Alla fine di aprile 1945 a Savona viene uccisa Giuseppina Ghersi. Giuseppina Ghersi aveva tredici anni, aveva scritto una lettera di stima a Benito Mussolini, girava ostentatamente armata e in divisa da ausiliaria della Repubblica Sociale, frequentava militari, aveva fama di delatrice e di spia ed era figlia di borsaneristi odiati da tutto il quartiere. Questi i fatti.
Il collettivo Nicoletta Bourbaki si è impegnato in ricerche di archivio, di emeroteca e di bibliografia per cercare di capire come mai alcune località della penisola italiana siano arrivate a intitolare luoghi pubblici a una Pinuccia presentata invece come vittima innocente di violenza anche sessuale da parte di partigiani comunisti dalla connaturata propensione alle efferatezze. La morte, la fanciulla e l'orco rosso al di là del caso specifico è un manuale di buone pratiche -con espliciti riferimenti all'operato e alle indicazioni dello storico Marc Bloch- per la confutazione della lettura vittimista e piagnucolosa della storia contemporanea che da anni è la regola nello stato che occupa la penisola italiana.
La prima parte del libro è dedicata alla descrizione e all'inquadramento di un fenomeno consistente al punto da costringere organizzazioni e individui seriamente interessati alla ricerca storica a lunghi lavori di verifica e di smentita, quello delle fan fiction antipartigiane. Il collettivo Bourbaki sostiene che internet e in particolare le "reti sociali" abbiano amplificato senza seri ostacoli il "lavoro" di "eroi folk, professionisti della polemica mediatico-culturale, professori di liceo e scrittori di lungo corso, pubblicisti locali e grandi nomi del giornalismo". Una costellazione solitamente animata da malafede e tornaconto che da bassofondo folkloristico da sempre presente nel mondo della "libera informazione" della penisola italiana è diventata in una decina d'anni "il suo cuore più pulsante e vitale", anche grazie alla esplicita e determinata volontà politica di sostituire una intera narrativa fondante avvalendosi di qualsiasi mezzo a disposizione a prescindere della verità storica e il più delle volte anche di un minimo di onestà intellettuale.
Accostandosi al tema del libro, gli AA. considerano il "Corriere della Sera" una fonte preziosa di elementi ricorrenti nella attuale narrativa antipartigiana in considerazione del vasto pubblico e perché nemmeno la fine dell'autoritarismo gli impose di cambiare una linea editoriale che prevedeva per lo più delle attente parafrasi delle veline governative. Dopo aver veicolato nel 1944 l'immagine del "partigiano bimbominkia", lo stesso foglietto nel 1946 categorizzava sotto la voce "partigiani finti" tutti coloro che non rientravano nel cliché irrealistico dell'eroe senza macchia. In via Solferino si postulava irreprensibile solo chi aveva combattuto una guerra senza uccidere i nemici: evidenziare questo elemento è molto utile a controbattere la narrativa insistente per cui i combattenti irregolari sarebbero sempre andati esenti da ogni critica. Lo stesso "Corriere" seguì nel dettaglio i processi ai partigiani per le fucilazioni di Oderzo e l'eccidio di Schio, il caso Moranino e il caso Briga, l'oro di Dongo e i "mostri di Bargagli" attestando contro la stessa narrativa di cui sopra che la sete di sangue delle belve rosse non ha goduto di impunità particolari e tanto meno di processi farsa, ma al tempo stesso sovrapponendo l'immagine del partigiano a quella del delinquente comune. Una rappresentazione che ha le proprie radici in piena guerra, si sviluppa fino agli anni Cinquanta e riemerge quarant'anni dopo pronta a riempire il mainstream arricchita di nuovi particolari granguignoleschi. Con l'affermarsi delle "reti sociali" ad esempio è emersa una prima insospettata propensione dei partigiani comunisti per la violenza carnale; il collettivo Bourbaki rileva che si tratta di un elemento assente anche dai martirologi fascisti più puntigliosi, ma che oggi può essere costruito senza alcuna prova associando a un nominativo preciso una foto in bianco e nero fatta chissà dove e che ritrae una ragazzina martoriata. La narrativa su Giuseppina Ghersi, sostengono gli AA., mostra a prima vista forti legami col gazzettificio scandalista e labili o nulli rapporti con qualsiasi contesto più serio, ma può servire a denunciare la sinistra buonista che tace oggi sugli stupri commessi dagli immigrati come un tempo sorvolava su quelli commessi dai partigiani. La pur scarsa documentazione disponibile dimostra invece che nelle formazioni irregolari l'eventualità era prevista e il gesto severamente sanzionato.
Il collettivo Bourbaki nota come la narrativa su Giuseppina Ghersi si sia ingrandita e diffusa solo dopo il 2010, approdando al mainstream e alla toponomastica dopo che anche le fonti fasciste più capziose non le avevano dedicato che qualche riga al massimo. Confutare narrazioni che chiunque può inventare, mettere on line, far diventare virali e in qualche caso erigere a verità comprovata nello spazio di qualche ora ha richiesto cinque anni di lavoro; in questo, gli AA. hanno operato secondo due direttrici, quella della ricostruzione storica e quella della storia delle narrazioni nate e sviluppatesi intorno al caso specifico.
La seconda parte tratta della storia di Giuseppina Ghersi, cui il collettivo ha cominciato a interessarsi nel 2017 dopo che la dedica di una targa a Noli e la critica dell'iniziativa da parte dell'ANPI in Liguria avevano scatenato una cagnara telematica. La vicenda viene contestualizzata nella Savona degli anni 1920-1945, una città operaia in cui nel 1927 si poteva ancora tenere un processo in cui Rosselli, Parri e Pertini potevano difendersi con tanta efficacia da mettere all'angolo l'accusa e da indurre Roma ad affinare ancora di più il proprio apparato repressivo. Gli AA. notano l'alto numero di vittime imposto alla città fin dal 1940 (porto e industrie dalle difese pressoché inesistenti sono esposti a bombardamenti dal mare e dal cielo) e descrivono la nascita e l'affermazione del movimento partigiano fino all'arrivo in città della San Marco, una divisione di fanteria di marina della Repubblica Sociale la cui Controbanda si distingue per i metodi efferati. Secondo il collettivo Bourbaki l'altissimo livello dello scontro, i rastrellamenti condotti grazie ai delatori e il successivo sfaldarsi dell'apparato repressivo nell'aprile del 1945 rendono sempre più facile identificare le spie e i collaborazionisti da parte di formazioni partigiane che tra l'altro non erano affatto monoliticamente comuniste. Gli AA. sottolineano anzi come il CLN imponesse a una divisione partigiana del savonese un comandante liberale, allo scopo di rassicurare le componenti moderate nell'imminenza della fine della guerra.
Il libro presenta i dati disponibili su Giovanni Stefano Ghersi e la moglie Laura Giselda Mongolli rifacendosi per lo più a verbali e denunce. Sposatisi nel 1930, in piena guerra i Ghersi vivono senza problemi grazie alle molte proprietà accumulate e ai traffici intrattenuti; "famiglia facoltosa in aria di ricettazione e dai forti sentimenti fascisti" in un quartiere in cui tutti vivono in condizioni opposte. Il tramite fra la giovane Ghersi e i reparti della Repubblica Sociale di stanza a Savona è probabilmente da identificarsi nello zio Attilio Vincenzo Mongolli, arruolatosi nelle stesse formazioni; dall'estate 1944 la ragazza si costruisce una diffusa e comprovata fama di delatrice, che essa stessa contribuisce ad alimentare vantandosi delle persone arrestate o uccise grazie a lei. Il 29 dicembre 1944 la Ghersi invia a Mussolini una lettera che sembra un collage di frasi tratte da un prontuario di propaganda. Ancora a fine aprile 1945, nonostante gli avvertimenti e nonostante il suo nome fosse presente in liste di spie da eliminare ("impiegata federazione fascista - coopera con i nazifascisti - marcia armata di rivoltella", "Signorina Ghersi, mangia alberto Piemonte, spia questura Savona") Giuseppina Ghersi continua a girare armata e ostentando lo stesso atteggiamento.
Il collettivo Bourbaki considera esistenziale il rapporto tra fascismo e violenza. Gli "sciagurati sgherri di quindici anni" citati da Primo Levi erano nati e cresciuti in un'atmosfera bellicista in cui la propaganda aveva arruolato e messo in camicia nera anche Pinocchio, e i processi alle ausiliarie della Repubblica Sociale attestano che la delazione e le denunce erano campo di eccellenza delle giovani collaborazioniste. L'arresto dei coniugi Ghersi e l'esecuzione della figlia vengono ricostruiti ricorrendo alla fonte principale, le dichiarazioni da loro rese nel 1949. Gli AA. spiegano che l'arresto dei Ghersi avvenne per strada su segnalazione di un vicino che li conosceva e che con ogni probabilità sapeva "delle delazioni di Giuseppina, dei commerci dei Ghersi coi nazifascisti, dell'appartamento affittato ai fanti della San Marco, di Attilio Vincenzo Mongolli brigatista nero", che la figlia fu arrestata il giorno successivo e che le testimonianze sulle sue ultime ore sono confuse e divergenti sia sul trattamento riservatole (è solo il padre a parlare di torture) sia sul giorno della sua esecuzione.
Col maggio 1945 inizia la "normalizzazione" anche a Savona; la commissione alleata di controllo impone uomini propri ai vertici delle amministrazioni, per lo più nel segno della continuità con il precedente governo autoritario. Il collettivo Bourbaki mette in evidenza anche questo per confutare il postulato di uno strapotere dei comunisti di cui è altrettanto postulata la propensione ai comportamenti sanguinari. A fare le spese dei regolamenti di conti del dopoguerra sono a Savona circa 480 persone, la metà nei primi due mesi dopo la fine della guerra e per motivi non sempre connessi all'attività bellica o politica, sia pure in un contesto e in un momento in cui era normale che tutti coloro che avevano fatto parte dell'apparato statale fascista venissero considerati "colpevoli come chi aveva impugnato un'arma".
Gli AA. notano il comportamento poco eroico di Giovanni Stefano Ghersi -più attento a lamentare il saccheggio dei propri beni che non la sorte di una figlia sulle cui attività dice di essere all'oscuro- e la sua estromissione di fatto dal tessuto produttivo locale, che obbligò la famiglia a trasferirsi per anni a Finale Ligure.
La rapidissima parabola dell'alto commissariato per l'epurazione e l'amnistia voluta da Togliatti su basi giuridiche per lo meno elastiche sono l'occasione per sgombrare il campo da un altro postulato ricorrente, che vuole i comunisti autori tanto di una repressione spietata e revanscista quanto di una pervasiva occupazione di ogni ganglio di potere. Un segno del fatto che la magistratura si comporta in rimarchevole continuità con il passato è data dalle cifre: all'inizio degli anni Cinquanta i partigiani detenuti con le condanne più diverse sono in numero superiore ai loro avversari.
Il libro segue il cattivo ritorno dei Ghersi a Savona in un 1949 che li vede prima sospetti di ricettazione di buoni del tesoro (Laura Mongolli ne uscirà pulita proprio grazie all'amnistia) e poi convocati come testimoni in un processo per la scomparsa dell'intera famiglia Biamonti. Non sono loro a chiedere un'indagine sulla morte di Giuseppina e nelle sei pagine scarse di memoriale scritte in questa circostanza da Giovanni Stefano Ghersi la sorte della figlia ne occupa due. Le altre sono eloquentemente dedicate a lamentare furti e spoliazioni. Il partigiano Luigi Rossi, in detenzione preventiva per la scomparsa dei Biamonti, viene accusato della morte di Giuseppina Ghersi e di altri casi analoghi. Nel 1950 i Ghersi vennero interrogati sul caso Biamonti e aggiunsero nomi e cognomi; accusano Giuseppe Gatti (indicato come "Gatto Pino") di essere l'assassino di Giuseppina e altri partigiani di essere per lo meno informati sui fatti. Interrogato in proposito Luigi Rossi sa solo che la questura di Savona aveva ordinato la scarcerazione della giovane. Viene comunque amnistiato in istruttoria (anche per altri tre omicidi di cui era accusato) perché a detta del procuratore tutti atti "commessi subito dopo l'insurrezione del 25 aprile 1945, senza alcuna ragione diversa dalla lotta contro il fascismo, in persona di elementi infidi che avevano collaborato con i tedeschi e combattuto contro i partigiani". Nessun processo sommario, nessun insabbiamento; l'applicazione dell'amnistia dispensa il giudice dall'accertare il merito dei fatti e anche di sentire gli altri accusati.
Secondo il collettivo Bourbaki si può soltanto supporre, data l'esistenza di un ordine di scarcerazione, che l'uccisione di una delatrice organica alle brigate nere ricercata come spia e dalla pessima fama in città sia stata esito dell'iniziativa individuale di qualcuno. Resta il fatto che fu uccisa "senza alcuna ragione diversa dalla lotta contro il fascismo".
La terza parte del volume si occupa della storia della storia del caso Ghersi. Il collettivo Boubaki inizia a farlo esponendo i mutamenti costanti cui è stata sottoposta la "narrativa ufficiale" degli eventi bellici e la ormai abituale demonizzazione del movimento partigiano, iniziata negli anni Novanta in àmbito locale con il recupero di centoni vittimistici in genere privi di riscontri oggettivi e proseguita fino a oggi col dilagare sui mass media e in rete di una vulgata centrata su piagnistei rancorosi. Gli AA. illustrano come le narrazioni sul caso Ghersi abbiano esordito nel 1992 su un libello di interesse locale tenuto insieme da affermazioni di incertezza e passaggi ambigui, ricco di descrizioni a tinte forti, spoglio di ogni nota e di ogni riferimento alla documentazione disponibile ma in compenso non privo di affermazioni contraddittorie e soprattutto di riferimenti alla malvagità metafisica dei combattenti partigiani. Nel 1998 un altro libello ripropone il riferimento alla violenza sessuale, privo anch'esso di indicazioni sulle fonti. Col 2003 la questione esce dai confini regionali grazie a "Il sangue dei vinti" di Giampaolo Pansa. Un testo privo di note e di apparato bibliografico in cui ogni passaggio oscuro in una vicenda viene riempito con l'immaginazione e con il "sentito dire". Nel 2008 la vicenda torna a livello locale grazie a siti e blog tenuti da "presidenti di associazioni" che non rappresentano altro che se stessi, e arriva a una politica istituzionale desiderosa di pacificazioni intese nel migliore dei casi come equiparazione tra vittime e carnefici. Dopo il 2010 le "reti sociali" amplificano oltremodo le istanze revisioniste della narrazione. Il caso Ghersi, gonfiato di notazioni agiografiche, serve a una demonizzazione del movimento partigiano ormai priva di qualsiasi remora e sempre meno agganciata alla realtà man mano che col circolare telematico viene arricchita da utenti che raggiungono "vette estreme nel tasso di invenzione". Il cerchio si chiude a Noli nel 2017.
Come già scritto, La morte, la fanciulla e l'orco rosso è un caso particolare di applicazione del metodo storico per la confutazione della narrativa nata su un caso specifico. Il metodo utilizzato è impegnativo ma generalizzabile, come attesta l'ultimo capitolo del libro che prende in esame l'invenzione del Manfrei. Il collettivo Bourbaki afferma di essersi imbattuto nell'efferato eccidio di monte Manfrei durante le proprie ricerche sul caso Ghersi; duecento combattenti della Repubblica Sociale, pare, si dice, si mormora, sarebbero stati uccisi e sepolti in diverse riprese attorno alla vetta appenninica tra Savona e Genova nei giorni immediatamente successivi alla fine della guerra. Alla poca plausibilità di azioni del genere, che avrebbero costretto nel momento dell'insurrezione generale intere formazioni a rimanere in disparte per dedicarsi a capziose pratiche di uccisione e sepoltura, gli AA. accompagnano un esame delle fonti dirette con particolare riferimento agli elenchi di caduti tenuti dai corpi armati della Repubblica Sociale. Un esame che porta a concludere che l'eccidio di monte Manfrei non sia mai avvenuto e che la sua esistenza sia frutto di una lettura disattenta accompagnata da una certa dose di esagerazione.
La conclusione del libro ripropone a mo' di vademecum i sette punti della "lista di controllo" frutto della lettura della Apologia della Storia di Marc Bloch, e ne suggerisce l'utilizzo contro quello che gli AA. definiscono "populismo storico", un uso pubblico della storia che distorce il senso degli eventi e che viene usato nella pratica politica con sensibili ricadute materiali sulla vita sociale. Nella penisola italiana una di queste ricadute è data dal tentativo di costruire "una memoria condivisa e politicamente orientata all'autoassoluzione e alla vittimizzazione".


Nicoletta Bourbaki - La morte, la fanciulla e l'orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana. Alegre, Roma 2022. 296 pp.