In questo lungo lavoro oltremodo ricco di apporti aneddotici e di riferimenti bibliografici William Dalrymple descrive personaggi, origini e primi anni del Grande Gioco, la contesta anglorussa per il controllo dell'Asia Centrale diventata una sorta di invariante geopolitica su un terreno che nel corso del tempo si è dimostrato imparziale nell'impartire sconfitte brucianti a tutti gli interessati. Il libro è stato scritto fra il 2009 e il 202 nel corso di lunghi soggiorni in Afghanistan e con un accurato lavoro di raccolta documentale; ringraziando come d'uso i moltissimi che hanno contribuito in un modo o nell'altro alla redazione, Dalrymple ricorda di aver vsitato un "Museo del jihad di Herat, un assortimento di oggetti abbandonati dai vari eserciti stranieri che hanno ingenuamente cercato di conquistare l’Afghanistan: dai cannoni britannici della Prima guerra anglo-afghana sino a carri armati, jet ed elicotteri d’assalto russi. Si può star certi che non passerà molto tempo prima che un paio di Humvee americani o Land-Rover inglesi vadano ad arricchire ulteriormente la collezione". Il ritorno di un re è una lettura indicata per quanti sono interessati a capire meglio il contesto in cui si è avverata la previsione dell'Autore.
Una terra difficile da governare riassume gli avvenimenti che nel 1809 portarono una missione diplomatica della Compagnia delle Indie capeggiata dall'erudito Mountstuart Elphinstone fino al traballante trono dello shah Shuja al Mulk a Peshawar. La prima ambasceria occidentale in Afghanistan era stata organizzata per contrastare le mire napoleoniche sull'India e l'intenzione di Londra era quella di servirsi degli afghani per i propri scopi. L'A. specifica che nel corso dei decenni l'idea avrebbe accomunato diverse potenze, e che ogni volta gli afghani si sarebbero dimostrati capaci di difendersi in modo "assai più efficace di quanto i loro aspiranti manipolatori si sarebbero mai aspettati". L'A. riporta una breve dissertazione sulla nascita della monarchia Durrani e sullo spirito di un'epoca in cui le lotte intestine e l'assoluta impossibilità della capitale di far valere la propria autorità oltre una giornata di marcia dalla sede del trono avevano provocato una rapida decadenza economica e culturale. Pur accolto con tutti gli onori, sottolinea Dalrymple, Elphinstone non tardò a rendersi conto della situazione. "L'Afghanistan non era uno Stato ma un caleidoscopio di principati tribali in competizione tra loro", retti da capi la cui autorità traeva riconoscimento esclusivamente dalle relazioni personali e che "doveva essere negoziata o conquistata, ma non era mai data per scontata". Di conseguenza "in assenza di un sovrano con grandi disponibilità finanziarie o il miraggio di un ricco bottino a cementare i vari gruppi di potere (eventualità sempre più evanescente dopo l'insediamento degli inglesi nell'India settentrionale che gli afghani saccheggiavano con scorrerie periodiche), l’Afghanistan tendeva quasi inevitabilmente a frammentarsi". Proprio il precipitare della situazione, con il venire meno di qualsiasi lealtà verso shah Shuja -rimasto praticamente senza esercito e infine costretto alla fuga verso Lahore- indusse Elphinstone a lasciare il paese.
I prodromi del Grande Gioco sono descritti nel secondo capitolo che tratta dei tentativi di shah Shuja di reimpossessarsi del trono e del ridestarsi dell'interesse britannico per l'Afghanistan a causa del temuto espansionismo russo. Dopo la sconfitta dell'Impero Francese nel 1812 l'espansionismo russo si era affermato in Asia al punto che la conquista di Tehran e di Costantinopoli sembrava solo questione di tempo, cosa che aveva prodotto nel Regno Unito una certa produzione letteraria in cui la Russia veniva dipinta "come una nazione barbarica e dispotica, una minaccia alla libertà e alla civiltà". Nonostante l'assenza di pericoli concreti e immediati in India, l'idea che la Russia costituisse un avversario temibile iniziò a circolare negli ambienti della diplomazia e della politica, influenzandone i massimi livelli. Dalrymple utilizza le fonti per ricostruire la vita da prigioniero (neanche troppo) di riguardo di shah Shuja a Lahore presso il sovrano sikh Rajit Singh, la sua fuga verso Ludhiana (all'epoca controllata dalla Compagnia delle Indie) e gli sfortunati tentativi protrattisi per oltre dieci anni di riconquistare il regno perduto. Del desiderio di rivalsa di shah Shuja, fino a quel momento scontratosi con brutte sconfitte prima e col principio di realtà poi, si avvantaggiò la Compagnia. Dopo averne ignorato le istanze per anni, nel 1829 i britannici iniziarono a finanziare shah Shuja tramite il capo dei servizi di informazione a Ludhiana Claude Wade, perché organizzasse una spedizione sperabilmente più fortunata. Al tempo stesso però inviavano in Afghanistan Alexander Burnes alla corte dello stesso Dost Mohammed Khan che shah Shuja stava cercando di spodestare. Dalrymple nota che l'operato di Burnes non era affatto sconosciuto a Wade, e illustra nel dettaglio i non trascurabili difetti già presenti allora nella politica britannica sull'Afghanistan, "doppiogiochista e pericolosamente ambigua, con Burnes che avanzava profferte di amicizia a Dost Mohammad e ai Barakzai da un lato, mentre dall’altro il suo governo sosteneva segretamente una rivolta contro di loro. Come il tempo si incaricherà di mostrare, questa condotta non era soltanto ipocrita: era la ricetta di una catastrofe politica che sarebbe presto esplosa tra le mani di tutti gli attori coinvolti". La spedizione di shah Shuja prese finalmente il via nel 1833. Dopo molti successi iniziali, l'anno successivo subì a Kandahar un rovescio che denunciò il doppio gioco dei britannici. Claude Wade si trovò in difficoltà, Dost Mohammed Khan poté addurre la fiducia tradita come motivo per cercare contatti con i russi.
Dalrymple illustra nel terzo capitolo l'inizio vero e proprio della contesa. Presenta Jan Prosper Witkiewicz -un giovanissimo detenuto polacco che finì per fare ottima carriera come Ivan Viktorovič Vitkevič nell'esercito di quello stesso impero russo che lo aveva condannato alla deportazione in Asia Centrale- come pendant russo di Alexander Burnes, le cui opere tradotte in francese pare abbiano ironicamente attirato per la prima volta l'interesse russo su Bukhara e l'Afghanistan: "Come spesso accade nelle questioni internazionali, la paranoia dei falchi nei confronti delle minacce più improbabili finisce per generare proprio il mostro di cui si ha più paura". L'A. descrive la missione di Vitkevič in Persia del 1837 e la di poco preedente occupazione di Peshawar da parte dei sikh di Ranjit Singh cui seguì la reazione di Dost Mohammad, mostrando come il lungo lavoro diplomatico di Burnes diventasse lettera morta a Calcutta, dove George Eden primo earl di Auckland si trovava a governare un mondo che non conosceva e cui aveva guardato con "disprezzo paternalistico e un po' divertito", salvo trovarsi poi costretto a fidarsi di consiglieri "falchi e russofobi" guidati da William Macnaghten. Le informazioni sull'Afghanistan di cui i massimi gradi dell'autorità britannica in India disponevano erano quelle che passavano dalle mani di Macnaghten e di Wade, che in Afghanistan non erano mai stati e che screditavano metodicamente ogni proposta di Alexander Burnes, cosicché Dost Mohammad ne veniva ritratto nella peggiore luce possibile e l'ormai sessantenne shah Shuja diventava l'uomo su cui puntare. Lord Auckland dalla idillica cittadina montana di Simla dovette prendere decisioni vitali convinto che Peshawar fosse sikh da sempre, che Herat (che i persiani si preparavano ad assediare con l'aiuto russo) non corresse alcun pericolo e che Dost Mohammad e i suoi Barakzai fossero isolati militarmente e diplomaticamente. Dalrymple descrive la difficile situazione di Burnes, costretto a prendere atto dell'assedio di Herat, dell'arrivo a corte del suo diretto avversario Vitkevič incaricato di finanziare e armare Dost Mohammad per combattere i sikh, e a infrangere ogni protocollo per non perdere ogni presa sulla corte afghana. Lord Auckland non recepì alcun avvertimento, adottò misure esattamente opposte rispetto a quelle suggerite (compresa la demonizzazione di Dost Mohammad) e secondo Dalrymple "con un tratto di penna" consegnò ai russi "un territorio enorme che andava dalla Persia all'Asia Centrale all'Afghanistan". In preda a una più che tardiva resipiscenza e a fronte del trattamento di degnosa sufficienza con cui i diplomatici inglesi erano stati trattati dai persiani a Herat, Auckland si concentrò solo nel 1838 (e in mezzo allo scetticismo generale) sul rovesciamento di Dost Mohammad accampando un casus belli fondato su un completo travisamento della realtà, coinvolgendo Ranjit Singh e il sessantenne shah Shuja, consapevolissimo del fatto di essere trattato come una pedina cui nel migliore dei casi sarebbe andato un dominio dai confini alquanto ridotti. Ma "per lo shah e i suoi cortigiani, quella non era l’invasione ingiustificabile, immotivata e inutile di uno Stato sovrano da parte degli inglesi. Quello era il ritorno di un re".
La bocca dell'inferno scelta come titolo per il quarto capitolo è la riarsa gola che porta al passo del Bolan, percorso che la neocostituita Armata dell'Indo formata da truppe della Compagnia delle Indie e dei sikh intraprese per raggiungere Kandahar. Una seconda formazione guidata da Timur (figlio di shah Shuja) e soprattutto da Wade sarebbe passata da Peshawar, dal passo Khyber. L'A. descrive le difficoltà di ogni genere che la costituzione, l'organizzazione, l'addestramento e la logistica dell'Armata dovettero affrontare alla partenza e durante le marce di trasferimento prima ancora di aver incontrato un solo afghano, in una situazione in cui il ritiro di Russia e Persia dal teatro delle operazioni fece venire meno i casus belli originari accampati da Auckland. Dalrymple indica i cattivi auspici della partenza: le varie colonne comandate da Macnaghten, Nott, Burnes e Auckland per riportare shah Shuja sul trono costituivano "un esercito scontento e spaccato", che "cominciò infine a convergere in un unico luogo presso Shikarpur alla fine di febbraio 1839" e che attraversò l'Indo per intraprendere una campagna militare "in una terra ostile, arida e largamente inesplorata, con enormi difficoltà nelle comunicazioni, e circondato da ogni lato da alleati riluttanti e inaffidabili". Dalrymple afferma che alla fine di aprile si presentò sotto Kadahar un'Armata in condizioni pietose. Sorprendentemente si verificarono le prime spaccature nel fronte di Dost Mohammad; le relative defezioni consentirono in pochi giorni all'Armata di entrare a Kandahar senza combattere. Un vantaggio che le intemperanze dei vincitori bruciarono in pochi giorni; perr rispondere all'ostilità popolare accesasi dopo un caso di stupro "Lord Auckland prese la decisione fatale di mantenere le truppe britanniche in Afghanistan anche dopo il reinsediamento di shah Shuja sul trono". La morte improvvisa di Ramjit Singh e il venire meno del contributo dei sikh alla guerra condotta dai faranji, negli stessi giorni in cui l'Armata si rimetteva in marcia per Kabul senza che da Herat arrivasse alcun segno di gratitudine per il contributo della diplomazia britannica alla fine dell'assedio. Dalrymple descrive l'assedio e la presa della città fortificata di Ghazni da parte dell'Armata dell'Indo, l'aprirsi del passo Khyber dopo la malattia del figlio di Dost Mohammad e le contromosse diplomatiche sempre più disperate di quest'ultimo, costretto infine a fuggire da Kabul dal repentino venir meno della fiducia dei suoi sostenitori alla fine di luglio del 1839. Il 7 agosto shah Shuja entrò a Kabul sulle baionette inglesi, accolto dall'indifferenza generale.
In Il vessillo della guerra santa si espongono gli avvenimenti degli ultimi mesi del 1839 e del 1840. Il capitolo si apre con la morte (a quanto sembra per suicidio) di Vitkevič, con l'accenno ai piani russi per l'invasione del khanato di Khiva e con la descrizione degli aspetti più idillici della vita quotidiana del contingente britannico a Kabul. Dopo aver seguito la fuga di Dost Mohammad e del figlio Akbar Khan verso Bukhara, dove sfuggirono a un tentativo di omicidio e -perso il favore degli ospiti- vennero incarcerati, l'A. torna alle vicende della tutela britannica su shah Shuja, il cui trono venne puntellato da Macmaghten finanziando abbondantemente molti maggiorenti di varie regioni dell'Afghanistan con enormi addebiti per l'erario indiano. In questo contesto shah Shuja intraprese una politica di riconciliazione con i clan Barakzai; quanto basava perché il sostegno dei suoi Sadozai iniziasse a venire meno. Nonostante questo Lord Auckland -"al pari di altri invasori in tempi più recenti", chiosa perfidamente Dalrymple- ritirò gran parte dell'Armata dell'Indo dal paese, dirottandola a oriente in previsione di ostilità in Cina e proibì all'esercito di costruire fortificazioni difendibili, cosicché gli acquartieramenti indispensabili vennero realizzati secondo criteri e dislocazioni per lo meno discutibili. L'A. indaga per varie pagine i motivi del rapido deterioramento dei rapporti fra la popolazione di Kabul e l'armata d'occupazione, motivi per lo più ascrivibili alle disinvolte abitudini degli occupanti. Nella primavera del 1840 Macnaghten e shah Shuja iniziarono a entrare in aperto contrasto sull'organizzazione dell'esercito perché il modello imposto dagli inglesi non teneva in alcun conto la realtà locale, che prevedeva l'invio di contingenti di cavalieri da parte di capo tribù ricompensati in pari misura, ed esigeva spese inaffrontabili. Inoltre, che i britannici fossero i veri padroni del paese non era un mistero per nessuno, anche se finché l'anziano capo del personale di shah Shuja conservò la propria carica "si mantenne la cortese finzione che Sua Maestà avesse un ruolo nella gestione del regno e dell’esercito". Dalrymple descrive anche lo stile altezzoso dello shah e l'opulenza del suo corteggio, invisi agli afghani quasi quanto la presenza britannica. A completare il quadro l'A. accenna anche all'intromissione britannica nella politica fiscale del paese e nell'amministrazione della giustizia da parte dei mullah; nel luglio 1840 gli ulema iniziarono a non menzionare il nome di shah Shuja nelle preghiere del venerdì, perché i veri governanti erano i faranji. Con Wade rientrato a Ludhiana, il solitamente ottimista Bunes iniziò a inquietarsi per la precarietà della situazione. A un anno dal reinsediamento di shah Shuja Dost Mohammad riuscì a fuggire da Bukhara e a rientrare in Afghanistan con un avventuroso viaggio. Dalrymple ripercorre l'inizio delle ostilità fra Dost Mohammad, shah Shuja e i britannici cui doveva il trono. Ostilità che, spiega l'A., cessarono inaspettatamente quando Dost Mohammad si consegnò prigioniero a Kabul il 4 novembre 1840. Comportandosi in questo modo, l'amir Dost Mohammad "riconosceva che la partita per il momento era chiusa e una nuova potenza regionale si era imposta. Chiaramente sperava che gli inglesi prima o poi lo avrebbero rimesso sul trono, ovvero che la loro definitiva sconfitta gli avrebbe dato l’opportunità di ritornarvi con le sue sole forze. Si rivelerà una mossa assai astuta", e l'A. descrive il singolare incrociarsi dei destini: trent'anni dopo, sarebbe toccato a Dost Mohammad sostituire shah Shuja (che rifiutò di incontrare e con cui non collaborò) nella stessa località di esilio.
Abbiamo fallito per ignoranza. Da questa constatazione espressa nel 1841 da un ufficiale britannico a proposito della inscalfibile insipienza degli inglesi circa il paese che pretendevano di governare prende il titolo il sesto capitolo, in cui Dalrymple continua la disamina del progressivo crollo della tolleranza nei confronti dei britannici. Nel 1840 Mountstuart Elphinstone, anziano e malandato reduce dalle guerre napoleoniche completamente ignaro della realtà coloniale, venne nominato comandante in capo dell'esercito in Afghanistan affiancato da un "secondo" sgradevole e impopolare di nome John Shelton, mentre nel Punjab dopo la morte di Ramjit Singh si verificavano ammutinamenti di una frequenza e di una numerosità tale da far temere anche a Macnaghten che i contingenti britannici rischiassero di rimanere isolati. Le seimila persone dello harem e del seguito di shah Shuja che nel 1841 si trasferirono da Ludhiana a Kabul riuscirono ad attraversare il Punjab solo ricorrendo ad artifici diplomatici ai limiti dell'azzardo. L'A. descrive come in ogni zona dell'Afghanistan la situazione per i britannici fosse diventata insostenibile, tanto più che a Londra si dibatteva se disimpegnarsi dal paese o -al contrario- aumentare drasticamente la presenza sul terreno. Qualsiasi iniziativa doveva comunque vedersela con un erario al collasso. L'A. descrive la sempre minore fiducia di shah Shuja nei confronti dei sempre più ingombranti protettori europei e il loro tentativo di imporsi costringendolo -con una nutrita serie di bassezze- a licenziare mullah Shakur e a sostituirlo con l'assai più malleabile Uthman Khan. La vicenda confermò alla nobiltà ancora favorevole ai Sadozai che il potere effettivo era in mano inglese. Alla fine di agosto 1841 Macnaghten dovette inaugurare una politica di austerità, e scelse di farlo concentrando i tagli sulle periferie. I clan Ghilzai e Khyber seppero nel modo più sgradevole e inatteso possibile da Uthman Khan che i sussidi loro spettanti ssarebbero stati ridotti -scrive Dalrymple- nonostante il loro impegno a protezione dei traffici e delle vie commerciali fosse antico, efficace e comprovato. Nell'autunno del 1841 a Kabul si fabbricavano armi per l'imminente rivolta, e una brigata in partenza verso l'India per ordine di Macnaghten iniziò a essere vittima di agguati, imboscate e assalti veri e propri da parte dei Ghilzai a poche decine di chilometri dalla capitale; gli attacchi cessarono solo quando i Ghilzai videro riconosciute le loro richieste. Appena arroccatisi in una precarissima calma a Jalalabad, gli inglesi vi finirono assediati. Secondo Dalrymple Macnaghten -consapevole di essere destinato a una rapida sostituzione- si comportò in tutto e per tutto in modo da andarsene dando l'impressione di un lavoro ben fatto; "sarebbe stato facile incolpare il suo successore per quanto fosse accaduto in seguito". Il successore sarebbe stato verosimilmente Burnes, che Macnaghten stesso aveva con cura e per molti mesi tenuto lontano dalle stanze del potere. Se Vitkevic si era ucciso "in un accesso di depressione e disgusto" a fronte della propria assodata marginalizzazione, commenta l'A., Burnes reagì buttandosi "a capofitto nei piaceri dei sensi". Un episodio legato al suo comportamento fece da detonatore, e scatenò l'insurrezione a Kabul descritta nel successivo La fine di ogni ordine.
Il 2 novembre 1841 Kabul insorse. L'inerzia di uno Elphinstone inebetito dalle sofferenze fece sì che le truppe britanniche rimanessero con l'arma al piede mentre gli insorti assalivano la residenza di Alexander Burnes e solo il bistrattato shah Shuja esortava Macnaghten a ordinare ai cinquemila uomini disponibili di stroncare la rivolta. Burnes fu ucciso dopo poche ore; l'A. -come in altri casi nel corso del volume- riporta varie versioni sull'accaduto non tutte concordanti, e nota come gli insorti di Kabul passarono da circa trecento a cinquantamila nel giro di tre settimane. Descrive poi nel dettaglio come all'aumentare del numero dei partecipanti aumentò anche la coesione dell'insurrezione, che si avvalse delle più che discutibili scelte logistiche dei britannici per costringerli a ripararsi negli acquartieramenti, poco difendibili e lontani dai forti usati come magazzini per foraggi e derrate. L'inerzia minimizzatrice e l'atteggiamento di sprezzante sufficienza tenuto da Macnaghten sono ripetutamente evidenziati nel testo, al pari dell'atteggiamento rinunciatario di Elphinstone su accennato. A Charikar negli stessi giorni il presidio britannico veniva costretto ad arrendersi per sete, il passo Khyber occupato dagli insorti, Ghazni assediata. Solo il generale Nott a Kandahar riusciva a tenere le posizioni. Per il 9 novembre a Kabul Macnaghten aveva concentrato negli acquartieramenti tutti gli uomini disponibili, lasciando shah Shuja con una guardia a ranghi ridotti a presidiare l'unica fortezza ben difesa e ben rifornita della città. Dalrymple illustra come i britannici dipendessero per la sopravvivenza dalle sempre più scarse merci contrattate con circospezione da un villaggio vicino, fino a quando una decina di giorni dopo gli insorti tagliarono ogni comunicazione. L'A. nota come una battaglia campale tentata da Shelton secondo una tattica che si era rivelata vincente a Waterloo a Kabul si risolse in un disastro senza che il generale riuscisse neppure a rendersi conto del perché; solo per una sorta di inspiegabile colpo di fortuna i superstiti di un "quadrato" che avrebbe dovuto tenere testa alla cavalleria afghana riuscirono a rifugiarsi negli acquartieramenti dopo aver perso centinaia di uomini. A togliere agli inglesi ogni residua velleità, si nota, fu il ritorno a Kabul del figlio di Dost Mohammad Akbar Khan, evaso da Bukhara e seguito da migliaia di combattenti Ghilzai che diventarono il più forte contingente fra gli insorti. Messo nell'impossibilità di fare altro dall'inedia, Macnaghten accettò di parlamentare. Akbar Khan propose la presa di un ostaggio di riguardo, che sarebbe stato rilasciato all'abbandono del paese da parte dei britannici e al ritorno dalla prigionia di Dost Mohammad. L'11 dicembre Macnaghten concluse con gli insorti un accordo in questi termini, e scrisse ad Auckland -consapevole che la sua intera politica afghana era stata una sequenza di errori che rischiava di mandare in bancarotta il governo dell'India- convinto anche di esserne uscito con onore. Della sorte di shah Shuja, ricorda Dalrymple, nessuno parve interessarsi; l'anziano shah e i suoi seppero invece difendersi e tennero la loro fortezza fino al disgelo. Macnaghten tentò un doppiogioco che non era assolutamente in grado di condurre per cercare di spezzare il fronte degli insorti e di comprarne alcune fazioni; puntualmente informato, Akbar Khan lo attirò in una località isolata per un colloquio e lo uccise personalmente lasciando poi che fosse fatto scempio del suo cadavere.
Il lamento delle trombe che intitola l'ottavo capitolo è quello con cui la guarnigione di Jalalabad -ancora presidiata dai britannici al pari di Ghazni e di Kandahar- nella notte del 13 gennaio 1842 cercò di guidare verso la città i sopravvissuti alla marcia di evacuazione da Kabul iniziata la settimana prima. Dalrymple descrive una anabasi senza speranza in cui il contingente britannico, con aiutanti di campo, donne e bambini, si mise in marcia per lasciare il paese e finì azzerato dalle imboscate, dall'inedia e dal gelo. Il comportamento di Macnaghten non fu perdonato da Akbar Khan, che fece sì che i suoi Ghilzai sterminassero poco per volta una colonna praticamente priva di difese che Elphinstone aveva voluto mettere in marcia ad ogni costo ignorando l'insistenza con cui shah Shuja gli raccomandava il contrario. A Jalalabad giunse vivo un solo uomo, raggiunto da pochi sopravvissuti. Successivamente risultarono ancora in vita duemila soldati indù rientrati a Kabul alle prime avvisaglie di quanto si preparava, trentacinque ufficiali e cinquantuno soldati. Dodici donne e ventidue bambini erano stati consegnati ad Akbar Khan: per i faranji era stata un'ulteriore umiliazione. "Fu una sconfitta senza precedenti per gli inglesi, e una vittoria quasi miracolosa per la resistenza afghana. In un’epoca in cui l’Impero britannico, al culmine della sua potenza, controllava una quota dell’economia mondiale maggiore di quanto avrebbe mai fatto in seguito, e in una fase storica in cui le forze tradizionali venivano schiacciate ovunque dagli eserciti imperialisti dei paesi industrializzati, quello fu un raro caso di totale umiliazione di una potenza coloniale".
Dalrymple sottolinea come la notizia della disfatta giunse prima ai cambiavalute e ai mercanti di Delhi che non a Lord Auckland, che fu informato a oltre due settimane dagli eventi mentre Akbar si apprestava ad attaccare Jalalabad, Ghazni e Kandahar per estromettere del tutto i britannici dall'Afghanistan. "Mentre il grosso dell’esercito dell’India britannica era ancora impegnato in Cina per combattere la Guerra dell’oppio voluta da Auckland, in tutta l’India si sparse la voce che gli afghani si sarebbero presto riversati giù dal Khyber per mettere a sacco le pianure dell’Hindustan, come avevano fatto tante altre volte in passato". L'avvicendamento tra Auckland e Lord Ellenborough, inviato dal nuovo governo tory a sostituirlo, avvenne senza alcuna delicatezza diplomatica il 28 febbraio 1842, giorno in cui giunse a Calcutta anche la notizia della sanguinosa caduta di Ghazni. L'A. torna ad occuparsi di shah Shuja, che dalla cacciata degli inglesi aveva tratto molti vantaggi soprattutto in termini di popolarità personale. Shah Shuja decise di puntare sull’invidia che i due capi originari della ribellione Aminullah Khan Logari e Nawab Zaman Khan Barakza provavano nei confronti di Akbar Khan e riuscì a imbastire un'alleanza dall'apparenza solida, pur continuando a esortare la guarnigione di Jalalabad a intervenire a Kabul. Nonostante fosse in preparazione una Armata Vendicatrice dietro istruzioni del nuovo governo di Londra, gli inglesi prendevano tempo: Akbar Khan aveva preso molti prigionieri di riguardo, compreso il generale Elphinstone e la vedova di Macnaghten. Dalrymple considera anche il terremoto che danneggiò gravemente una Jalalabad sotto assedio il 19 febbraio 1842 ed espone le vicende degli affannosi restauri che consentirono agli inglesi di rendere nuovamente efficienti i bastioni e le mura cittadine in meno di una settimana, intanto che l'assediante Akbar Khan inviava "un fiume di messaggi diplomatici" alla nobiltà afghana usando il linguaggio del jihad per allontanarla definitivamente da shah Shuja. Questa iniziativa mise shah Shuja in grande difficoltà. Costretto a rinnegare in pubblico i suoi protettori inglesi, in privato agiva in modo opposto chiedendo continuamente aiuto al comandante di Jalalabad. La cosa, spiega Dalrymple, non sfuggì ai notabili di Kabul, contribuì a consolidare la pessima fama di cui lo shah soffre anche nell'Afghanistan di oggi e lo costrinse, a mo' di smentita, a dirigersi verso Jalalabad proprio mentre un'armata sotto il comando di George Pollock era anch'essa in marcia alla volta della città. L'A. racconta di come il 4 aprile 1842 shah Shuja in partenza per Jalalabad avesse pubblicamente reso onore al solo Aminullah Khan, cosa che era stata interpretata come un’offesa intenzionale dal suo altro grande alleato Nawab Zaman Khan Barakzai, e di come shah Shuja morì infine in un'imboscata tesagli dal giovane figlio di quest'ultimo. "Al momento cruciale dello scoppio della rivolta, nel novembre 1841, Shuja fu l’unica persona in tutta Kabul a mettere in campo un’efficace risposta militare, e l’unica che cercò di salvare Burnes, benché quest’ultimo avesse sempre fatto di tutto per umiliarlo", specifica Dalrymple, aggiungendo che "il regno di Shuja non cadde per colpa sua, ma per la catastrofica gestione dell’invasione e dell’occupazione afghana da parte di Auckland e Macnaghten, e per la sconfitta del generale Elphinstone".
Contrariamente alle attese, scrive Dalrymple all'inizio del decimo capitolo su Una guerra sconsiderata, favorita dal terreno l'Armata Vendicatrice di Pollock ebbe ragione di Akbar Khan sotto le mura di Jalalabad ed entrare nella città. Da qui Pollock avviò una spietata campagna repressiva, mentre Ellenborough scriveva anche a Kandahar che le operazioni dovevano ritenersi concluse e che gli ultimi presidi rimasti dovevano essere abbandonati insieme al resto dell'Afghanistan. L'A. non dimentica le vicende degli ostaggi e dei prigionieri ancora detenuti da Akbar Khan, compreso il generale Elphinstone infine morto durante una marcia di trasferimento e sepolto a Jalalabad per concessione di Akbar Khan il 30 aprile 1842; in agosto a Bamyan il gruppo riuscì a corrompere i comandanti dei propri carcerieri e ad asserragliarsi a Bamiyan in attesa degli eventi. Intanto Kabul era tornata teatro degli ennesimi scontri per tutto il mese di aprile, fino a quando l'arrivo di Akbar Khan non mise in serissime difficoltà le fazioni vicine ai Sadozai. In capo a un paio di mesi, scrive Dalrymple, Akbar Khan riuscì a imporsi in città... fino a quando Pollock e Nott (da Kandahar) non ricevettero l'ordione di ritirarsi. Passando da Kabul. Contando in complesso su quattordicimila uomini, i due generali distrussero città e villaggi lasciando ampia licenza di saccheggio; il 15 settembre entrarono in una Kabul quasi deserta, dove una settimana dopo li raggiunsero gli ormai ex prigionieri. Prima di procedere alla distruzione metodica della città, Pollock scatenò l'Armata Vendicatrice sulla località di Istalif. Tutta la campagna militare fu occasione per efferatezze di ogni genere, spesso perpetrate anche a spese di alleati effettivi o potenziali come i mercanti persiani della capitale. Alla loro partenza a metà ottobre, gli inglesi furono seguiti da centinaia di persone cui avevano tolto ogni possibilità di sostentamento. A Kabul restava un governo Sadozai guidato da un figlio di shah Shuja la cui durata non era neppure oggetto di discussione, intanto che Ellenborough proclamava che come governatore generale avrebbe lasciato che fossero "gli afghani stessi a fare emergere un governo dall’anarchia che i loro crimini hanno generato". Dalrymple spiega come nello stesso momento Dost Mohammad venisse rilasciato dalla prigionia dorata in cui era rimasto fino a quel momento. Mentre i reparti britannici rientravano in India poco prima di Natale, Dost Mohammad rientrò in un Afghanistan ridotto all'ombra di se stesso, in cui l'unico beneficio rimasto dagli anni della presenza inglese era un embrione di amministrazione statale. Per trovarsi allo status quo, gli inglesi avevano speso quindici milioni di sterline, portato al collasso la finanza e l'economia della loro maggiore colonia e perso quasi quarantamila uomini. Nelle ultime pagine del capitolo Dalrymple riepiloga il destino dei protagonisti. Nessuno o quasi vide la propria esistenza migliorare sotto un qualunque aspetto: il destino di molti si compì rapido a causa delle sofferenze, delle malattie, dell'alcolismo e dell'indigenza in cui vennero a trovarsi. La morte di Shelton fu accolta con aperte manifestazioni di contentezza da quanti erano stati sotto il suo comando. Akbar Khan morì nel 1847, assai probabilmente fatto avvelenare dal padre Dost Mohammad. Dost Mohammad rispettò da parte sua gli accordi con gli inglesi e portò l'Afghanistan alle frontiere attuali; i suoi discendenti avrebbero regnato fino agli anni Settanta del XX secolo.
Alla fine, conclude Dalrymple, le ostilità con la Russia esplosero davvero. Nonostante una visita diplomatica dello zar avvenuta nel 1844, "da quel giorno una lunga serie di incidenti diplomatici, gaffe e fraintendimenti condurrà inesorabilmente Russia e Inghilterra a scontrarsi in Crimea nove anni dopo, nel 1853. In quell’occasione, la rivalità anglo-russa costerà la vita a ottocentomila persone".
Durante una serie di soggiorni in Afghanistan nel 2009 e nel 2010 Dalrymple ebbe modo di constatare che il controllo del paese da parte degli invasori occidentali andava visibilmente riducendosi: la "miscela di corruzione, incompetenza e indifferenza" del governo Karzai aveva già "contribuito a rendere possibile il ritorno dei talebani, un tempo odiati da tutti".
Nella nota conclusiva, prima di elencare le principali fonti utilizzate, Dalrymple riassume le vicende della sua permanenza in Afghanistan e constata il ripetersi della storia secondo parallelismi sostanziali: come nel 1839, l'Afghanistan era stato aggredito e occupato in una guerra inutile e costosissima scatenata sulla base di informazioni falsificate e a seguito di minacce inesistenti, e dunque assolutamente evitabile. Identico il deteriorarsi dei rapporti fra invasori e alleati locali, identici gli esiti disastrosi. Al momento in cui Dalrymple scriveva la sconfitta, la ritirata ignominiosa e il ritorno dello stesso governo che l'aggressione occidentale aveva voluto abbattere erano solo questione di tempo.


William Dalrymple - Il ritorno di un re. La battaglia per l'Afghanistan. Adelphi, Milano 2015. 664 pp.