Il comune sentire dà per scontato che tra Oriente e Occidente esista una contrapposizione oggettiva basata su fondamentali differenze di struttura e di valori che statuiscono l'egemonia occidentale. In questo volume basato su un ciclo di lezioni tenuto all'Università di Pavia, Mario Liverani sottolinea invece che questa contrapposizione è l'esito di un lungo processo, che è tipica del solo Occidente e che è possibile postulare una egemonia occidentale solo omettendo millenni di orientamento opposto.
Le radici antiche di un rapporto ambiguo considera il rapporto tra Oriente e Occidente oggetto di una rappresentazione mediatica e politica distorta, costruita di proposito su contrapposizioni drastiche. Allo studioso innanzitutto il compito di delineare il percorso storico che ha portato a questa situazione, tenendo conto dei fenomeni legati alla globalizzazione. Il "paradigma contrappositivo", nota l'A., non mette sullo stesso piano due mondi contrapposti, ma è un modo ideologico per affermare la centralità dell'Occidente in una visione evoluzionistica e monolineare. In essa, l'Oriente ha un ruolo negativo o inferiore, oppure si vede riconosciuti lontanissimi e passati meriti. Lo storico è in grado di ripercorrere il costituirsi di questa ideologia della contrapposizione e di toglierle il carattere di postulato. Liverani indica anche come, almeno in alcune fasi storiche, a Oriente e Occidente si sia interposto il Levante, luogo di compromesso, di mediazione e di confine il cui eclissarsi coincide con un aumento della conflittualità.
La prima parte del libro tratta della opposizione strutturale. Il primo capitolo affronta il tema de la riscoperta dell'antico Oriente notando che di norma la civiltà occidentale studia ciò che sta distruggendo, per lo più nell'ultimo momento utile prima che la distruzione sia completa. Nel caso specifico il patrimonio archeologico ed epigrafico del Vicino Oriente sono stati oggetto di approfondimento nella fase storica in cui l'Occidente andava appropriandosi sul piano politico e militare delle sue risorse. Lo studio storico-scientifico si è quindi inserito in un clima politico e culturale di un certo tipo -caratterizzato dalla crescente ingerenza dei paesi europei in tutti i settori economici dell'Impero Ottomano- che non può essere considerato irrilevante e che portò alla nascita e allo sviluppo degli studi orientali. In precedenza l'Oriente era stato considerato "sede di antica sapienza, intrigante nella sua diversità ma per nulla inferiore". I pregiudizi antiorientali, sottolinea Liverani, dilagano solo in età coloniale nonostante l'impatto con la realtà sia spesso demitizzante agli occhi dei viaggiatori occidentali; durante l'epoca del colonialismo, i cui limiti sono fissati dall'A. nella spedizione napoleonica in Egitto del 1798 e nella visita del Kaiser a Istanbul e Gerusalemme di un secolo dopo, acquistano slancio discipline come l'assiriologia e l'esplorazione archeologica sistematica. Questa appropriazione culturale riempì i musei delle capitali europee per lo più grazie a diplomatici e ad agenti commerciali sostenuti dalle rispettive diplomazie che agivano con quelli che oggi sarebbero senza mezzi termini definiti scavi di rapina, e trovò fondamento nel diffuso disinteresse orientale per il retaggio preislamico e nella pretesa che in quanto materiali biblici o classici essi fossero in ogni caso di pertinenza occidentale. I panorami "orientalisti" della pittura contemporanea mostrano le testimonianze di un passato grandioso che fanno da rifugio a pastori e senza tetto. Nella borghesia del XIX secolo, rimarca Liverani, si diffuse la consapevolezza del fatto che le civiltà antiche dislocate fuori dall'Europa erano state la culla della stessa civiltà europea e che il colonialismo aveva il merito di recuperarne la conoscenza per i legittimi eredi spirituali.
Le civiltà dell'antico Oriente suscitarono enorme interesse perché erano il mondo della Bibbia; solo la civiltà egiziana presentava una continuità di conoscenza con aspetti "misterici" legati ai culti funerari e alla scrittura geroglifica. La civiltà assiro babilonese fu invece oggetto di una vera riscoperta alla metà del XIX secolo, soprattutto nei paesi protestanti dove erano note e diffuse le vicende bibliche che fecero da prisma per la sua interpretazione. Liverani rileva come le scoperte archeologiche in Mesopotamia fornirono al pubblico europeo lo scenario dell'Antico Testamento e in ultima analisi una conferma della veridicità del racconto biblico, oltre a destare l'interesse anche per il patrimonio culturale della Palestina. Lo studio critico dei testi biblici e della loro cronologia portò ad approfondire la toponomastica palestinese con centinaia di identificazioni. Si nota che mentre la filologia dubitava dei testi biblici, l'archeologia veniva usata per confermarli e la vicenda della lotta dei cananei contro gli habiru emersa dagli archivi di el Amarna fu letta come una versione contrapposta del racconto biblico nel libro di Giosuè. L'attività archeologica in Palestina e nel Vicino Oriente in generale nacque nel segno della conferma della fede cristiana e venne organizzata e finanziata in questa ottica. Nel quadro della riscoperta colonialista arabi e turchi erano considerati gli ultimi arrivati, invasori incivili e infedeli culturalmente incapaci di curare un patrimonio che i legittimi eredi erano venuti a reclamare.
La questione "razziale" è affrontata dal terzo capitolo. Nel XIX secolo inizia a perdere legittimità l'identificazione tra lingua, cultura e razza nonostante la forza degli stereotipi culturali che fissavano sul Levante una frontiera etno-linguistica tra Occidente e Oriente, l'importanza allora attribuita alla discendenza genetica, le condizioni embrionali dell'etnografia e il sussistere anche in ambienti colti della "tripartizione delle genti" sancita dalla Bibbia anche a "sfondamento diacronico" avvenuto. L'evoluzionismo e la geologia, negli stessi anni, relativizzano il mondo antico e ne confinano la parabola in pochi secoli, ma di questi sviluppi gli autori delle scoperte vicino-orientali e i grandi orientalisti non partecipano. Liverani cita come esempio Renan, convinto assertore dell'esistenza di popoli dai caratteri invariabili che agiscono secondo ben identificabili caratteristiche gerarchiche in una Storia descritta con metafore teatrali. In Renan solo ariani e semiti, sulla "scena" dal 2000 avanti Cristo, hanno titolo di "grandi razze nobili" e caratterizzazioni diverse (spesso contrapposte) da cui emerge una superiorità ariana innata e stabile. In casi come questo il decollare degli studi orientali, indica l'A., fornisce basi scientifiche e giustificazioni oggettive all'antisemitismo. Liverani delinea per l'Oriente il formarsi di due paradigmi interpretativi diversi, uno appropriativo basato sulle origini orientali del cristianesimo e dei miti greci, e uno contrappositivo basato su pregiudizi razziali e sociopolitici nati nella grecità classica e vistosamente confermati dalle condizioni del Vicino Oriente ottocentesco, stretto "tra la rapace fiscalità ottomana e la rinunciataria indolenza araba". Un contrasto che considerava la conquista coloniale una soluzione coerente per ribadire l'ascendenza occidentale delle civiltà antiche e per estendere anche al Vicino Oriente contemporaneo i vantaggi di una supremazia illuminata.
Il quarto capitolo sulla translatio imperii illustra come l'idea di un generale fluire della civiltà da est a ovest segnato dal progressivo trasferimento del centro del potere politico guidasse l'appropriazione delle civiltà orientali antiche da parte dei paesi europei. Il concetto che la supremazia di una civiltà sia caratterizzata da un ciclo in cui ascesa, apice e declino si susseguono secondo uno stesso schema e l'esistenza di una "regalità unica" la cui prima espressione è data dalle liste reali sumeriche e che giunge presto alla divinizzazione del sovrano sembrano confermate già molto in antico dalla rapida successione cronologica di tre imperi di pretesa universalistica come quello assiro, quello babilonese e quello persiano.
La teoria della translatio imperii, di antichissima formazione e mai abbandonata, riguarda la questione dell'egemonia politica. Nelle manifestazioni della cultura il suo corrispondente viene indicato da Liverani nella dottrina dello Ex Oriente Lux argomento del quinto capitolo. La storiografia antica mostra di considerare che la trasmissione nello spazio di elementi culturali avvenga tramite lo spostamento fisico di un eroe portatore: secondo Erodoto, Cadmo porta in Grecia l'alfabeto fenicio, Melampo apprende dai "cadmei" i culti dionisiaci, la seisàchtheia di Solone descritta dallo storico mostra chiara ispirazione nella remissione dei debiti diffusa fin dall'età del bronzo. Il contesto in cui scrisse Erodoto, sostiene l'A., doveva essere consapevole dei propri debiti culturali verso un Oriente considerato soprattutto un ricco ricettacolo di quanto atteneva il settore delle discipline religiose e delle arti divinatorie. La coscienza di una diversità basilare in ogni caso non si traduceva in senso di superiorità. Solo nel XIX secolo il paradigma dello Ex Oriente Lux entrò parzialmente in crisi con lo sviluppo del metodo storico che ne rovesciò gli assunti consentendo di rivendicare una specificità "occidentale" ed europea in campo etico e politico e riconoscendo invece debiti nei settori materiali, considerati meno strategici e meno significativi. L'A. nota come questo approccio sia ancora oggi quello della manualistica scolastica con la preistoria descritta secondo modelli etnografici, le civiltà orientali descritte nelle realizzazioni architettoniche, amministrative e politiche e quelle semitiche e occidentali definite dapprima nelle loro realizzazioni religiose e poi in quelle scientifiche e razionali.
Il sesto capitolo su Democrazia e dispotismo ricorda l'immagine dell'Oriente consolidatasi nel XIX secolo, quella di un ambiente dispotico, stagnante e asservito dove alla rapacità del fisco ottomano si accompagnava l'anarchia individualistica dei beduini del deserto. L'opposto degli imperi borghesi (e in una certa misura "liberali") contemporanei, fondati sulla libertà personale, la democrazia rappresentativa, la libera iniziativa e il progresso razionale. Valori nati nella Grecia antica, di cui l'Oriente veniva percepito come negazione. Un giudizio di valori netto che avallava il senso di superiorità e il dovere di civilizzazione alla base del colonialismo contemporaneo, che affondava nella contrapposizione tra città-stato e impero già presente nella grecità classica. Liverani sottolinea questa contrapposizione sollevi molti problemi, dal ruolo che l’armamento e la tattica oplitica ebbero per il successo greco contro l'impero persiano fino ai livelli di libertà e democrazia in città fondate sul lavoro schiavile, ma indica anche che a livello ideologico la vittoria greca fu sempre percepita e vissuta ideologicamente come una vittoria della libertà sulla servitù. Un paradigma destinato a ripetersi nel 1823 con la guerra di indipendenza greca, e a rafforzarsi con le scoperte archeologiche dei decenni successivi che identificarono nell'impero assiro un predecessore dell'impero ottomano, altrettanto connotato negativamente. L'artificiosità della contrapposizione, rileva liverani, sarebbe potuta emergere anche dal racconto biblico. Un rapido esame alle storie di Giuseppe -in cui viene esposto un contrasto tutto orientale tra un sistema di piccole proprietà familiari e un sistema di grandi demani regi- sarebbe stato sufficiente a rilevare l'inadeguatezza di certe dicotomie. Nel corso del XX secolo il dibattito sul tema ha acquisito almeno il merito di spostare la questione del dispotismo nel campo ecologico, mettendo in connessione il dispotismo con l'esistenza di sistemi di canalizzazione agricola estensiva e identificandone le radici in un ambiente il cui sfruttamento richiede un certo tipo di organizzazione politica centralizzata.
In Città e palazzo si specifica come gli storici dell'antichità classica di metà del XIX secolo avessero elaborato un concetto di "città antica" che ignorava completamente le città orientali nonostante la contemporanea riscoperta delle capitali assire. Il modello era quello della polis e dei suoi valori specifici; secondo una concezione destinata a perdurare almeno fino al 1950 e all'introduzione del concetto di "rivoluzione urbana" la città orientale non poteva che essere espressione del dispotismo, date anche le grandi dimensioni poco compatibili con l'autogoverno e con la democrazia diretta. Attualmente, indica Liverani, il ricorso al concetto di "città islamica" indica la sopravvivenza di una concezione bipartita che finisce con l'ignorare il dato archeologico, considerando una continuità con la città antico-orientale invece che con il modello occidentale della città bizantina.
Nell'ottavo capitolo su La rivoluzione neolitica l'A. indica come la nascita della paletnologia nella prima metà del XIX secolo abbia comportato importanti questioni ideologiche a cominciare con lo "sfondamento" della cronologia biblica -che implica il rifiuto della rivelazione divina e del concetto stesso di creazione- e con la prospettiva di una evoluzione storica e culturale che pur svolgendosi secondo una dimensione cronologica impensata venne inquadrata in una prospettiva di carattere evoluzionistico lineare. Gli sviluppi del concetto di "rivoluzione neolitica" vengono descritti da Liverani nel loro ricorrere a metodologie di ricerca raffinate e multidisciplinari e a metodi di datazione affidabili, che a partire dalla metà del XX secolo consentiranno di accertare la policentricità delle origini dello sviluppo agricolo e sociale.
Il concetto di rivoluzione urbana proposto nel 1950 da Gordon Childe e già affrontato dall'A. nei capitoli precedenti è al centro del nono capitolo del volume. L'evoluzionismo lineare proposto da Gordon Childe prevede il passaggio da uno stato selvaggio identificato col paleolitico alla barbarie del neolitico e inifine alla civiltà, che avrebbe inizio con l'età del bronzo. Un concetto ancora di impronta ottocentesca: di nuovo in Gordon Childe è invece il tentativo di spiegare i passaggi da uno stadio all'altro, tentativo fondato su concetti marxisti. Ipotizzando in questo senso il verificarsi di eventi di rottura, dolorosamente segnati da conflitti sociali e dai relativi costi, G.C. presenta l'idea di una "rivoluzione neolitica" per il passaggio dallo stato selvaggio a quello della barbarie e di una "rivoluzione urbana" per la transizione alla civiltà. G.C. collega l'urbanizzazione alla gestione delle eccedenze produttive e insiste sulla questione della specializzazione lavorativa, a suo avviso discrimine essenziale tra città e villaggio, conferendo al problema caratteristiche economiche, sociali e tecnologiche piuttosto che urbanistiche.
In Scrittura e amministrazione Liverani afferma che negli ultimi decenni l'analisi della documentazione archeologica ha fatto preferire al concetto di rivoluzione quello di transizione, intesa come aggiustamento progressivo e non conflittuale, non progettato e spesso neppure percepito. Nel caso di Uruk l'esame dei testi arcaici disponibili ha permesso di datare alla fine del IV millennio procedure amministrative simili a quelle meglio documentate mille anni più recenti. L'A. utilizza il concetto marxista di accumulazione primaria per spiegare l'emersione di un apparato amministrativo in grado di gestire le eccedenze sottraendole all'autoconsumo ed esamina nel dettaglio l'organizzazione della produzione di orzo e quella di lana nella bassa Mesopotamia notando tra l'altro che entrambe le produzioni necessitano di concentrazioni di mano d'opera per brevi periodi, di magazzini e di lavoro amministrativo.
La genesi del Levante viene esaminata nell'undicesimo e nel dodicesimo capitolo. L'undicesimo descrive il Vicino Oriente alla fine dell'età del bronzo; Liverani nota che anche nel passaggio all'età del ferro il rapporto tra Europa e Vicino Oriente non è quello di due entità equivalenti e contrapposte; l'Europa è ancora un nucleo modesto, alla periferia del complesso orientale. L'A. indica il Vicino Oriente come connotato dalla presenza di un’organizzazione politica centralizzata in un sistema di insediamenti a più livelli (capitale, centro amministrativo periferico, villaggio), dotata di un apparato amministrativo formale, con un controllo territoriale basato su frontiere e tassazione interna e in grado di esercitare un controllo socio-economico sulla popolazione, e suggerisce di cartografare la presenza di complessi palatini per delimitare l'estensione spaziale di questo sistema organizzativo. Accanto a questo indicatore, l'A. definisce quello rappresentato dal reperimento di testi scritti e rileva come l'area complessiva coperta dai diversi sistemi di scrittura coincida grosso modo con l'area palatina. Un'area statalizzata ben definita confinerebbe alla fine dell'età del bronzo con aree ad organizzazione politica non statale. Liverani elenca i "grandi regni" del sistema regionale mediorientale: Egitto, Hatti, Mitanni (poi Assiria), Babilonia e Elam, con il mondo miceneo attestato come potenza di pari rango in un solo testo noto, contrassegnato eloquentemente da una successiva cancellatura. A questa ripartizione Liverani accosta quella dei domini indiretti, i "piccoli regni" autonomi ma non indipendenti caratteristici soprattutto di Siria, Palestina, parte dell'Anatolia e dell'alta Mesopotamia, e rileva l'esistenza di una fitta rete di scambi in campo politico, economico e dinastico, tra interlocutori che si percepiscono e si presentano come paritari, con il babilonese come lingua diplomatica. Al preteso controllo dell'organizzazione statale sfuggono, nota Liverani, estese regioni di confine dominio di comunità agropastorali prive di autorità centralizzate, in un quadro che consente di concludere come nel periodo considerato l’area statalizzata fosse compatta, relativamente circoscritta e circondata da un vasto ambiente tribale. Il mondo miceneo, ripete l'A., vi aveva un ruolo marginale sia per collocazione spaziale che per le caratteristiche del suo sistema palatino e archivistico.
Il dodicesimo capitolo esamina la questione dei "Popoli del Mare", popoli di origine balcanica protagonisti di un corposo spostamento di popolazione lungo una direttrice marittima che giunse in Palestina e una terrestre verso l'Anatolia. L'A. indaga gli effetti del fenomeno sul sistema regionale della tarda età del bronzo, che ne uscì diviso in due parti del tutto diverse per organizzazione e per prospettive politiche e culturali. Una svolta che l'A. indica come epocale perché comportò cambiamenti sostanziali nell'uso del territorio, nella concezione stessa dello stato e al tempo stesso introdusse elementi per una prima contrapposizione fra Europa e Oriente con l'inserimento della zona intermedia del Levante. L'A. si sofferma sulla completa revisione delle tecnologie imposta e favorita dal crollo delle vecchie reti commerciali e dalla fine dell'organizzazione palatina, esaminando la diffusione del ferro e dei camelidi, le nuove tecniche nella nautica e nelle infrastrutture agricole, i diversi stili di combattimento, la diffusione della scrittura alfabetica. Liverani sottolinea come il processo per linee interne della crisi finale dell'età del bronzo abbia ricevuto energia di attivazione dall'esterno, e di come i dati paleoclimatici e della dendrocronologia confermino gli spostamenti di popolazione della fine del XIII secolo. Spostamenti massicci e violenti che provocarono il crollo del regno hittita e fecero vacillare quello egiziano, portando per la prima volta il Levante a non essere soggetto a questa o a quella grande potenza.
La prima età del ferro viene esaminata per quanto riguarda l'ascesa della città-stato (nel capitolo XIII) e le vicende che legano commerci ed alfabeti.
L'eclissi dell'organizzazione palatina, pure se non generalizzata né permamnente, viene considerata responsabile del profondo cambiamento del panorama urbano, segnato da elementi di pareggiamento tra città e villaggio per quanto riguarda la distribuzione delle ricchezze, dall'aumento di un bellicoso nomadismo e dall'affermarsi di un gravitare dei piccoli centri verso un gruppo tribale in grado di assorbire i fuggiaschi dal sistema palatino e le loro rivendicazioni ostili al palazzo. Al concetto di città-stato Liverani associa l'esame del concetto di stato nazionale, per lo più ritenuto risultato di una traiettoria storica consumatasi negli ultimi due secoli. L'A. invece ne identifica le origini nel passaggio all'età del ferro, momento in cui il fattore etnico si affianca a quello territoriale nella definizione dello stato, e lo contrappone come "stato etnico" al vecchio "stato territoriale" in un contesto in cui le frontiere della statalizzazione si ampliano, includendo territori ed elementi prima esclusi. Dalla tipologia istituzionale dell'età del bronzo ripartita in grandi regni, piccoli regni e tribù non statalizzate -spiega l'A.- si passa nell'età del ferro a una tipologia nuova dove i grandi regni superstiti (in Oriente, non nel Levante) danno origine a stati regionali a vocazione imperiale, i piccoli regni danno origine a città-stato e le tribù a stati etnici, in cui fondamento della cittadinanza sono parentela e discendenza e non la territorialità.
Il quattordicesimo capitolo su commerci e alfabeti definisce il Levante come l'area che nel XIII secolo era urbanizzata, statalizzata e dotata di scrittura, investita nel secolo successivo dalle invasioni provenienti dai Balcani: la Grecia e l’Egeo, l’Anatolia (salvo il Nord-Est), Cipro, la Siria e la Palestina. Con la nuova urbanizzazione nel X e IX secolo vi si trovano città-stato e stati etnici culturalmente e commercialmente vivaci, con una economia accentrata sui palazzi reali e sui consumi raffinati della corte e della classe abbiente che la circondava. Dal Levante oggetti di pregio, mode decorative, modelli di comportamento si diffondevano in Grecia, poi in Etruria e in altre zone del Mediterraneo. La diffusione dell'alfabeto, "inventato" in Palestina in piena età del bronzo, è collegata da Liverani alla crisi del XII secolo che aveva colpito anche le scuole scribali palatine e i loro sistemi sillabici. Dal Levante l'alfabeto si diffuse lungo le maggiori direttrici non soltanto verso Occidente, dando vita ad alfabeti locali in molte regioni toccate dal fenomeno. Liverani cita in conclusione il carattere levantino dei poemi omerici, notando che il patrimonio tematico di riferimento ha molti precedenti nell'area dalle composizioni egiziane ai poemi ugaritici. L'A. nota esplicitamente che nonostante l'Iliade sia stata interpretata come caso emblematico dello scontro fra Oriente e Occidente, fra Asia e Grecia, dalla sua lettura risulta che greci e troiani appartengono allo stesso mondo e seguono norme comportamentali comuni.
Nel quindicesimo e nel sedicesimo capitolo il testo affronta il tema della ascesa delle compagini imperiali di cui fra il 750 e il 500 avanti Cristo fecero le spese gli stati etnici e le città-stato.
Trattando dell'avanzata dell'impero assiro l'A. considera necessario esporre gli aspetti significativi dell'interazione fra i tre tipi di stato che terminò col successo del tipo imperiale, dal momento che la bipartizione fra Oriente e Occidente si è basata anche su questo elemento. Uno di questi aspetti sarebbe stato dato dalla relativa difficoltà di annettere confederazioni tribali prive di centri amministrativi -che anzi in alcuni casi giunsero a compenetrare i nuclei imperiali arrivando anche ai vertici dell'organizzazione come i libici nel basso Egitto o i caldei a Babilonia- laddove annettere città-stato già organizzate avrebbe presentato difficoltà assai minori. In questo senso l'A. cita l'impero assiro e la sua annessione nel IX-VII secolo delle città-stato siriane, palestinesi e anatoliche descrivendone nel dettaglio l'espansione aggressiva fondata sulla eliminazione della élite locale e su peculiari deportazioni incrociate utili a distruggere l'individualità etnica. Liverani nota che la vitalità delle città-stato conquistate dagli assiri cessò bruscamente e che ogni ricostruzione avvenne in funzione dell'Assiria, con la distruzione di fatto delle tradizioni locali, dell'autogoverno e di quella coscienza "nazionale" che aveva caratterizzato i regni levantini. Solo pochi centri della Fenicia e della Palestina (tra cui Gerusalemme) sfuggirono parzialmente a questa sorte. Un accenno al rapido crollo dell'impero assiro nel 630-610 e alla spartizione di fatto dei suoi territori da parte della Media, di Babilonia e dell'Egitto apre il XVI capitolo, che continua esponendo le vicissitudini delle città fenicie e palestinesi rimaste autonome fino alla conquista babilonese, con specifico riguardo per Tiro e per il regno di Giuda. L'A. nota il carattere diverso delle deportazioni babilonesi, unidirezionali alla volta della capitale e con i deportati liberi di esercitare un minimo di autogoverno, e ridimensiona sotto molti punti di vista la rilevanza dei Medi come partecipanti alla translatio imperii considerando la costellazione dei loro centri montani privi di burocrazia e di amministrazione formale come sostanzialmente dipendenti dalle sorti dell'impero assiro. Di interesse rilevante per la storiografia antica e per i rapporti tra Oriente e Occidente Liverani considera invece l'assoggettamento (o il loro inserimento in una struttura statale di livello superiore, a seconda del punto di vista) delle città ioniche dell'Egeo da parte del regno di Lidia, cui venivano ascritti propensione alla tesaurizzazione ostentatoria di beni altrimenti destinati allo scambio in un'economia produttiva e caratteristiche di stato territoriale, fiscale e monocratico in contrapposizione alla democrazia dell'autogoverno cittadino. In ultimo il testo esamina l'espansione dell'impero persiano, la sua relativamente maggiore attenzione per le autonomie locali e la fine della sua spinta propulsiva contro una periferia greca sorprendentemente agguerrita. Liverani indica nelle larghissime barriere spaziali e nell'inadeguatezza delle armate imperiali alla guerriglia le cause principali della fine dell'espansione persiana, e affermare che la periferia dell'impero poté elaborare lo scontro con esso come basato su valori ideali, e il suo esito proprio come determinato da una differenza di valori. I limiti dell'espansione imperiale sarebbero diventati la frontiera tra due mondi idealmente diversi e avrebbero generato una contrapposizione tra Oriente e Occidente destinata ad attraversare il tempo anche nel variare delle vicende e delle congiunture. L'A. sottolinea come nel Levante egeo le strategie di contrapposizione goderono di tempi maggiori di elaborazione rispetto al Levante asiatico e che prima delle riforme di Clistene la democrazia di ambito greco fosse "più o meno sugli stessi livelli delle città-stato del Levante siro-palestinese" secondo "un’evoluzione che lì fu stroncata dagli eserciti assiri e babilonesi" e che invece fu "capace in Grecia di darsi tempi sufficienti per maturare ed imporsi".
Fenicia e Grecia sono argomento del diciassettesimo capitolo. Nella vicenda imperiale persiana e nel suo preteso universalismo Grecia e Fenicia ebbero sorti diverse -nonostante le similitudini tra la loro organizzazione per città-stato e la loro collocazione costiera- per la diversa distanza geografica, che fece della Fenicia parte dell'Oriente e diretta avversaria della Grecia. L'A. illustra che le vicende delle colonizzazioni mostrano che sarebbe stata praticabile una convivenza pressoché pacifica in tutto il Mediterraneo, senza conflitti strutturali, e che solo con le guerre persiane la Fenicia diventò strumento dell'imperialismo.
La terza parte del libro su L'esito finale del confronto si apre con un XVIII capitolo dedicato alla età assiale del VI secolo, segnata secondo l'A. dall'emergere di una serie di innovatori che sarebbero simboli personificati di tendenze generali interne alle rispettive comunità. Le grandi culture tradizionali non sono toccate dal fenomeno, ripiegate come sono nella rielaborazione arcaizzante del proprio patrimonio culturale; l'A. rileva come i centri propulsori delle nuove tendenzze siano le realtà marginali ai grandi imperi, i gruppi deportati a Babilonia, le comunità montane iraniche. Liverani considera l'età assiale come caratterizzata dall'emergere della identità individuale, studiato nella Grecia arcaica usando indicatori come l'arte figurativa o la poesia lirica; il processo sociopolitico e giuridico alla base del fenomeno sarebbe tuttavia meglio documentato nel Vicino Oriente, dove inzia nel tardo bronzo ma conosce una reazione improvvisa nell'età del ferro con l'epansione imperiale, appena in tempo per finire sotto gli occhi di osservatori greci pronti a descrivere la situazione in termini di "schiavitù generalizzata". I fermenti delle nuove tendenze etiche e dell'individualismo si rintracciano negli interstizi, alle frontiere geografiche o sociali della società imperiale. L'A. descrive la responsabilità collettiva "orizzontale" nella tarda età del bronzo, che rende responsabili di un delitto anche la famiglia e la comunità, e quella "verticale" che tocca le diverse generazioni e che riguarda gli usi ereditari (legati all'"onorare il padre e la madre", ovvero a prendersene cura) come fenomeni normali. Liverani cita in particolare il permanere del concetto nelle fonti bibliche e nota che accanto a posizioni ufficiali all'insegna della fermezza si riscontra anche una posizione individualista che si concretizza nelle scelte di quanti non torneranno dalla "cattività babilonese" o dall'Egitto per contribuire alla rinascita di Gerusalemme, preferendo restare a godere dei frutti delle proprie iniziative personali.
Il diciannovesimo capitolo considera come l'emergere del monoteismo sia considerato un elemento essenziale dell'età assiale. Liverani espone le origini leggendarie dello zoroastrismo e quelle del monoteismo ebraico, in cui confluiscono il carattere di un "dio nazionale" tribale tipico dell'età del ferro e quello della fedeltà univoca ed esclusiva pretesa dall'autorità imperiale. L'A. nota come la storia passata venne localmente interpretata alla luce della mancata osservanza del patto con la divinità. Rileva come la religione divenga espressione di valori morali condivisi, tenda a prescindere dai detentori del potere politico ed acquisisca una dimensione etica con cui tende a diventare religione universale dopo che con la deportazione aveva perso i caratteri cerimoniali. Tra i deportati si sarebbero verificate le condizioni "per il sopravvento di una religiosità di livello personale e di collocazione interiore, meno legata alla cerimonialità pubblica, e basata invece su valori etici"; una istanza in contraddizione con la necessità di comportarsi in modo da favorire la coesione di gruppo che portò all'accentuazione di una cerimonialità formale che funzionasse da segno distintivo e i cui segni più vistosi erano la circoncisione, l'osservanza del sabato e l'attenzione per la purità.
Nel comune sentire l'età assiale si identifica come quella in cui si contrappone la libertà personale alla servitù generalizzata, la democrazia al dispotismo, la razionalità alla magia. Quest'ultima contrapposizione è il tema affrontato nel capitolo 20. Liverani nota che la razionalità non era estranea alle epoche precedenti; in campo giuridico l'ordalia era una ultima ratio cui si ricorreva dopo il ricorso a soluzioni razionali, e testimonianze umane e divine continuavano a coesistere in documenti dello stesso tipo.
Nel XXI capitolo il testo torna a rifarsi all'epoca contemporanea e indaga i concetti di guerra santa e guerra giusta, usati mediaticamente per configurare una opposizione tra gli atteggiamenti culturali di Oriente e Occidente. La "guerra santa" evoca valori negativi di fanatismo, di xenofobia e di fondamentalismo religioso attribuiti al mondo islamico; la "guerra giusta" i valori positivi di legalità, di ordine e di equità attribuiti al mondo occidentale. Liverani indica come la guerra santa sia storicamente promossa da una comunità politico-religiosa che ha un rapporto privilegiato con la divinità, sia diretta contro chi non intrattiene con essa rapporti dello stesso genere, veda senza dubbio i fedeli della vera religione prevalere, e contempli la totale eliminazione del nemico o per lo meno il suo ricondursi al lato positivo del mondo. In ultimo una guerra santa dovrebbe essere una resa dei conti definitiva e dalle valenze apocalittiche: facendo prevalere il Bene sul Male dovrebbe mettere fine a ogni altra guerra possibile. Guerra santa e impero universale, nota l'A., sono concetti connessi ed espressioni parallele di una mentalità che non riconosce legittimità all'esistenza del diverso. Nella vistosa espressione sulla frontiera fra cristianità e Islam, le contrapposte guerre sante mostrano una sostanziale simmetria di valori. La crisi del paradigma interviene quando il mondo occidentale inizia a teorizzare la distinzione tra sfera politica e sfera religiosa e passa al paradigma della guerra giusta. Pur di lontane ascendenze nel mondo antico, sostiene Liverani, modernamente la guerra giusta si fonderebbe su criteri di carattere giuridico laico che si presumono comunemente accettati ovunque e sarebbe connessa con l’esistenza di una qualche entità giudiziaria mondiale, di un’opinione pubblica mondiale e di organismi di mediazione -se non di governo- della stessa portata. Detto altrimenti "all’ordine del dio supremo si sostituisce la delibera del Consiglio di Sicurezza: il nemico è tale in quanto estraneo o renitente alle decisioni dell’organismo legittimo, è implicitamente (o mediante prova giudiziale) connotato come malvagio e scorretto, è destinato a sicura sconfitta, e la sua eliminazione (fisica o politica) consente il trionfo della giustizia, un trionfo che sarà completo solo quando abbraccerà il mondo intero senza alcun residuo del lato oscuro". La fiducia nella divinità diventa fiducia nella tecnologia superiore, le morti nel proprio campo sono sempre limitate e accidentali, il nemico è sempre colpevole e cattivo per "peccato originale" di estraneità a un ordine legittimo o -nel caso della guerra giusta- per un crimine intollerabile e inemendabile. L'A. nota che nel Vicino Oriente antico l'allargamento dei confini era un imperativo ideologico dato dalla contrapposizione fra un territorio interno di carattere cosmico e un territorio esterno di carattere caotico e rispondeva alle necessità di ordinamento del mondo. In questo senso le guerre tra un sovrano interno e le genti della periferia assumerebbero caratteri di guerra santa e giusta al tempo stesso, tanto più se dirette contro popolazaioni prive di strutture statali o di vita urbana. Se l'avversario è di pari livello organizzativo e tecnico, è verosimile attendersi giustificativi basati su specifici peccati commessi contro le norme dei rapporti inter-statali, considerati comunque come diretti contro la divinità. L'accertamento mantico dell'appoggio divino, ricorda Liverani, mobilita truppe e popolazione, assicura della bontà delle proprie ragioni, placa la paura della morte e il senso di colpa legato all'uccidere criminalizzando un nemico isolato, senza dio o da esso abbandonato, sleale e scorretto. Il testo ricorda anche come la documentazione ufficiale dei regni vicino-orientali di norma tacesse in caso di sconfitta, dato il suo carattere celebrativo, fatta eccezione per le "lamentazioni" che di norma identificano la sconfitta con la punizione per un peccato commesso dal sovrano o dalla sua dinastia, o con l'esaurimento di un ciclo cosmico.
L'ultimo capitolo su Funzione e sorte del Levante definisce il Levante come interfaccia tra entità geopolitiche diverse; esaminando alcuni casi documentati nella tarda età del bronzo e in quella del ferro, l'A. indica come l'impero non emettesse solo editti unidirezionali, ma anche accordi e trattati per quanto asimmetrici. L'A. nota che alla fine dell'età del bronzo il Levante godesse di una buona autonomia: i grandi re probabilmente considerarono più conveniente non snaturare il ruolo di intermediazione dei regni levantini. Un equilibrio destinato a venire bruscamente meno -tolte le citate eccezioni- con l'invasione assira, e a subire grosse variazioni nei secoli successivi con lo sfondamento dell'ellenismo vereso Oriente prima, con l'ascesa dell'Islam poi.


Mario Liverani - Oriente Occidente, Laterza 2021. 248 pp.