolo ed estromessavi insieme a circa cinquemila persone nel novembre 1945. Sudditi dello stato che occupa la penisola italiana che la resistenza greca considerò a torto o a ragione corresponsabili dell'aggressione subita e che finirono a ingrossare il numero degli ospiti dei centri di raccolta come quello fiorentino di via della Scala. L'A. vi nacque, e visse fino a sei anni in condizioni per lo meno spartane fino all'ingresso in una casa popolare. Un rovescio della sorte indusse i familiari a farlo seguire il fratello Nicola -maggiore di qualche anno- al collegio di Montedomini, "triste recipiente" in cui coabitavano "figli di nessuno, figli di gente che viveva in povertà e rottami alla fine della corsa abbandonati semplicemente a se stessi" la cui vicinanza al carcere delle Murate faceva pensare a una profezia autorealizzante. Un ambiente in cui l'A. descrive un difficile inizio di isolamento anche linguistico e una permanenza a seguire funestata da un altro grave lutto familiare e resa quotidianamente spiacevole dalla presenza di un sacerdote cattolico dalle fin troppo diffuse predilezioni. Un contesto in cui tra pari "la reputazione, il rispetto, la nomea contavano più di ogni altra cosa", condizioni cui contribuivano molti elementi... con la esplicita eccezione dei risultati scolastici. Abatangelo scrive di aver praticamente patteggiato l'esame di terza media a sedici anni compiuti, dopo esservi arrivato "da ripetente inverecondo, decorato di sette in condotta e dell'impreparazione più abissale".
Fuori dal collegio l'A. e il fratello sembrano "avviarsi su binari normali", tra gare di ballo e primi capelloni in Piazza della Signoria e sul Ponte Vecchio. Fino al primo arresto per rissa, dove ingenuità, trascuratezza e grossolane trappole in sede di stesura verbali valgono a Pasquale Abatangelo due settimane al minorile di Bologna, esperienza che lo fa iniziare "ad affrontare la vita con una certa carica di rabbia e di rancore". Persa la fede in Dio per le molestie di un prete, perde quella nello stato "grazie al comportamento disgustoso dei suoi servi più fedeli"; al lavoro di falegname si accompagnano i primi amori e l'esperienza nel movimento beat. Proprio la fine di un amore lo fa ritrovare solo e "quasi catapultato indietro nel tempo. Fu inevitabile tornare a camminare contromano". Gli anni Sessanta sono alla fine e gli hippy e i beat fiorentini, con la loro condotta quotidiana indifferente, insofferente o palesemente ostile nei confronti delle convenzioni sociali offrono all'A. la possibilità di esplicitare "l'orgoglio di una estraneità spazientita e radicale" che passa anche dalle anfetamine.
Abatangelo inizia a pensare ad Anna il 2 febbraio 1969 e inizia una vita picaresca che va avanti fino al secondo arresto per furto con scasso, esattamente un anno dopo.
La "squallida e suprema latrina di Firenze" ha regole e casanza vecchi di decenni, ma i detenuti sono cambiati e colgono immediatamente la contraddizione stridente fra l'arretratezza di quel mondo separato e il suo autoritarismo medievale e la società che sta cambiando tumultuosamente. Carcere e mondo esterno diventano permeabili, il fenomeno delle rivolte si estende anche a Firenze al pari della sua repressione, subìta da un A. che la accoglie con un odio che "zampilla pulito, robusto, capace di durare per anni". Uscito in libertà provvisoria, Abatangelo si prefigge di seguire le gesta di rapinatori di banche ispirati da ideali rivoluzionari come Jules Bonnot, Horst Fantazzini, Pietro Cavallero e Sante Notarnicola. Padre a vent'anni (la seconda a ventitré), Abatangelo viene riformato dopo qualche mese di servizio militare, sposa Anna e lavora come operaio senza abbandonare questo proposito. Riesce a realizzarlo nel febbraio 1972 insieme a un maturo, "freddo, determinato ed esperto" rapinatore che reincontrerà oltre venti anni più tardi in un mondo completamente cambiato. Intanto però magistratura e gendarmeria diventano, in una illegalità di massa che si diffonde rapida, oggetto di disprezzo e non più o non solo di timore furbesco. Sono i mesi della morte di Giangiacomo Feltrinelli, di Franco Serantini, di Luigi Calabresi. "La morte chiamava la morte. Ma non era scritto in partenza che a subirla dovessero essere solo i Pinelli o i Serantini [...] sentii quell'azione come una cosa mia, come la trasformazione di un lamento in una minaccia brutale e orgogliosa. C'era poco da fare festa; era il presagio del destino di una generazione".
Il 90% del tempo tra il 1972 e il 1974 è carcere. Carcere che cambia grazie alla lotta dei detenuti e di chi li sostiene in ogni modo dall'esterno. Nello stato che occupa la penisola italiana si innesca "una dinamica paritaria, orizzontale e osmotica fra banditi e rivoluzionari". Dal rapporto con Lotta Continua nascono le Pantere Rosse che cercano di trasformare il carcere da "università del crimine" a "scuola della rivoluzione". Nelle carceri circolano letture che facilitano una rapida presa di coscienza, molti smettono di subire senza resistere e perdono ogni soggezione nei confronti della gerarchia informale tra detenuti, dominata dagli appartenenti alla criminalità organizzata, fino alla rivolta fiorentina del 24 febbraio 1974 in cui raffiche sparate ai detenuti saliti sui tetti uccidono Giancarlo del Padrone e fanno undici feriti gravi. La rivolta carceraria diventa tutt'uno con la guerriglia all'esterno, provoca altre rivolte nella penisola e ha un virulento seguito il mese successivo quando il carcere viene seriamente danneggiato. Abatangelo rimarca come il fenomeno abbia portato all'adozione del nuovo regolamento carcerario del 1975. Luca Mantini, che fa sostanzialmente la scelta delle armi dopo essere finito in carcere in seguito a una manifestazione politica, è portato da Abatangelo a esempio del mutamento prodottosi in molti detenuti. L'A. ricostruisce dettagliatamente l'adesione ai Nuclei Armati Proletari -formatisi a Napoli e a Roma- da parte di elementi del Collettivo George Jackson fondato da Mantini dopo l'uscita da Lotta Continua, l'introduzione di materiali dei NAP nel carcere fiorentino, le prime riunioni di un'organizzazione che a livello nazionale contava nel 1974 non più di una ventina di militanti attivi, la rapina in piazza Alberti in cui Luca Mantini e Sergio Romeo muoiono il 29 ottobre 1974 e in cui l'A. resta ferito gravemente finendo nuovamente in carcere fino all'evasione nel febbraio dell'anno successivo, alla ripresa dei contatti con i NAP lontano da Firenze e a un nuovo arresto per una prigionia che si prolungherà per i successivi venti anni tra processi, nuove e vecchie imputazioni, trasferimenti punitivi e non. I tentativi di evasione, descritti volta per volta nei loro accorgimenti ingegnosi, saranno per oltre dieci anni un punto d'impegno di un prigioniero che mostra di considerarli un suo preciso dovere.
La descrizione della vita a Volterra è una testimonianza sulla quotidianità carceraria di metà anni Settanta. Nello stesso carcere è prigioniero Edgardo Bonazzi, uccisore del comunista Mario Lupo che Abatangelo "ripaga della stessa moneta" risparmiandogli la vita all'ultimo momento. Nel frattempo le azioni eclatanti dei NAP, per lo più dirette contro figure del sistema carcerario, contribuiscono a far sì che "i prigionieri collegati alla guerriglia" inizino "a surclassare in prestigio ogni altra componente dell'universo penitenziario". Abatangelo e due compagni riescono a far uscire clandestinamente da Volterra una autointervista i cui stralci compaiono anche su rotocalchi di altissima tiratura.
Un nuovo tentativo di evasione costa all'A. il trasferimento nel carcere di Trani. Una struttura di nuova concezione, fuori dai centri abitati e volta ad "assicurare l'efficacia della segregazione sottraendola allo sguardo della comunità". In quel "carcere di merda dove picchiare i detenuti era come giocare a tresette" Abatangelo trascorre in isolamento i mesi che lo separano dai processi a Firenze. Qui la perentoria reazione alla mancanza di parola da parte della direzione gli guadagna una rappresaglia violentissima, il ritorno a Volterra prima e la destinazione a Porto Azzurro poi.
Porto Azzurro si presenta come "un mondo chiuso a metà fra una caserma, un monastero e una cayenna" in cui, assicura un direttore che è la personificazione di "un apparato repressivo potente, sonnolento e implacabile" abituato a "stroncare banditi sardi, delinquenti rurali incappati in faide sanguinose, rapinatori isolati e qualche raro mafioso sacrificato alla tombola del caso", non si esce neppure da morti perché "c'è anche il cimitero". Da qui l'A. viene condotto a Firenze nel maggio 1976 per il processo sui fatti di Piazza Alberti, che Abatangelo affronta rinunciando a una difesa che avrebbe implicato il riconoscimento della legittimità della corte e leggendo un lungo comunicato di rivendicazione orgogliosa e argomentata del proprio operato. A Porto Azzurro le azioni dei NAP e delle Brigate Rosse arrivano dai transistor in una quotidianità metodica in cui viene accolta con euforia ogni variazione della routine. Tra le variazioni, un'evasione che sfocia in insubordinazione di massa promossa dai NAP detenuti. Il gesto ottiene la liberazione dall'inumano isolamento di Porto Azzurro dei complici dell'evaso, e vale ad Abatangelo un nuovo trasferimento a Trani prima e a Napoli poi, per il primo processo ai NAP in tribunali dove si prendono formidabili precauzioni contro eventuali azioni dall'esterno.
La realtà dei processi ai NAP e alle Brigate Rosse è quella del "compromesso storico", degli scandali, di un Aldo Moro che il giorno in cui a Bologna viene freddato Francesco Lorusso va in parlamento a dire che la Democrazia Cristiana non si sarebbe fatta processare nelle piazze. Al processo, i NAP ricusano i difensori, non considerano la corte legittimata a giudicarli e possono contare su un sostegno esterno persistente, chiassoso ed aggressivo. La vicenda processuale diventa una contrapposizione tra la "società ufficiale" e "un mondo di cui era negata l'esistenza" che fa di tutto per impedire il rituale intanto che all'esterno si susseguono le azioni, le evasioni, le rivolte carcerarie. La condotta processuale dei NAP, ormai considerati "il nemico di classe più pericoloso all'interno delle carceri", frutta ai loro esponenti il trasferimento nel carcere dell'Asinara e poi, per l'A., in quello di Favignana prima e di Napoli poi, intanto che il movimento del '77 riempie piazze e strade.
Fino al processo di appello.
La realtà dei fatti mostra una formazione in forte crisi numerica e nell'ambiente chiuso del carcere "che rende i dissensi acidi e rancorosi" alcuni esponenti Abatangelo compreso ritengono sensato continuare la lotta con le Brigate Rosse -che nei mesi e anni successivi colpiscono esponenti del sistema giudiziario e carcerario- pur senza farsene assorbire "come un gruppetto qualunque". I NAP "avevano la loro storia, la loro fierezza, i loro morti rimasti numerosi sull'asfalto per affermare la dignità dei dannati della terra".
La descrizione che Abatangelo fa delle condizioni di detenzione all'Asinara contrasta come più non si potrebbe con l'agiografia continuamente alimentata che circonda la figura di Carlo Alberto dalla Chiesa e soprattutto con quella che non circonda l'allora direttore Luigi Cardullo. In quelle condizioni il rapimento di Aldo Moro e l'annientamento della sua scorta vengono accolti con sincera e rumorosa letizia in una tensione destinata a salire perché il nome di Pasquale Abatangelo figura nella lista dei prigionieri -appartenenti a organizzazioni diverse- di cui viene chiesta la liberazione in cambio della vita dell'ostaggio. I prigionieri sono coscienti della forza e della capillare presenza nelle fabbriche di formazioni armate capacissime di puntare in alto e organizzano la sopravvivenza e le proteste con sistemi ingegnosi e rocamboleschi, fino a giungere alla sostanziale distruzione della sezione di Fornelli. Abatangelo ne descrive il pronto ripristino, accompagnato da un considerevole miglioramento delle condizioni di detenzione: l'obiettivo di condurre i prigionieri al collasso morale era momentaneamente fallito e in un contesto in cui "le masse popolari conservavano una sana diffidenza nei confronti delle forze dell'ordine e degli apparati repressivi" l'Asinara nel mondo esterno diventa oggetto di molte polemiche. All'interno vi si forma una "Brigata di Campo" delle Brigate Rosse, organizzata meticolosamente, compartimentata e dedita allo studio, alla tutela dei militanti e alla programmazione e all'escuzione di azioni. Il funzionamento della Brigata viene dettagliatamente esposto dall'A. che a distanza di decenni ne espone anche i limiti, prima di descrivere un piano per un'evasione di massa con la collaborazione delle Brigate Rosse accantonato per improvvisi e irrimarginabili dissidi interni all'organizzazione e una nuova distruzione del carcere di Fornelli dopo un inasprimento delle condizioni di detenzione.
Nel 1980 l'Asinara è "una frontiera dell'onore controrivoluzionario" che il puntiglio ministeriale non può abbandonare sull'onda della clamorosa rivolta e in cui i pochi prigionieri rimasti vivono in condizioni che minano seriamente le condizioni mentali di alcuni che, garantisce Abatangelo, "meritano grande rispetto perché a differenza di tanti altri piuttosto di scivolare nel tradimento hanno scelto di rimanere fedeli a se stessi imboccando la via della follia e della morte".
Nelle carceri e con l'appoggio entusiastico dei detenuti comuni, i detenuti politici organizzano proteste radicali e clamorose per la chiusura dell'Asinara intanto che gli effettivi vengono decimati dal fenomeno del pentitismo -una "via d'uscita profondamente disonorevole" che assicura "eccezionali sconti di pena" e "una nuova vita protetta dalla possibile vendetta dei traditi"- e che il movimento operaio subisce lo storico disastro dei ventiquattromila licenziamenti alla Fiat nel silenzio di formazioni combattenti costrette a fare l'inventario degli arresti e a riorganizzarsi dalle basi.
Dopo un trasferimento a Firenze, un'azione di protesta in linea con quelle intraprese dagli altri detenuti politici che gli vale un nuovo trasferimento in una Trani "piena come un uovo" dato che "le carceri speciali stavano inghiottendo un'intera generazione di militanti e di ribelli" e i processi contavano imputati a centinaia. Durante questo periodo le Brigate Rosse rafforzano la campagna contro l'Asinara con il sequestro di Giovanni d'Urso -cui il Partito Comunista reagì con "forcaiola ottusità" disgustando anche chi detestava le BR con la "incredibile grettezza del gruppo dirigente raccolto intorno a Berlinguer". "C'era ben poca nobilità nell'evocare la 'tenuta democratica' in difesa di uno scannatoio come l'Asinara", sottolinea l'A. che nel dicembre 1980 prende parte a una rivolta in cui vengono presi prigionieri decine di agenti e che viene stroncata solo dall'intervento di unità di élite. Con l'assassinio di un generale come risposta immediata, a togliere dall'agenda la propaganda sulla legalità ristabilita.
Il muro dell'intransigenza viene rotto al pari di quello dell'informazione anche grazie alla spregiudicatezza della "cavalleria leggera" del Partito Radicale, d'Urso viene rilasciato all'inizio del 1981 dopo l'annuncio della chiusura dell'Asinara. E con Abatangelo trasferito al carcere di Nuoro, dove la riorganizzata "Brigata di Campo" si trova a prendere atto delle ombre, delle incertezze, dei disaccordi e delle rappresaglie montanti dentro e fuori dal carcere, del ricorso alla tortura -specialisti Nicola Ciocia e la sua "squadretta"- cui lo stato che occupa la penisola italiana fornisce copertura politica, in una delle prove di indipendenza per le quali è famoso, dopo il sequestro di un generale statunitense che vale a Giovanni Spadolini una telefonata diretta e inquisitoria da parte di Ronald Reagan.
La liberazione del generale Dozier comporta la cattura di militanti di lunghissimo corso che a sua volta consente "un alluvione di arresti di proporzioni bibliche" tale da stupire gli stessi inquisitori e riduce le formazioni combattenti a poche decine di uomini braccati. Raggiunto dai documenti sulla "ritirata stragegica" nelle dure condizioni di Nuoro, l'A. inizia a dubitare di certa ideologia ribellistica che trova improponible come "soluzione dei problemi complessi della rivoluzione nel capitalismo maturo" e responsabile di una veemenza conformistica dai risultati poco costruttivi. Una serie di considerazioni che tra i sodali gli fa perdere lo status di "dirigente carcerario pluridecorato" che non si esime dal tentativo di impedire per quanto possibile ulteriori implosioni e dispendi di energie. Alla fine del 1982 le formazioni armate sono debellate, Toni Negri teorizza e inaugura il fenomeno della dissociazione allestendo una via d'uscita che separa in modo ancora peggiore di quanto non avesse fatto l'articolo 90 dell'ordinamento penitenziario i prigionieri politici disposti a percorrerla da quelli che non lo sono. La "lotta gandhiana" contro l'articolo 90 produce una ulteriore differenziazione e nel corso degli anni e del susseguirsi delle normative si arriva a una polverizzazione delle posizioni individuali cui la "legge Gozzini" e il suo do ut des tra carceriere e prigioniero conferisce sanzione definitiva. 
Nel 1984 l'A viene trasferito a Novara. L'abbandono di Nuoro "irriformabile" indica che i prigionieri politici e le organizzazioni armate, che pure continuano a colpire in un panorama disastrato e senza progetti rappresentativi, non ispirano più il timore di prima. A Roma per il processo Moro ter ("unico, vero, imprevisto, obbligato e senile congresso delle Brigate Rosse"), l'A. assiste alle ultime azioni armate; in quel 1986 il corpo di una combattente caduta viene fotografato come un trofeo a pro delle nuove generazioni, che imparino a occuparsi "di moda e di aperitivi".
Il 1987 lo vede prigioniero a Fossombrone, con la prospettiva di un indulto cancellata nel 1988 dall'uccisione di Roberto Ruffilli e l'affermarsi di una narrazione della storia delle Brigate Rosse in cui, con la scoperta collaborazione di alcuni tra i mille e spesso tutt'altro che lodevoli rivoli in cui si sono sbriciolate le posizioni collettive (uno su tutti, quella di Alberto Franceschini) si mescolano "miti, illazioni e sentimenti" in "un frullato che riduceva la lotta di classe a un museo degli orrori sempre aperto".
Gli ultimi anni di detenzione sono contrassegnati dalle scarcerazioni alla spicciolata, ben controllate "dai rubinetti dei tribunali di sorveglianza e da misure di sicurezza pensate per inibire ogni possibilità di partecipazione alla vita pubblica, pena il rischio di un riarresto immediato", e dai tentativi di attirare l'attenzione dei movimenti sulla partita che una dietrologia "indegna persino del disprezzo degli ergastolani" sta conducendo sugli anni Settanta. Il fine ultimo, sostiene l'A., pare essere sempre quello di impedire l'incontro tra l'esperienza delle vecchie e delle nuove generazioni.
Il fuori degli anni dopo il 1994 è fatto di lavoro, di vita familiare, di apprensione per le condizioni di molti prigionieri -uno su tutti, Prospero Gallinari- e di considerazioni e conclusioni improntate al riconoscimento dei limiti e degli errori commessi nella gestione della sconfitta subita sul campo. 

La nostra generazione ha provato ad andare fino in fondo e si è sporcata le mani nella lotta e nella sconfitta. Non è capitato solo a noi. Non siamo stati i primi e non saremo gli ultimi. Cento anni fa vinceva la Rivoluzione d'Ottobre. Dopo settant'anni quel mondo è crollato, e ci hanno detto che la Storia era finita. Andate a raccontarlo a un ragazzo che, da qualche parte del mondo, nasce e vive sotto l'oppressione dell'imperialismo. Non capirà nemmeno di cosa state parlando. E dovrete fare attenzione.


Pasquale Abatangelo. Correvo pensando ad Annna. Una storia degli anni Settanta. DeaPress edizioni 2017. 336 pp.