Durante la seconda guerra mondiale lo stato che occupa la penisola italiana organizzò entro i propri confini un certo numero di campi di concentramento le cui vicende sarebbero oggetto -secondo la Kersevan- di una vera e propria rimozione per motivi culturali, psicologici e persino affettivi, proprio come vari altri aspetti poco presentabili della condotta bellica della pretesa armata s'agapò. La divulgazione sul tema è spesso tendenziosamente autoassolutoria e abbonda di richiami all'esperienza nazionalsocialista utilissima per minimizzare, addossando agli occupanti del 1943-45 anche evidenze fattuali precedenti.
Il libro tratta principalmente dei campi di concentramento di Gonars, Rab, Treviso, Padova, Renicci, Colfiorito, Cairo Montenotte e altri, già attivi all'inizio del 1942 e in cui durante diciotto mesi vennero internate oltre centomila persone provenienti dai territori jugoslavi occupati. Nonostante gli inquirenti incaricati di indagare sui crimini di guerra disponessero di liste dettagliate e abbondante documentazione nessuno dei comandanti militari e dei personaggi politici coinvolti è mai stato processato e si sono anzi verificati vari casi di occultamento dei fatti o di un loro vero e proprio stravolgimento.
Un orrendo Golgota è la definizione del campo di concentramento friulano di Gonars data da un'internata trasferitavi nell'inverno del 1942 dal campo di Rab, voluto dal generale Roatta e capace di ventimila prigionieri. La Kersevan specifica che per capire come mai a tante donne, vecchi e bambini fosse stata imposto di vivere in simili condizioni occorre ripercorrere la politica estera adottata fin dal 1860 dallo stato che occupa la penisola italiana nei confronti dei Balcani. Ne le premesse storiche si nota come il confine orientale dello stato che occupa la penisola italiana comprendesse fin dal 1866 territori abitati da alcune migliaia di sloveni (valli del Natisone, del Torre e di Resia) nei cui confronti fu adottata subito una politica di snazionalizzazione.
Nel 1920 il confine mobile a oriente della penisola italiana incluse la regione multietnica della Venezia Giulia, in cui più della metà della popolazione era costituita da sloveni e croati. Nonostante le iniziali rassicurazioni fu impedito il ritorno di molti combattenti dell'esercito imperiale ivi residenti ma nati altrove, furono epurati i funzionari sloveni, croati e tedeschi, iniziò la sostituzione dei dipendenti pubblici con personale proveniente dalla penisola, vennero messi limiti alla stampa slovena e croata. Centomila sloveni e croati si trasferirono nel Regno di Jugoslavia o emigrarono in altri paesi. L'A. cita Ruggero Timeus Fauro, teorico e pratico del "disprezzo naturale per gli slavi", convinto che in terre come l'Istra "la lotta nazionale" fosse "una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono". I decenni a venire gli avrebbero senz'altro dato ragione, sia pure in un senso lievemente diverso rispetto al suo auspicio. La crisi economica e sociale per il mutato assetto internazionale contribuirono a un'ampia diffusione di consegne di questo tipo. La sezione di Trst del Partito Nazionale Fascista, fondata nel 1919, si dedicò alla persecuzione sistematica di sloveni e croati e alla distruzione del movimento operaio; esempio su tutti, la distruzione del Narodni Dom. Con la presa del potere da parte del PNF l'aggressività divenne legge e le politiche di snazionalizzazione già provate diventarono la norma. Molti sloveni e croati risolsero lo scontro interiore tra desiderio di identità, rifiuto della discriminazione e necessità di integrazione facendosi assimilare e trasformandosi in alcuni casi nei peggiori persecutori di chi aveva scelto altrimenti. La Kersevan afferma che dopo il 1930 il confino di polizia in qualche paese sperduto o in qualche piccola isola nel sud della penisola italiana fu il mezzo repressivo più efficace perché poteva essere comminato in via amministrativa -cioè senza intervento della magistratura- in base a semplici sospetti o in via precauzionale. L'istituto del confino divenne la base su cui si sarebbe strutturata tutta l'organizzazione concentrazionaria.
Dal 1927 in poi il concetto di "bonifica nazionale" guidò la pratica politica sul confine orientale, considerato nel più benevolo dei casi come popolato da allogeni destinati a scomparire per la loro arretratezza e la loro inferiorità. I progetti del PNF mettevano in conto la deportazione in altre regioni di sloveni e croati, anticipata nell'immediato da un fiscalismo pesante. La crisi economica all'inizio degli anni '30 permise di pianificare l'estromissione dei contadini croati e sloveni oberati di debiti tramite la legalissima messa all'asta delle loro proprietà: "l'Ente di Rinascita Agraria delle Tre Venezie, solo dal 1934 al 1938 espropriò 5367 ettari di terra". L'A. specifica in conclusione che "la successiva politica di deportazione di massa di cittadini jugoslavi non fu una scelta dettata dalle necessità della guerra", ma aveva le sue radici nel profondo razzismo antislavo del fascismo di frontiera e nei programmi di dominio nell'Adriatico.
In un capitolo dedicato all'esame dell'aggressione e dell'occupazione del Regno di Jugoslavia la Kersevan scrive che "La repressione fascista contro sloveni e croati degli anni Venti e Trenta divenne una vera e propria persecuzione razziale di massa con la Seconda guerra mondiale", in cui si ebbero lo smembramento del paese e un milione e mezzo di vittime. Emilio Grazioli, Giuseppe Bastianini, Francesco Giunta, Alessandro Pirzio Biroli e generali Roatta, Robotti e Gambara furono con vari titoli a capo di territori annessi o occupati; di tutti dopo la guerra venne richiesta l'estradizione, mai accordata.
Diventare sudditi per annessione comportò nella neocostituita provincia di Ljubljana il vantaggio di godere delle attenzioni di due apparati repressivi concorrenti: quello dell'Alto Commissario Grazioli e quello del Comando Militare, il cui tribunale di guerra processò fino all'8 settembre 1943 oltre tredicimila imputati, con ottanta condanne a morte e oltre quattrocento all'ergastolo. Il dissidio fra i due apparati fu risolto nel 1942 a favore del Comando Militare; la città slovena venne circondata da sbarramenti e filo spinato, diventando per intero un campo di concentramento sottoposto a minuziose perquisizioni.
Kersevan illustra quindi l'organizzazione dell'internamento trattando della Circolare 3C emanata dal generale Roatta, minuziosa serie di disposizioni dirette alla repressione della guerriglia partigiana e a combatterne l'appoggio popolare. Sugli effetti della sua applicazione -dalla distruzione di villaggi interi senza risparmiare neppure i muri al puntiglioso saccheggio dei raccolti, fino ad esecuzioni dopo processi sommari che in più di un caso fecero oltre cento vittime alla volta- esistono fonti primarie numerose e dettagliate sia negli archivi di Roma che in quelli di Ljubljana; l'A. specifica che il silenzio editoriale in materia è stato rotto soltanto da associazioni o da piccole case editrici. Nella Dalmacija annessa la lotta al movimento antipartigiano fu affidata con analoghi metodi al governatore Bastianini; in Crna Gora dal generale Pirzio Biroli prese iniziative all'insegna del "connubio fra esigenze della repressione militare e razzismo antislavo" che avrebbero portato a conseguenze particolarmente nefaste. L'A. sottolinea come il ribaltamento dei ruoli di vittime e carnefici su cui si basarono molte delle scusanti per le efferatezze commesse in Jugoslavia fosse stato interiorizzato al punto da diventare una convinzione che andava al di là della pura e semplice ipocrisia.
Nel 1942 i rastrellamenti prendevano abitualmente di mira intere categorie di persone e il numero dei prigioneri non era più gestibile contando sui campi allestiti localmente. Alla fine di giugno del 1942 era stato rastrellato da Ljubljana circa un quarto degli uomini validi, che vennero trasferiti a Gonars. La capienza limitata del campo non dissuase Roatta da perseverare. Dalle zone dove si manifestava la guerriglia partigiana vennero deportati anche donne, vecchi e bambini, destinati a campi di nuova istituzione in tutta la penisola italiana ma per il momento alloggiati in condizioni di estremo disagio presso i comandi di presidio. Le autorità provvidero in circostanze segnate "dall'urgenza e dalla frettolosità, che coniugate alla scarsità di mezzi e alla lentezza della realizzazione degli ordini di approntamento dei campi, costituiranno una miscela micidiale per le condizioni di vita degli internati". Tra questi nuovi campi, oltre a quello delle caserme di Monigo e a quello di Chiesanuova, il mero spazio recintato sull'isola di Rab in cui è comprovata la morte di almeno 1500 persone nella noncuranza delle autorità militari e civili. A questi si aggiuse quello di Renicci presso Arezzo, dove vennero trasferiti i "politici" di Gonars a passare l'inverno in tenda, sulla nuda terra o sul cemento (160 morti accertati in pochi mesi per fame, freddo e malattie). Questa applicazione della Circolare 3C servì all'inizio per cercare di togliere ai partigiani le basi logistiche e per rompere, ricattando la popolazione, il loro rapporto con il territorio. Dalla primavera-estate del 1942 la politica di deportazione si presentò come la soluzione più drastica ma anche più efficace per mettere in atto la cancellazione della presenza slovena dalle province annesse, attuando in pratica il programma di "bonifica nazionale" predicato da sempre dal fascismo di frontiera. La Kersevan riporta documenti che provano la volontà politica di procedere alla sostituzione della popolazione slovena e sostiene che la mancata traduzione operativa fu dovuta a problemi logistici, all'azione della guerriglia e al collasso dell'esercito occupante dopo l'8 settembre 1943, non certo a intervenute resipiscenze. Per oltre un anno e mezzo le autorità occupanti emanarono drastici ordini di sgombero la cui esecuzione richiese l'organizzazione di grandi campi nella penisola italiana e nei territori occupati o annessi: dopo Monigo, Chiesanuova, Rab e Renicci ne furono aperti a Colfiorito, Tavenelle, Cairo Montenotte, Fraschette di Alatri, Visco e Zlarin. Altrettanti Golgota per le vittime delle deportazioni, ammassate in condizioni disumane perché autorità militari e Ministero dell'Interno non risolsero mai la questione di chi e come dovesse gestirli. Sopraffatte dai numeri di cittadini sloveni rastrellati e deportati dai militari, le autorità civili temevano la diffusione di chissà quale contagio ideologico fino alle località più remote della penisola e inoltre si occupavano mal volentieri dell'internamento di donne e bambini. L'A. nota come il peggiorare della situazione nelle province di confine indusse nel 1943 a deportare in attendamenti (Ceprano, Labico, Carpi, Castel Raimondo) anche individui che erano a tutti gli effetti sudditi dello stato che occupa la penisola italiana, trattati come nemici stranieri perché "allogeni", e ad ampliare i campi già esistenti.
Dopo il 25 luglio 1943 gli internati jugoslavi furono espressamente esclusi dai provvedimenti di liberazione e la loro deportazione continuò. La maggior parte degli internati fu liberata solo con l'8 settembre. La Kersevan chiede per quale motivo lo stato che occupa la penisola italiana abbia continuato con le deportazioni dei civili nonostante si trattasse di una pratica controproducente e senza necessità militare, trovando risposte nel profondo razzismo antislavo che permeava l'apparato statale e nella volontà di continuare il processo di sostituzione della popolazione, magari per poter accampare diritti sui terrritori interessati nonostante l'esito della guerra.
Sui numeri degli internati né gli alti quadri dell'esercito né quelli dell'amministrazione civile avevano idee precise, secondo la documentazione citata dall'A; neppure il Comitato Internazionale della Croce Rossa ebbe dati certi su migliaia di individui trattati come nemici ma sulla carta "connazionali". Questo, per precisa scelta del ministero dell'interno. Per il settembre 1942 le cifre oscillano tra i diciassettemila e i quarantanovemila internati, a maggioranza anziani, donne e bambini. Un anno dopo sarebbero stati fra i diciottomila e i centomila a seconda delle stime. Non in tutti i campi le presenze furono rilevate negli stessi momenti, c'erano trasferimenti e liberazioni, molti internati furono smistati in vari comuni, rimasero in campi di transito o in campi non segnalati alle autorità centrali.
Con il il decreto del 17 settembre 1940 lo stato che occupa la penisola italiana istituì quarantotto campi. La documentazione presentata nel libro indica tipologie molto varie, concordando in ogni caso sulla rigidità del trattamento e sull'approssimazione con cui vennero allestiti. Oltre a questi vanno considerati i campi organizzati dai militari, accomunati ai primi dalla stessa rigidità di trattamento e da allestimenti a volte ancor più approssimativi. L'A. riporta la descrizione di quelli di Gonars, Rab, Renicci, Colfiorito, Cairo Montenotte e Visco. Quest'ultimo viene ritratto come tra i meglio allestiti; arrivò a contenere tremiladuecento internati ma era stato concepito per contenerne almeno diecimila: la deportazione di sloveni e croati, nelle intenzioni dei militari, sarebbe dovuta continuare. L'A. considera poi le isole già luogo di confino; civili jugoslavi furono deportati sotto il controllo del ministero dell'interno a Ponza, nelle isole Tremiti, a Lipari e a Ustica. Oltre al campo di Rab, nell'Adriatico furono istituiti campi sull'isola di Molat, su quelle di Mamula e di Zlarin e sulla penisola di Prevlaka.
La Kersevan sottolinea come con il passare dei mesi e con la traduzione operativa della su ricordata Circolare 3C l'internamento abbia inizialmente riguardato ex mlitari jugoslavi e oppositori dell'occupazione, per poi comprendere deportati di ogni sesso e di ogni età catturati nei rastrellamenti. A sostegno dell'affermazione, la documentazione e le testimonianze sulle presenze nel campo di Gonars, utili anche per la ricostruzione della vita quotidiana dei prigionieri. Le autorità militari vi organizzarono anche un "internamento protettivo" di collaborazionisti come Lev Rupnik. Questo internamento protettivo avrebbe dovuto comportare un trattamento migliore; in pratica la disorganizzazione, le difficoltà economiche, le ruberie a ogni livello e il diffuso atteggiamento razzista dei comandi militari, così come erano causa principale del pessimo trattamento generalizzato e di una situazione alimentare che è eufemistico definire preoccupante, resero le condizioni di vita dei "protetti" molto simili a quelle degli altri internati. A Gonars vennero deportati in condizioni al limite dell'inedia anche gli abitanti di Chabar (una zona a ridosso di Rijeka) dopo un rastrellamento che aveva comportato l'incendio di interi villaggi. Le fonti primarie riportate concordano tutte sulla scarsità e sulla povertà del vitto e sullo stillicidio dei morti per inedia e per malattie epidemiche. Nei campi vennero internati anche alcune centinaia di rom (a Gonars) e oltre duemila ebrei (a Rab), a condividere le stesse condizioni che rendevano "evidente da una parte la volontà segregazionista del regime fascista, dall'altra l'assoluta irresponsabilità e inefficienza delle autorità civili, come di quelle militari, che non erano capaci neppure di garantire la mera decente sopravvivenza a coloro a cui avevano sottratto la libertà". La Kersevan specifica che l'internamento "protettivo" degli ebrei con cui Roatta li sottrasse ai tedeschi fu attuato per motivi di prestigio, non certo per filantropia.
La Kersevan dedica decine di pagine alla raccolta di testimonianze sulla situazione alimentare degli internati, tutte concordi nel descriverla generalmente come insostenibile, specie per i bambini. A negare l'evidenza erano solo le affermazioni dei militari di alto grado a quanto sembra "neppure capaci di valutare le condizioni in cui stavano operando e le conseguenze della situazione che stavano creando". Molti documenti dimostrano che i comandi ai massimi livelli erano a conoscenza della situazione nei campi di Gonars, Rab, Monigo, Chiesanuova, Visco, Renicci, Colfiorito, Pietrafitta, Ellera, Tavernelle e Cairo Montenotte. Anche la spesso mancata, ritardata o parziale consegna dei pacchi destinati agli internati in grado di farsene spedire è argomento di un'aneddotica abbondante e di prove documentali eloquenti. A fronte del fatto che nel 1943 fu disposto il divieto di inoltrare generi alimentari agli internati e che in qualche caso coperte, indumenti e scorte alimentari abbondanti e mai distribuite furono scoperte dopo l'8 settembre la Kersevan sostiene che l'affamamento dei campi fu il risultato della deliberata volontà degli alti comandi -che sapevano benissimo quali fossero le reali condizioni degli internati- assecondata con zelo dai comandanti di campo. "Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo", chiosò nel dicembre 1942 il generale Gambara; la Kersevan specifica che le razioni ridotte destinate agli "internati repressivi", che non arrivavano a coprire neppure la metà del fabbisogno calorico, furono la principale causa delle migliaia di morti registrati nei campi fra il 1942 e il 1943. I campi di concentramento militari vennero sottratti ai controlli di organismi come il Comitato internazionale della Croce Rossa; messi davanti alla realtà "i comandi militari o gli uffici governativi [...] davano informazioni false o minimizzanti".
Il testo riporta poi fonti documentali con cui vengono ricostruite le condizioni sanitarie degli internati, particolarmente gravi nel campo di Rab e in quello di Renicci; in tutte dominano constatazioni sull'igiene approssimativa, gli impianti rudimentali, le dotazioni sanitarie minime e un'assistenza strettamente dipendente dalla buona volontà e dall'ingegno dei pochissimi addetti, spesso costretti dalla completa mancanza di medicinali e strumenti a limitarsi alla sola funzione diagnostica. Per la scarsa alimentazione, il freddo di baracche e tende non riscaldate, la mancanza di farmaci, il sovraffollamento, le nulle precauzioni contro le epidemie e l'atteggiamento minimizzante dei problemi sanitari da parte dei comandi militari le malattie imperversavano. Alla Croce Rossa Internazionale il ministero dell'interno dello stato che occupa la penisola italiana inviò una relazione che afferemava l'esatto opposto e rivendicava l'applicazione integrale della convenzione di Ginevra del 1929.
La disciplina era amministrata con un sistema sanzionatorio a base classista, suddividendo gli internati in diplomati, non diplomati, con la sola istruzione primaria, donne, ragazzi sotto i quindici anni. A seconda della classe di appartenenza e della gravità della mancanza erano previste limitazioni di varia gravità a quanto restava della libertà personale, ma le fonti citate dalla Kersevan illustrano varie punizioni non regolamentate, dalla privazione del cibo alla tortura vera e propria, e un regime più o meno severo a seconda dei campi e dei loro comandanti. È documentato qualche caso di uccisione arbitraria.
Un "Ufficio Prigioneri di Guerra" presso il ministero degli interni curava l'utilizzo della mano d'opera degli internati. Oltre che per il funzionamento dei campi stessi, gli internati vennero impiegati in campi di lavoro veri e propri e presso ditte o singoli privati che ne facevano richiesta. La documentazione disponibile mostra che l'amministrazione statale intendeva in questo modo alleviare parte dei costi di mantenimento e che per minimizzare i rischi di un "contagio politico" con la popolazione civile preferì ricorrere a "internati protettivi" che non sempre furono una garanzia da questo punto di vista. Le fonti indicano che nel 1943 il mutare delle sorti del conflitto incoraggiarono scioperi e proteste.
Il libro esamina anche il rapporto delle realtà concentrazionarie peninsulari con la Chiesa cattolica, iniziando col precisare che la curia di Ljubljana chiese più volte a Gonars la liberazione di anticomunisti e antipartigiani rimasti vittime di rastrellamenti che venivano condotti fermando "tutti i maschi validi", in vista dell'organizzazione di una Bela Garda collaborazionista. I vescovi delle zone di provenienza degli internati interessarono il Vaticano, che inviò il nunzio apostolico nella penisola italiana a visitare alcuni campi e il vescovo di Krk in quello di Rab, la cui testimonianza conferma che lo stato che occupa la penisola italiana non consentiva assistenza spirituale in altre lingue. La gerarchia cattolica nella documentazione disponibile sembra sempre orientata a minimizzare i problemi materiali, a enfatizzare come positivo l'allontanamento dai pericoli e dalla guerriglia, a mostrare preoccupazione per la salute spirituale dei giovani e il loro possibile contatto con adulti politicizzati e per l'efficacia della propaganda comunista all'interno dei campi. La risposta dei vertici militari, impegnati in modo imperterrito negli internamenti, fu spesso infastidita.
L'A. tratta infine della condizione dei bambini. Decine di donne vittime dei rastrellamenti nei villaggi sloveni e croati partorirono a Rab, Gonars e Monigo; i bambini vennero registrati senza tenere conto della lingua materna, aspetto non secondario nella politica di repressione dell'identità nazionale degli internati. Dell'alta mortalità infantile nell'immediato dopoguerra i vertici militari arrivarono a incolpare le madri stesse, che avrebbero tolto cibo ai figli e li avrebbero nascosti se ammalati. Argomentazioni come queste vennero inserite in contromemoriali usati per rintuzzare le accuse jugoslave contro lo stato che occupa la penisola italiana. La curia di Ljubljana cercò di allontanare i bambini dai campi per sottrarli dall'influenza del comunismo di cui i genitori erano considerati a torto o a ragione portatori; i comandi militari, perché la loro presenza in condizioni del genere costituiva propaganda negativa. Solo l'aggravarsi della situazione impedì che si procedesse concretamente al completo smembramento delle famiglie.
Secondo le testimonianze presentate dalla Kersevan la popolazione di Gonars accolse gli internati come criminali perché aizzata in questo senso e agì nel complesso senza dare grosse prove di coscienza politica. Solo dopo l'8 settembre le vere condizioni della detenzione diventarono evidenti per tutti. In altre località gli internati presero il controllo della situazione (come a Rab, dove fu passato per le armi il comandante del campo) trovarono solidarietà nella popolazione locale (come a Renicci) o furono consegnati ai tedeschi (come al Cairo Montenotte).
La Kersevan riporta quindi una serie di stime che complessivamente valutano in quasi quattromiladuecento le vittime fra gli internati, cui andrebbero aggiunti i bambini nati morti e quanti morirono nei trasferimenti o appena tornati a casa. A Rab fu subito allestito un sommario cimitero molto ampio; già prima dell'arrivo degli internati erano previste molte vittime. In alcune località la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia curò successivamente la costruzione e la manutenzione di sacrari.
L'epilogo del libro presenta varie testimonianze sui rastrellamenti e l'internamento prodotte verso la fine delle ostilità -in scuole di fortuna allestite nei territori liberati- da bambini che erano stati internati a Rab, Gonars e Monigo. Vi si ritrova la traduzione operativa della Circolare 3C: la deportazione, la fame, le malattie, le morti, la distruzione delle famiglie, il ritorno dei superstiti nei paesi distrutti. La Kersevan nota che il ceto politico e dirigente dello stato che occupa la penisola italiana ha difeso nei decenni successivi tutti i responsabili dell'accaduto, nessuno dei quali è stato estradato o processato, e ha operato a livello propagandistico per trsformare i carnefici in vittime.


Alessandra Kersevan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943. Nutrimenti ed., Roma 2008, pp. 302.