I carnefici del Duce illustra protagonisti e vicende legati ai crimini di guerra commessi nel XX secolo da militari appartenenti allo stato che occupa la penisola italiana, con particolare riguardo agli anni del secondo conflitto mondiale ma senza trascurare i precedenti delle guerre coloniali. Un compendio di nomi, fonti, responsabilità, località e date che permette di confutare un certo numero di prese di posizione per lo più venate da pretese senza fondamento e da piagnistei vittimisti
In un mondo ideale, esordisce Gobetti nell'introduttivo L'elefante nella stanza, nessuno avrebbe sentito la necessità di scrivere un libro sui crimini di guerra commessi dal fascismo a tanti anni di distanza dai fatti. Nello stato che occupa la penisola italiana, a differenza di quanto successo in Germania e in Giappone, non si è tenuto un procedimento giudiziario volto a condannare globalmente i fascisti e i loro crimini nonostante la cosa fosse stata prevista fin dalla prima conferenza interalleata del 1943. Lo stato che occupa la penisola italiana riuscì abilmente a dilazionare e poi a evitare la consegna di oltre mille inquisiti ai paesi che avevano subito l'occupazione fascista anche grazie alla formazione dei due blocchi geopolitici contrapposti. Anche l'epurazione fu rapida e lacunosa in nome della "continuità dello stato"; i condannati per collaborazionismo poterono approfittare della "amnistia Togliatti" del 1946 e il clima politico contribuì a una sostanziale rimozione delle responsabilità individuali e di classe. Al resto provvide la rappresentazione mediatica del fascismo come dittatura morbida e dal vasto sostegno di massa, e la diffusione di una vulgata innocentista a favore dei corpi militari che esso aveva mandato ad aggredire e occupare altri paesi. In compenso centinaia di combattenti irregolari furono perseguiti per azioni compiute durante la lotta contro il fascismo, derubricate a reati comuni.
L'A. sottolinea che "blocchi psicologici, meccanismi di autoassoluzione, necessità di scagionare alcuni individui di potere direttamente coinvolti, esigenze economiche e sociali legate alla ricostruzione e alla pacificazione, logiche politiche della Guerra fredda e dell’anticomunismo" hanno contribuito a una rimozione che dura a tutt'oggi. Un esempio della sua pervasività si trova nella censura di film come Il leone del deserto e di documentari come Fascist legacy. Con la fine della Guerra Fredda nello stato che occupa la penisola italiana si è instaurato senza incrinature un clima politico critico verso l'intero fronte antifascista, le cui violenze sono le uniche a essere state processate e condannate sul piano politico e morale. In questo contesto è stato imposto per legge un "giorno del ricordo" che arriva al paradosso di capovolgere le responsabilità di una guerra e il senso degli avvenimenti, presentando gli aggressori fascisti come vittime innocenti, imponendo una risibile "verità di stato" e agevolando il permanere di un immaginario vittimista. Un percorso opposto -pur in un contesto in cui coesistono atteggiamenti che ricoprono uno spettro molto ampio- a quello compiuto dalla Repubblica Federale Tedesca, soprattutto nei decenni successivi alla riunificazione, o dalla Repubblica Francese, in cui il collaborazionismo è sempre stato condannato senza mezzi termini.
Gobetti non intende contrapporre alcuna galleria degli orrori allo stereotipo della armata s'agapò o celebrare processi fuori tempo massimo, quanto "interrogarsi sulle ragoni, sulla mentalità e sui condizionamenti sociali" che hanno spinto "militari e dirigenti politici, generali e soldati, funzionari, poliziotti, intellettuali" a condividere il modello politico fascista e a commettere crimini in nome dei suoi valori pur non essendo affatto "ladri, rapinatori o killer di mestiere". Altro intento, quello di indagare sull'esistenza e sul ruolo dei "giusti" che contrastarono il sistema criminale fascista denundicando, riticando, cercando di limitare i danni pur agendo in una società strutturalmente violenta e rigidamente conformista in cui prevalevano senso della disciplina e rispetto delle regole imposte dall'alto.
Gobetti sottolinea che nei teatri coloniali i crimini commessi dagli occupanti "furono certamente più gravi, l’intensità della violenza maggiore, il cinismo degli esecutori più evidente". Il fatto che tali crimini siano avvenuti in contesti lontani in ogni senso dalla penisola italiana e dall'Europa consente di attribuirli a un'altra epoca e a uno spazio estraneo alla autopercezione nazionale; lo stesso non si può dire per quanto avvenne al confine orientale della penisola italiana. I "crimini commessi in Jugoslavia" sono dunque il punto di partenza, perché "contribuiscono a scardinare un immaginario vittimista costruito proprio sull’oblio di quegli stessi crimini".
In Dall'Africa ai Balcani Gobetti esordisce esponendo come caso da manuale quello dell'occupazione in Crna Gora: "invasione, occupazione militare, tentativo di coinvolgere élite locali marginali, di fatto screditate dalla stessa collaborazione con l’invasore straniero, esplosione di una rivolta guidata da leader altrettanto minoritari ma carismatici e popolari [...] repressione spietata da parte dell’esercito occupante, che a sua volta porterà al rafforzamento e alla radicalizzazione della ribellione. La conseguenza finale è una carneficina: decine di migliaia di vittime, in gran parte civili". A sovrintendere alla repressione il generale Alessandro Pirzio Biroli, di cui l'A. ricostruisce la carriera militare maturata in un clima suprematista e razzista nelle guerre coloniali, e contrapponendogli la figura di Ilio Barontini come testimone della possibilità di "pensare e agire in termini non razzisti e solidali verso i popoli aggrediti e oppressi". Gobetti rileva che Pirzio Biroli ha costruito la propria fama di vincente non conducendo operazioni militari brillanti contro forze di pari o superiore armamento e preparazione, ma tramite l'uso spietato di una repressione contraria alla morale e alle leggi internazionali. Per il Comando Supremo, maligna Eric Gobetti, "l'uomo giusto al posto giusto" per stroncare una ribellione alle porte di casa. Si suggerisce che l'occupazione dei Balcani sia stata condotta in continuità con le esperienze coloniali e con pratiche repressive analoghe per mano dagli stessi individui, dal momento che gli altri gradi dell'esercito occupante avevano spesso fatto carriera in Africa. I Balcani, secondo l'A. diventano un Lebensraum all'insegna di un presupposto razzista ampiamente diffuso e condiviso in Europa occidentale, in cui si opera impiegando enormi risorse e una superiorità tecnologica schiacciante rispetto all'avversario. Contando su centomila effettivi (Crna Gora, grande quanto l'Abruzzo, aveva quattrocentomila abitanti) e su bande paramilitari di albanesi Pirizio Biroli stroncò la rivolta in un mese; cinquemila morti e cinquemila deportati nei campi di concentramento in Albania.
In Cattivi maestri Gobetti illustra i limiti della indirect rule coloniale che Pirzio Biroli invocava per la pacificazione del Crna Gora -storicamente perseguita accordando alla élite coloniale il minimo di prerogative necessario a evitarne la plateale insubordinazione- e i piani per lo smembramento del Regno di Jugoslavia attuati anche strumentalizzando formazioni nazionaliste radicali e violente, operazione portata solitamente avanti da personalità estranee alla diplomazia, dagli intellettuali ai funzionari pubblici e di polizia. Gobetti si sofferma in particolare sulle figure di Eugenio Coselschi e di Giuseppe Pièche. Coselschi per decenni si adoperò per la diffusione del modello politico fascista nel mondo, e fin dal 1919 prese contatti con nazionalisti balcanici di diversa provenienza disposti a collaborare per abbattere il Regno di Jugoslavia. I Comitati d’azione per l’universalità di Roma fondati nel 1933 da Coselschi fornirono supporto conreto a formazioni tanto marginali quanto estreme presenti in tutta Europa e contribuirono alla diffusione del razzismo, dell'autoritarismo e della violenza politica, agendo di fatto come un servizio segreto internazionale parallelo. Se Coselschi è un "intellettuale fedele e spia autoproclamata", Giuseppe Pièche è "il carabiniere specializzato nella guerra sporca agli oppositori" come capo della sezione controspionaggio dipendente dai servizi segreti militari e come tale responsabile della guerra sporca contro gli esuli antifascisti. Nel quadro di un articolato esame del fenomeno del collaborazionismo, l'A. mostra come entrambi avessero contribuito alla causa del movimento ustaša, la cui attività divenne controproducente dopo lo smembramento del Regno di Jugoslavia dato il suo contrasto con gli obiettivi degli occupanti e la deliberata dedizione alla distruzione fisica degli avversari. Come altrove nei suoi elaborati, Gobetti nota che per i militari fascisti l'attivo sabotaggio delle politiche di sterminio degli ebrei portate avanti dagli ustaša poteva dipendere anche da ragioni di prestigio e dalla necessità di mostrare un margine di autonomia a fronte del predominio tedesco "in una questione minore, ma simbolicamente rilevante". Un Coselschi ampiamente per tempo dislocato a Zagreb paludì esplicitamente all'operato "rivoluzionario" degli ustaša, e Indro Montanelli descrisse il campo di sterminio ustaša di Jasenovac edulcorandone (a dir poco) la realtà. La realtà non poteva essere più ostile a chi coltivava progetti espansionisti e colonialisti perché la politica ustaša creò un clima stabilmente ostile nei confronti degli occupanti provenienti dalla penisola italiana, che dall'autunno del 1941 iniziarono ad agevolare i serbi, ritratti come "una sorta di razza marziale: 'buoni selvaggi' particolarmente adatti al mestiere delle armi". Dal 1942 Giuseppe Pièche venne incaricato da Mario Roatta di contattare il comandante serbo Draža Mihailović sorvolando su questioni di dettaglio come la sua nomina a Ministro della Guerra da parte del governo del Regno di Jugoslavia in esilio a Londra. Le successive campagne contro i musulmani bosniaci e contro i croati fanno circa sessantacinquemila vittime senza suscitare reazioni particolari negli occupanti provenienti dallo stato che occupa la penisola italiana, per lo più propensi ad attribuire razzisticamente ogni avvenimento a un postulato "odio atavico". Un atteggiamento che dopo la guerra servì a sottlineare per contrasto il "senso di umanità" degli occupanti e a negare la logica del divide et impera che era stata anzi il principale fondamento dell'occupazione. Gobetti specifica che Coselschi e Pièche continuarono con la stessa logica e la stessa mentalità le proprie carriere anche dopo la guerra, esempio paradigmatico di "continuità dello stato".
Nel terzo capitolo su le regole del gioco Eric Gobetti attesta che già la diaristica attestava come tra gli occupanti non fosse sconosciuta la sensazione di essere nel torto. A guerra finita la Jugoslavia chiederà allo stato che occupa la penisola italiana la consegna di settecentocinquanta criminali di guerra. Lo stato che occupa la penisola italiana eluse la richiesta assicurando che avrebbe provveduto a esaminare ogni caso secondo il proprio codice militare e alla fine lasciando cadere ogni richiesta e mandando tutto in archiviazione. Molti inquisiti pubblicano memoriali a propria discolpa; Gobetti cita il comandante delle truppe d'occupazione Mario Roatta, convinto che la guerra si vinca con la crudeltà diretta contro i propri stessi uomini prima che contro gli avversari, e ne ricostruisce nel dettaglio la carriera nei servizi segreti, nella guerra civile spagnola e nella seconda guerra mondiale sempre in posizioni di vertice e di prestigio: "cinghia di trasmissione fra il partito, l’esercito e la corona [...] può essere considerato il simbolo di un sistema di valori [...] in cui nazionalismo, razzismo e uso spregiudicato della forza sono inestricabilmente intrecciati. L'A. specifica che le inchieste sui crimini di guerra furono condotte dai servizi segreti militari dove operavano molti ex agenti dello stesso Roatta, la cui linea difensiva venne condivisa da molti altri indagati; l'argomentazione più forte consisteva nel rovesciare le accuse, mettendo sul banco degli imputati gli invasi anziché gli invasori al punto che le autorità dello stato che occupa la penisola italiana arrivarono a presentare una controlista di duecento presunti criminali di guerra, primo fra tutti il maresciallo Tito, rei di aver agito al di fuori delle leggi di guerra. L'A. rileva che lo stato che occupa la penisola italiana non aveva ratificato la convenzione dell'Aia del 1907 e soprattutto che nelle guerre coloniali si concesse arbitri di ogni genere, in particolare l'abituale ricorso ad armamenti chimici. Questo non gli impedì di ammantare di legalismo formale il proprio apparato repressivo. Il caso più eclatante è rappresentato dalla dettagliata normazione delle attività repressive nei territori jugoslavi compresa nelle duecento pagine della Circolare 3C emanata nel 1942 da Mario Roatta. La 3C fa riferimenti espliciti alla guerra coloniale, prescrive di considerare un nemico chiunque non sia esplicitamente collaborazionista e mostra di conoscere e di combattere lo stereotipo di "naturale bontà" ascritto alle forze armate provenienti dallo stato che occupa la penisola italiana. Gobetti nota che Roatta fu protagonista nella repressione dei moti popolari successivi al 25 luglio 1943; una sua circolare che raccomandava il ricorso ad armamenti pesanti per reprimere le manifestazioni civili confermava la sua "condivisione del modello valoriale fascista a prescindere dal fascismo, e addirittura dopo la fine dello stesso". L'8 settembre 1943 Roatta non diffuse gli ordini già predisposti per la difesa di Roma dalla Wehrmacht e fuggì con i Savoia diventando per breve tempo capo di stato maggiore, prima di essere messo in congedo due mesi dopo. Pirzio Biroli, sollevato dal comando pochi giorni prima della caduta del fascismo, raggiunse anch'egli il "Governo del Sud" ricoprendovi incarichi di responsabilità.
Gobetti nota come il mito della "armata s'agapò" e della "brava gente" venne usato a fini autoassolutori dagli stessi generali che lo avevano avversato durante la guerra. Un tema che approfondisce nel capitolo successivo dedicato al Si ammazza troppo poco. L'A. rileva che non è solo la guerra ad abbrutire e a esaltare l'omicidio come obiettivo supremo per un bene comune; il fascismo giustificava la violenza presentata come un valore e incentivava la razzia, la prevaricazione e la brutalità come sinonimi di forza, coraggio e prestigio. "In mancanza di vittorie nette e limpide, è sulla disponibilità dell’uso indiscriminato della forza che si giocano le carriere dei generali. L’impiego dei gas in Etiopia, i bombardamenti contro i civili in Spagna, i rastrellamenti e le fucilazioni nei Balcani sono percepiti dal regime come sinonimo di coraggio, di vittoria, e hanno conseguenze sulle carriere degli esecutori. È un meccanismo che si riflette a tutti i livelli, a pioggia, dal più alto al più basso. Mussolini pretende massima durezza dai suoi generali, i generali dai colonnelli, questi dai loro ufficiali e dai soldati". Soldati in genere giovani cresciuti durante il fascismo e che vi si risconoscono. Nei teatri di guerra africani in particolare è evidente la diffusa disposizzione a commettere crimini efferati in una logica razzista e nel nome di obiettivi imperialisti ampiamente condivisi. Un esempio su tutti, la distruzione con l'iprite dei ribelli etiopi nella caverna di Zeret. Nella Jugoslavia smembrata la disciplina e il senso del dovere assicurano la piena applicazione della Circolare 3C graze a individui di mezzo nella gerarchia, quelli che non fanno la storia ma sono essenziali perché essa si compia. Gobetti esamina il caso del generale Mario Robotti, arrivato al grado a furia di promozioni e privo di qualità rilevanti, ma animato da una spiccata brutalità nell'esecuzione degli ordini repressivi; il suo picchiare sodo significa inviare sessantamila uomini in una regione in cui vivevano trecentomila abitanti, requisire cibo e bestiame, saccheggiare le case incendiando quanto rimane, arrestare e fucilare gli uomini validi e deportare il resto della popolazione. Di solito senza approdare a nulla, vista la mobilità delle formazioni partigiane. Robotti non ama restare insoddisfatto; "Mi pare che su 73 sospetti non trovar modo di dare neppure un esempio è un po’ troppo. Cosa dicono le norme della 3c e quelle successive? Conclusione: Si ammazza troppo poco". Sostituto di Roatta negli ultimi mesi di guerra e pur al corrente degli ordini per fronteggiare le forze tedesche in vista dell'uscita dal conflitto, Robotti preferirà sparire alla volta di lidi più tranquilli "dando ulteriore prova della propria pochezza, morale prima ancora che militare".
Tra gli "individui di mezzo" Gobetti ricorda Taddeo Orlando, responsabile del blocco di Ljubljana con cui nel febbraio 1943 fu deportato dalla città oltre un quarto degli uomini validi, poi riciclato dai Savoia e a marzo del 1945 organizzatore della fuga di Roatta dalla clinica dove era ricoverato in attesa di giudizio. Nel dopoguerra dichiarò di non aver commesso abusi, anche a fronte di un prospetto riepilogativo del comando di Robotti che attribuiva alla divisione da lui comandata la fucilazione di oltre duecento prigionieri. A contraddire le pretese di bonomia anche la testimonianza del sacerdote cattolico Pietro Brignoli, chiamato nell'inverno del 1942 a impartire l'estrema unzione a decine di fucilandi.
Dopo il 1945 riversare sugli aggrediti la responsabilità delle violenze diventò una prassi abituale; nella narrazione sulle vicende del confine orientale dello stato che occupa la penisola italiana è oggi assolutamente predominante. Eric Gobetti si chiede quindi se sia plausibile che i combattenti irregolari, i partigiani che si opposero agli invasori, abbiano commesso atrocità che giustificherebbero reazioni dello stesso livello. Le formazioni partigiane in linea di massima intendevano presentarsi come tutori dell'ordine costituito e si comportavano con estrema durezza contro criminali comuni, collaborazionisti, spie e fomentatori di violenze interetniche assai più che contro i militari regolari dell'esercito invasore. Sono attestati episodi di violenza gratuita, come l'evirazione di un gruppo di combattenti fascisti caduto in un'imboscata in Crna Gora nel 1941; un crimine che nessuna prova consente di attribuire all'esercito di liberazione e tanto meno a un ordine di Josip Broz Tito. Secondo Gobetti "si può escludere con certezza che i resistenti praticassero regolarmente torture, fucilazioni di massa o stragi di civili sulla base dell’identificazione di interi popoli come nemici, cosa che invece era la norma nel campo fascista". Al contrario gli occupanti usavano singoli episodi, veri o presunti, per motivare gli uomini a fare del proprio peggio ricorrendo a una propaganda che attecchisce su un immaginario razzista preesistente. Le stesse argomentazioni nel dopoguerra serviranno agli inquisiti per giustificare il proprio comportamento. L'A. sostiene che i crimini fascisti possano essere considerati una risposta alle vittorie partigiane più che una reazione a presunte brutalità. Ovunque, in Africa o nei Balcani, le efferatezze peggiori nascerebbero come risposta all'efficiente operato dei movimenti partigiani. Gobetti considera il caso peggiore tra quelli documentati, la distruzione del borgo di Podhum vicino a Rijeka (paradossalmente all'epoca addirittura entro i confini dello stato che occupa la penisola italiana), rilevando che l'operazione fu ordinata dal prefetto di Rijeka Temistocle Testa, noto per la condotta antislava e antiebraica e per aver organizzato una sorta di milizia privata per dimostrare di poter reprimere ogni ribellione senza bisogno dell'esercito. Rilevante, nota l'A., è il fatto che la distruzione di Podhum (oltre cento vittime, deportazione di tutti gli abitanti, distruzione totale dell'abitato) non fu attuata da reparti fascisti, ma "da poliziotti agli ordini di un prefetto".
In Il bottino Eric Gobetti nota che a colpire in modo particolare non è tanto la brutalità del singolo episodio, ma la quotidianità dell'oppressione instaurata dagli occupanti. L'antiguerriglia non comporta solo arresti e fucilazioni, ma anche e soprattutto requisizioni, saccheggi e devastazioni vere e proprie che impoveriscono tutto il territorio. Metodi previsti e codificati nella Circolare 3C su ricordata, cui gli occupanti ricorrono anche per cercare di rimediare alle proprie considerevoli carenze di dotazioni e di derrate alimentari. Se in Africa -come sottolinea Gobetti- "la spoliazione delle risorse e la riduzione in schiavitù degli abitanti non sono solo il risultato delle operazioni antiguerriglia, ma obiettivi strategici della guerra di conquista", nella Grecia occupata le requisizioni provocano nell'inverno del 1941 la morte per inedia di decine di migliaia di persone. In Grecia gli occupanti animano il mercato nero con una tale impunità che nel 1943 il loro comando supremo ordinò un'inchiesta e allontanò dal paese il comandante delle truppe di occupazione generale Geloso e gran parte dei suoi ufficiali. Gobetti sottolinea che una fortunata produzione mediatica che lodava il senso di umanità degli occupanti abbia contribuito col passare dei decenni a cancellare la reale condizione di oppressione vissuta dalle donne che in Grecia si prostituivano, così come nelle colonie dell'Africa orientale subivano il madamato. Una distorsione del reale che occorre eliminare per comprendere come il fallito attentato a Rodolfo Graziani del 19 febbraio 1937 avesse portato a una campagna repressiva condotta coi metodi dei pogrom, conclusasi con la quasi totale distruzione di Addis Abeba e con decine di migliaia di vittime. A prendere parte alla strage, rileva l'A., non sono forze armate politicizzate ma una intera società coloniale abituata a vivere nel clima di sopraffazione e di brutalità che il fascismo produceva e incentivava. Considerata un valore positivo, la violenza è "uno strumento di potere, un’espressione di forza, un mezzo per fare carriera, per acquisire o mantenere un ruolo" in un sistema gerarchico fondato su di essa.
L'ultimo capitolo tratta dell'inferno, inteso come il sistema concentrazionario realizzato dallo stato che occupa la penisola italiana in cui dal 1923 al 1943 furono internate almeno trecentomila persone in oltre mille località diverse, nella penisola e fuori. Il caso meglio noto agli studiosi è quello del campo di concentramento di Rab. Presupposti teorici dell'internamento collettivo, messo per la prima volta in pratica nelle colonie nel XIX secolo, sono l'identificazione di una popolazione intera come avversaria, la presunzione di una sua inferiorità razziale che rende accettabile l'idea di trattarla come bestiame e il dislivello tecnologico degli armamenti. Nel fascismo, scrive Gobetti, il confino (inflitto con provvedimento amministrativo), la deportazione e l'internamento più o meno "libero", cioè con facoltà di movimento nella località di destinazione, sono massicciamente utilizzati e costituiscono parte essenziale del sistema di dominio. Campi di concentramento veri e propri furono organizzati a Gonars sul confine orientale, a Renicci in provincia di Arezzo, ad Alatri vicino a Frosinone, nelle "colonie confinarie" di Ventotene e di Lipari. Sistemazioni invivibili di internamento extragiudiziale cui viene destinata la popolazione delle zone deove più attiva è la resistenza agli occupanti, i campi servono alla deportazione intesa come strumento antiguerriglia oppure quegli scopi di ingegneria sociale tipici dei regimi autoritari. In merito agli abitanti sloveni e croati del confine nord orientale e dei territori annessi, le autorità pianificarono una pulizia etnica cui solo l'andamento delle ostilità impedì di mettere mano.
Eric Gobetti ripercorre la storia del ricorso alla deportazione di massa da parte dello stato che occupa la penisola italiana, iniziato con l'aggressione alla Libia nel 1911 e proseguito per stroncare le insurrezioni venti anni dopo, quando finì deportato in condizioni spaventose in campi nel deserto circa un terzo della popolazione della Cirenaica; le vittime della pura e semplice incuria furono decine di migliaia. Il diario di Eugenio Mazzucchetti, comandante del lager di Dahnaane in Somalia, è indicato dall'A. come testo straordinario per la ricostruzione delle dinamiche della società coloniale. La propaganda insisteva sulla liberazione delle belle abissine; nella pratica all'abolizione della schiavitù nei territori occupati fu sostituito un sistema schiavistico a vantaggio dei soli coloni bianchi.
Secondo le fonti citate dall'A., nei territori occupati nel Regno di Jugoslavia la deportazione colpisce oltre centomila civili e comporta la morte di cinquemila persone. Per il campo di Rab la testimonianza più circostanziata viene dal diario del militare ventenne Umberto Graziani, che pur senza testimoniare l'esercizio di efferatezze gratuite mette in mostra l'intercciarsi di "improvvisazione, indifferenza, disordine amministrativo, distanza fra normativa e prassi (ad esempio, circa la quantità di cibo da destinare agli internati), veri e propri abusi e casi di corruzione tollerati, se non gestiti direttamente dai comandanti" responsabile in ultima analisi di migliaia di vittime. Gobetti tiene a sottolineare che le condizioni degli internati erano ben note agli alti comandi e riporta la logica e coerente nota del generale Gambara per cui "Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo". Il comandante del campo di Rab Vincenzo Cujuli, morto in circostanze non chiare nel settembre 1943 (Gobetti nota che viene rappresentato come vittima dei "titini" senza che una sola prova sia mai stata esibita a riguardo) sarà tra i pochi criminali di guerra a pagare per le proprie azioni. Umberto Graziani combatterà a fianco dei partigiani jugoslavi fino alla fine della guerra, attestando coi fatti che compiere una scelta era sempre e comunque possibile.
Nell'epilogo Eric Gobetti cerca di identificare quale sia la specificità che caratterizza l'operato dei carnefici del Duce, indicandola nella violenza come elemento strutturale del fascismo e nella guerra come strumento privilegiato nella pratica politica. L'A. rileva che durante la seconda guerra mondiale per puntellare velleità imperiali che contrastavano con impreparazione, confusione ideologica, incompetenza e pressappochissmo diffusi a tutti i livelli, lo stato che occupa la penisola italiana dovette destinare a compiti di presidio, repressione e controguerriglia ottocentocinquantamila effettivi. La metà delle truppe di terra disponibili.
Nei venti anni di governo autoritario l'esercito dello stato che occupa la penisola italiana si sarebbe reso responsabile più o meno direttamente della morte di duecentocinquantamila jugoslavi, centomila greci, cinquecentomila etiopi e centomila libici. Crimini di guerra mai riconosciuti dai loro autori, e su cui lo stato che occupa la penisola italiana sorvola abitualmente anche a distanza di tanti decenni. Gobetti rileva anzi una pratica politica orientata esattamente al contrario, alla costruzione di una propaganda e di una vulgata autoassolutorie in cui la responsabilità delle violenze è sempre attribuita ad altri. Al pari indica che lo stato che occupa la penisola italiana sta costruendo e imponendo una "memoria condivisa" in cui si attribuisce pari valore e pari dignità a chi ha commesso crimini di guerra -all'interno di un sistema gerarchico ordinato e disciplinato e obbedendo a valori condivisi- e a chi si è opposto o ha tentato di opporsi a tutto questo.


Eric Gobetti - I carnefici del Duce, Laterza 2023. 192 pp.