Il volume di Peter Heather presenta un'analisi di ampio respiro sull'organizzazione dell'impero romano e sulle cause cui può essere imputata la caduta dell'impero d'Occidente. Il testo ha carattere divulgativo ma fa puntuale riferimento a fonti coeve degli avvenimenti -spesso criticate con un certo puntiglio nei loro tratti propagandistici- presenta un indice analitico esauriente, una rassegna biografica dei personaggi citati e un apparato iconografico di una certa ampiezza che fanno sorvolare su un registro linguistico su cui uno specialista troverebbe senz'altro da eccepire e su una traduzione spesso propensa ad assecondarlo.
Nelle pagine introduttive Heather constata che il tema della fine dell'impero romano d'Occidente è stato oggetto di circa duecento studi dopo i sei volumi di Edward Gibbon pubblicati alla fine del 1700, senza che tra gli studiosi si trovasse un qualche accordo neppure sulle linee generali del problema. Molti storici hanno sempre ritenuto che Roma non possa essere crollata per l’azione di popoli ritratti come "contadini con un debole con le spille decorative", il cui livello culturale, politico, economico, sociale, artistico "non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello, spesso sorprendentemente avanzato, raggiunto dal mondo romano". Dopo il 1960 la storiografia ha approfondito la conoscenza del periodo compreso fra il 300 e il 600 a. C. e ha diffuso la conoscenza di una realtà che non era affatto sull'orlo del collasso e cui tantomeno corrispondevano antagonisti come quelli appena descritti. Il pensiero più recente "si è giustamente scrollato di dosso" questa prospettiva e ha preferito concentrarsi sugli esempi di cooperazione e interazione non violenta tra barbari e romani di cui le fonti abbondano. Gli storici hanno iniziato a "trattare i testimoni antichi non come fonti obiettive ma alla stessa stregua di un venditore di automobili usate, prendendo cioè le loro affermazioni con la giusta cautela"; conseguenza ne è stata la frammentazione dei risultati e la proliferazione di ricerche dettagliate su temi specifici. Heather si dice intenzionato a rifarsi a questo genere di produzione storiografica per provare a trarre conclusioni sul tema generale del crollo dell'impero, mantenendo un orientamento che consenta di superare i limiti delle (numerosissime) fonti disponibili smentendo per quanto possibile quanti ritengono che non sia possibile attingere agli eventi reali spingendosi oltre la rappresentazione che gli autori si creavano della realtà.
La prima parte del saggio su la pax romana descrive le condizioni d'insieme dell'impero e dei suoi vicini europei alla fine del IV secolo.
In i romani l'A. inizia dalla sconfitta di Tongres nel 54 a.C. per compiere un lungo e discorsivo excursus sui motivi (addestramento, tenuta dei reparti, armamento, competenze) che per quattro secoli avevano reso temibili le formazioni militari imperiali anche agli occhi di nemici molto più numerosi. In particolare, le capacità costruttive delle legioni "potevano trasformare immediatamente una vittoria militare nel controllo definitivo di un territorio", cosa che le rendeva l'arma strategica più adatta per la costruzione di un impero. Alla macchina militare si univano le iniziative diplomatiche e il parcere subiectis, cui si ricorreva in pochi casi selezionati laddove la norma era una deliberata e spietata brutalità: l'epilogo di Tongres in cui Giulio Cesare fece metodicamente devastare i territori delle popolazioni che avevano tradito i suoi uomini ne fu un caso tipico. Una politica del bastone e della carota "non particolarmente geniale", constata l'A. che ricorre spesso allo understatement, ma in grado in quel contesto di arrivare alla creazione di un impero di particolare longevità. I quattrocentocinquanta anni in cui l'impero romano dominò senza gravi soluzioni di continuità il territorio definito da Reno e Danubio furono fitti di mutamenti che gli storici hanno di volta in volta additato come responsabili della sua fine, identificandone la causa determinante ora nella cristianizzazione, ora nei fattori economici. Secondo Heather il punto di vista per cui le trasformazioni interne del IV secolo indebolirono l'impero al punto di farlo crollare sotto il suo stesso peso non è sostenibile, e l'inizio della fine va identificato esaminando il funzionamento del tardo impero e i mutamenti che ne erano stati responsabili. Heather esamina innanzitutto la situazione della capitale a cominciare dalla composizione del senato, la pars melior humani generis in cui si concentrava ancora all'epoca una élite di possidenti cui l'opera epistolare di Quinto Aurelio Simmaco attribuisce virtù di integrità, rettitudine, onestà e purezza di maniere attribuite a un iter formativo in cui gli esempi del passato facevano da guida valoriale e il loro studio forniva competenze retoriche che nell'ambiente dell'epoca consentivano di primeggiare. Rispetto a quattro secoli prima anche le prerogative e il ruolo dello imperator erano cambiati profondamente; lo imperator del IV secolo viene ritratto nelle sue caratteristiche di monarca autocratico divinizzato, che nell'attività legislativa aveva soppiantato i giureconsulti e in quella esecutiva faceva parte dapprima della tetrarchia istituita da Diocleziano e poi di altri assetti di condivisione del potere. L'A. sottolinea come Roma, pur capitale simbolica e destinataria di risorse sproporzionate sottoforma di misure per la sussistenza dei suoi abitanti, all'epoca non fosse più un centro politico o amministrativo rilevante; i nuovi centri di potere -Treviri, Sirmio, Antiochia- erano vicini alle frontiere che erano l'asse strategico dell'impero, ed era la stessa corte imperiale -non le istituzioni come tali- ad emanare tutto cià cui i romani potessero aspirare, dalle cariche pubbliche alla ricchezza. Col senato ridotto a -per quanto prestigioso- organo consultivo, demilitarizzato e poi addirittura sdoppiato con una nuova sede a Costantinopoli, il destino politico dell'impero era concretamente in mano ai comitatenses, comandanti militari delle truppe di frontiera, e ai burocrati di alto livello che vivevano nelle capitali delle stesse province. Un solo imperatore non poteva controllare efficacemente le tre frontiere principali, ufficiali e burocrati non potevano essere tenuti a bada da una sola fons honorum e il numero crescente degli insigniti di titoli andò a erodere la posizione di prestigio della classe senatoriale vera e propria. Prendendo come riferimento Treviri Heather descrive come all'ampliarsi della comunità politica avesse proceduto di pari passo una romanizzazione profonda dell'urbanistica, della cultura e degli stili di vita. Un mutamento innescato dal fatto che i popoli conquistati erano rimasti affascinati dallo ethos romano e avevano scelto di farlo proprio. Secondo Heather il processo che aveva portato alla diffusione, all'adozione e all'interiorizzazione di uno stile di vita che aveva trasformato ovunque gli abitanti delle province in romani veri e propri -al punto che gli abitanti di Treviri non apprezzavano affatto chi li considerava dei provinciali- impiegò poche decine di anni per compiersi e "non poteva certo scomparire da un giorno all'altro con la partenza di una manciata di legionari" anche quando Roma stessa cominciò a trovarsi in pericolo. In conclusione, nel IV secolo l'identità culturale romana era potenzialmente accessibile a tutti e una volta acquisitala era normale rivendicare il diritto di partecipare alla vita politica dell'impero e condividerne in qualche misura il potere e i benefici. La pars melior era adesso formata da tutti coloro che avevano assunto la stessa identità, con buona pace dei Simmaco e del loro senato di Roma.
I barbari si apre col riferimento a un'altra e molto più grave sconfitta, quella di Teuroburgo nel 9 d.C., su cui il nazionalismo tedesco costruì nel XIX secolo le proprie fortunate tesi. Le fonti e le prove archeologiche disponibili oggi indicano però che il confine sul Reno e sul Danubio non fu più superato per motivi che non hanno nulla a che fare con il preteso nazionalismo tedesco e che nel IV secolo era la Persia a costituire la minaccia più grave. Heather sottolinea che le fonti sulle popolazioni germaniche a ridosso delle frontiere sono romane e poco oggettive e che l'unica alternativa alle congetture più o meno attendibili è data dal ricorso a fonti più tarde. Anche l'archeologia ha risentito a lungo del contesto nazionalista in cui si sviluppò e solo negli ultimi decenni ha contribuito a restituire un quadro molto meno monolitico dei territori al di là dei confini dell'impero. Una realtà estesa dal Reno alla Crimea priva di qualsiasi unità politica e frammentata in oltre una cinquantina di realtà tribali, che soprattutto nelle regioni più lontane dal Baltico è fondato indicare come "Europa a dominazione germanica" più che come Germania. Secondo Heather la frontiera si fermò sul Reno per motivi logistici e finanziari: seguendo il Rodano e la Mosella potevano arrivare alle legioni derrate e merci dal Mediterraneo, mentre non avrebbe avuto senso spingersi oltre nella conquista di regioni poco sviluppate il cui gettito non sarebbe stato sufficiente nemmeno a mantenere le truppe di presidio. L'avanzata romana si sarebbe incagliata non tanto su una frattura etnica, quanto in corrispondenza di un'importante faglia nell'organizzazione socioeconomica del continente. L'Europa della cultura di La Tène (celtica ma non solo) era più avanzata economicamente e socialmente e fu inglobata in poche generazioni. Quella della cultura di Jastorf (germanica ma non solo) rimase esclusa per i motivi su accennati. "Non fu la potenza militare dei germani a tenere a bada l'impero; fu la loro miseria", conclude malignamente Heather prima di illustrare come nel IV secolo la Persia costituisse una minaccia ben più seria. Sul fronte orientale nel III secolo i romani avevano subito tre gravi rovesci per mano della dinastia sasanide, molto più temibile di quella arsacide che l'aveva preceduta e molto più competente nello sviluppo delle risorse della Mesopotamia e dell'altopiano iranico. Heather illustra i mutamenti imposti dalla situazione all'organizzazione militare romana; gli effettivi arrivati ad almeno quattrocentomila unità, la ripartizione in limitanei e in comitatenses con l'abbandono dell'organizzazione per legioni e la ripartizione in unità più piccole, l'aumento esponenziale della tassazione (con la confisca dei redditi locali, poi con la svalutazione del denarius d'argento e infine con l'imposizione di balzelli in natura e poi con la tassazione della produzione economica) per provvedere al mantenimento di tutto l'apparato sono misure che fanno pensare che gli schemi materiali dell'impero, già nel III secolo, dovessero essere stati trasformati in modo radicale per far fronte alla minaccia persiana. Con risultati evidenti anche sul campo con il sostanziale stabilizzarsi della frontiera. Heather nota la coincidenza fra il periodo della "anarchia militare" e l'aggressività sasanide: quando un imperatore doveva concentrarsi sui problemi della frontiera orientale, altrove spuntavano comandanti e burocrati scontenti: alla cattura di Valeriano i funzionari e i comandanti di stanza sul Reno organizzarono una propria entità politica guidata da generali che resse la Gallia per circa trent'anni senza per questo essere separatista. E senza che l'ideologia imperiale centrata sulla supremazia di Roma ne venisse intaccata: il ricorso a ogni bassezza è giustificato dalle fonti contemporanee se il fine ultimo era quello di liberarsi da antagonisti sgraditi, e ogni efferatezza commessa contro ostaggi e prigionieri nelle arene godeva del favore del pubblico. L'A. illustra come i barbari sciti, sarmati e germani fossero ritratti come dediti all'alcol, al sesso e alle ricchezze senza alcun freno dato dalla razionalità, e dunque presentati e percepiti come antitetici ai buoni romani con la conseguenza che contro di essi tutto diventava lecito. La élite richiamava frequentemente la minacciosa presenza dei barbari ai confini sicura di tacitare in questo modo molte obiezioni ai sempre più aspri prelievi fiscali. Una strategia che di contro faceva percepire ogni straniero come una minaccia da affrontare con la forza, in un conflitto da cui l'impero doveva uscire sempre vincitore data la sua superiorità etica sancita dal favore divino. Heather mostra come le fonti romane compissero prodigi di negazione dell'evidenza per ammantare da vittorie sconfitte umilianti come quella subìta per mano sasanide nel 363 -che costò la vita allo stesso imperatore- o esiti per lo meno dubbi come quelli della campagna di Valente contro i goti di sei anni dopo, conclusa in fretta e furia perché gli stessi sasanidi stavano imperversando nel Caucaso. In questo secondo caso a contraddire il cliché del barbaro incivile da evitare per quanto possibile ci sono i documentati rapporti commerciali dei romani con i goti e il loro essersi prestati come mercenari in varie occasioni fin dai tempi di Costantino. Non un corpo estraneo, ma dei vassalli veri e propri che con Roma avevano rapporti altalenanti in un contesto che non era affatto quello del conflitto irredimibile. La biografia di Ulfila, traduttore della bibbia in gotico nato fra i goti da ostaggi anatolici, viene portata dall'A. come esempio contrario ad ogni propaganda. Nella stessa ottica Heather considera gli avvenimenti bellici del IV secolo sulle frontiere del Reno e del Danubio: le fonti presentavano sempre i trattati come rese senza condizioni, ma all'atto pratico gli esiti erano molto variabili. Dove il controllo romano vacillava ooccorreva concedere qualcosa in cambio della forza lavoro, dei materiali grezzi e delle reclute ottenuti per trattato: in ogni caso a ridosso dei confini fortificati dell'impero si era creata una fascia di regni vassalli che erano parte integrante del mondo romano senza che questo comportasse effettiva sottomissione. Un nuovo ordine nei rapporti diplomatici che nasceva da una serie di trasformazioni profonde all'interno della società di confine. L'emigrazione di gruppi germanici, l'affermarsi di confederazioni più stabili, il perfezionamento delle tecniche agricole e un corrispondente aumento della popolazione, il miglioramento della metallurgia e dell'artigianato che consentirono di produrre localmente quello che prima veniva importato dai territori romani sono tra gli elementi che rendono secondo Heather il mondo oltreconfine del IV secolo molto diverso da quello di quattrocento anni prima. Contemporaneamente sarebbe andata consolidandosi una élite anche politica -cui appartenevano piccoli sovrani e capi di confederazioni di cui i romani tendevano a non tollerare l'esistenza- i cui ranghi provenivano dalla classe degli uomini liberi e non da un'aristocrazia semifeudale. Le fonti non attestano l'esistenza di una classe di burocrati alfabetizzati come quella che si occupava dei prelievi fiscali a Roma, ma regolari prelievi sulle produzioni agricole locali dovevano assicurare il mantenimento di re, nobili e del loro più o meno numeroso seguito armato. La funzione legislativa doveva procedere per decisioni consensuali prese in un'assemblea di personaggi eminenti.
Ne I limiti dell'impero Heather contesta innanzitutto l'idea che lo stato tardoantico fosse minato irreparabilmente dal nepotismo, dalle raccomandazioni e dalla corruzione: a suo dire, tutti fenomeni attestati che non avevano impedito l'ascesa e l'affermarsi dell'impero e che neppure ne avevano provocato il crollo. L'A. illustra con numerosi esempi come l'impero non possedesse l'apparato burocratico che sarebbe servito a gestire agende sociali vaste e complesse e come le decisioni dei suoi vertici venissero prese sulla base di poche informazioni non necessariamente oggettive (tutt'altro) giunte dopo lunghissimi e disagevoli percorsi. L'apparato si occupava quasi esclusivamente dell'efficienza dell'esercito e di ripartire i proventi raccolti da esazioni organizzate localmente. In sostanza in ogni altro campo le singole comunità potevano organizzarsi autonomamente e autogovernarsi, dato che una città "romana" nasceva quando una comunuità locale adottava le leggi municipali concepite nella capitale. Questa condizione spiegherebbe secondo Heather buona parte della storia interna dell'impero: individui e comunità ricorrevano all'autorità dell'imperatore per dare più peso ai propri obiettivi, e per farlo passavano per una serie di personalità in grado di fornire raccomandazioni. I rescripta che l'imperatore inviava in risposta non sempre venivano usati in modo corrispondente alle intenzioni del sovrano e gli abusi erano frequenti. Secondo un'opinione diffusa le ristrutturazioni imposte dalla minaccia sasanide in un contesto simile finirono nel tradursi alla lunga nel prosciugamento della forza economica, politica e militare dell'impero. Heather sostiene che questo punto di vista sottovaluti la vitalità del mondo romano dell'epoca. In particolare la rapacità del fisco avrebbe rovinato i proprietari terrieri di provincia allontanandoli anche dalla vita pubblica locale, e avrebbe portato all'abbandono di molti appezzamenti. Questa tesi è stata smentita da prove archeologiche che hanno attestato prosperità diffusa proprio nei periodi in cui si postulava che il fisco fosse stato maggiormente vessatorio; ancora a livelli di sussistenza e con pochi margini per la vendita dei prodotti, l'agricoltura antica poteva produrre quanto richiesto dal fisco richiedendo sforzi comunque relativi. Secondo l'A. invece il graduale passaggio del potere locale dalle mani dei cittadini a quello degli honorati imperiali mise fine alla partecipazione dei possidenti alla realizzazione di edifici pubblici monumentali da parte di un notabilato che viveva di rendita come ne era sempre vissuto; la burocrazia del tardo impero era formata dalla classe sociale che da sempre aveva avuto accesso al potere e non presentava in questo novità significative. Nell'esercito i non romani avevano sempre avuto accesso ai corpi ausiliari (che ammontavano alla metà degli effettivi); nel IV secolo essi ebbero accesso a tutte le unità e dalle fonti non risulta che i livelli di disciplina o l'affidabilità ne avessero risentito. Nonostante tutto questo, chiude Heather, è plausibile che le spese straordinarie richiese dalla conduzione dell'impero nel IV secolo avessero fatto scemare la fedeltà della popolazione provinciale, la stessa che ai valori imperiali aveva aderito con entusiasmo secoli prima. I motivi degli ingenti prelievi fiscali erano spesso veicolati dalla comunicazione politica: il fisco manteneva l'esercito, l'esercito difendeva il mondo romano dalle minacce esterne. Il più delle volte l'erario poteva lavorare senza provocare strappi nel tessuto sociale, fermo restando il diluvio di richieste di esenzione cui doveva in ogni caso rapportarsi. Heather considera anche il ruolo del cristianesimo, che comportò una rivoluzione culturale perché i suoi valori stridevano spesso con la tradizionale convinzione per cui la civiltà era accessibile solo a chi era abbastanza ricco da poter studiare privatamente per anni e da partecipare attivamente alla vita pubblica. Le istituzioni cristiane ricevettero donazioni cospicue, ma lo stesso era stato per quelle che le avevano precedute. Né il fisco soffrì diminuzioni del gettito, né l'esercito un'emorragia di reclute dirette invece nei chiostri, né i ricchi che si diedero a una vità di carità furono tanti da assottigliare i ranghi di quanti partecipavano alla vita pubblica ai gradini più alti della burocrazia imperiale. L'obbligo della conversione introdotto alla fine del IV secolo produsse centinaia di conversioni per via amministrativa e pochissime crisi spirituali, anche perché la conciliazione ideologica tra impero e cristianesimo fu rapidissima e senza troppe scosse. La tesi per cui l'impero era strumento di disegni divini e aveva la missione di realizzarli rimase valida. La chiesa -con la relativa gerarchia- divenne parte dello stato e la carriera ecclesiastica il nuovo modo per affermarsi. Il reciproco (e conflittuale) adattamento fra chiesa e impero diede maggior forza agli assunti ideologici dell'imperatore e dello stato: i dissidi interni al cristianesimo non danneggiarono seriamente il funzionamento dell'impero e la diffusione del cristianesimo fu soggetta alle stesse dinamiche locali di ogni altro fenomeno sociale. Solo alla fine del IV secolo, dopo tre generazioni di attiva promozione da parte di un potere centrale ancora tanto forte da imporre direttive ideologiche gli imperatori vararono misure di cristianizzazione più incisive. In genere lo stato non poteva costringere le élite locali ad accettare la sua ideologia, ma poteva premiare chi vi si adeguava. In sostanza, nota Heather, nei IV secolo il fisco funzionava, le élite partecipavano alla vita pubblica, la nuova religione era stata assorbita con una certa efficienza nelle strutture e nell'ideologia imperiali. Nulla che facesse presagire alcun disastro. L'A. nota invece i limiti intrinseci all'organizzazione del potere: l'armonia fra i due imperatori era possibile solo se uno dei due non temeva sfide dall'altro, cosa che implicava una disuguale ripartizione delle risorse e che soprattutto non reggeva al passare delle generazioni e al cambiare dell'agenda politica: i conflitti come prezzo da pagare per il successo con cui l'impero integrava le élite di un'area vastissima. Heather paragona il sistema romano ai sistemi a partito unico "in cui la fedeltà al sistema è inculcata nei bambini fin dalla più tenera età e si rinforza poi attraverso regolari occasioni di celebrazione pubblica", in cui vigeva l'ideologia unitaria della perfezione che tollerava solo dissensi individuali che rimanessero tali e in cui la politica attiva era per le minoranze possidenti e in grado di conformarsi tramite lo studio, all'incirca il cinque per cento della popolazione. Almeno i quattro quinti degli abitanti, secondo l'A., nei confronti della politica erano indifferenti quando non insofferenti dato che la identificavano con la tassazione; un altro limite del sistema era quindi dato dalla sostanziale esclusione dai benefici del sistema della stragrande maggioranza della popolazione. I sistemi di registrazione della proprietà erano precisi e la legge penale difendeva sempre e comunque i proprietari -definiti da Heather come una classe di "latifondisti sfaccendati e colti"- a scapito di tutti gli altri. In pratica ancora nel IV secolo la élite romana faceva parte di un sistema costi-benefici collaudato e avrebbe cercato un altro protettore solo se e quando l'impero non fosse più stato in grado di garantire la sua protezione.
La seconda parte del libro, la crisi, e incentrata sugli elementi nuovi che dalla fine del IV secolo misero a dura prova il sistema imperiale.
In guerra sul Danubio Heather nota che l'arrivo di popolazioni gotiche sul Danubio nell’estate del 376 risultò poi solo la prima avvisaglia di una catena di eventi che sarebbero culminati nell'ascesa degli unni e, dopo un secolo esatto, nella fine dell'impero d'Occidente. Inserisce quindi una trattazione sull'origine e sulla cultura degli unni, sulla loro presenza nelle fonti cinesi e sul loro improvviso comparire nelle fonti romane trecento anni dopo. I dati disponibili su fenomeni più tardi, asserisce l'A., fanno pensare che gli unni si siano diretti verso Occidente per sottrarsi all'influenza di aggregati di nomadi più potenti e che la loro comparsa nella zona della foce del Volga e la sottomissione degli alani abbiano spinto verso sud ovest popolazioni gotiche decise ad abbandonare territori diventati poco sicuri prima di arrivare a uno scontro diretto. L'A. attribuisce le vittorie unne alla cavalleria leggera -dotata di un particolare tipo di arco non solo composito, ma asimmetrico e ampio più di un metro- e afferma che per le fonti disponibili l'arrivo in Tracia di una popolazione in fuga non rappresentò un problema: il suo arrivo concordato -e comunque sorvegliato militarmente secondo l'uso plurisecolare della receptio- avrebbe fatto aumentare il numero degli uomini per la leva cui ogni provincia era tenuta a provvedere annualmente, e anche il gettito per l'erario. Secondo le stesse fonti gli ufficiali romani approfittarono della disperazione dei nuovi venuti imbastendo "un lucrosissimo mercato nero di cibo contro schiavi" e cercarono anche di uccidere a tradimento i comandanti goti. La rivolta che ne seguì, contrariamente a moltissimi altri casi analoghi, sfuggì di mano all'esercito che nel 376 era massicciamente schierato al confine orientale. E impedì l'entrata in vigore di un accordo che al netto della propaganda rivelava la debolezza dell'impero sul Danubio, perché avrebbe consentito ai goti di insediarsi in Tracia anziché in località decise dall'alto, e di conservare la propria identità politica e culturale. Heather descrive i sei anni di ostilità che devastarono la Tracia e che culminarono nella gravissima sconfitta di Adrianopoli nel 378 precisando che se anche i goti non riuscirono a prendere alcun insediamento fortificato, il trattato di pace stretto con Teodosio nel 382 si distingueva per l'assenza di qualsiasi velleità vendicativa da parte romana. Alleati di un impero che avevano sconfitto in campo aperto almeno due volte in pochi anni, i goti mantennero la libertà di negoziare come insieme unitario segnando una frattura netta con la prassi della receptio. L'A. sottolinea che nulla faceva comunque temere per le sorti dell'impero; gli imperatori erano rimasti al potere e che le province da cui veniva il maggior gettito non avevano subito danni.
Il quinto capitolo descrive la serie di cospicue migrazioni che portarono interi gruppi germanici entro le frontiere dell'impero nei primi anni del V secolo, e il contemporaneo scomparire di due sistemi di cultura materiale a prevalenza germanica dell'Europa centrorientale consolidati da secoli, quello di Przeworks tradizionalmente equiparato ai vandali e quello di Černjachov altrettanto tradizionalmente equiparato ai goti. In pochi anni, specifica Heather, il limes fu violato da quattro coalizioni in quattro punti diversi con lo spostamento di centinaia di migliaia di individui. Una migrazione vera e propria difficile da quantificare e dalla ancor più difficile attribuzione causale, anche se Heather porta argomenti a favore di un ulteriore spostamento di popolazioni unne come trent'anni prima. A sostegno della propria tesi nota che nonostante il limes fosse efficiente, i termini della receptio ripristinati e i non ottemperanti debellati secondo la prassi, i movimenti non si fermarono. Nel 405-408 si sarebbe avuta una crisi causata dallo spostamento degli unni nel cuore del continente europeo, che sarebbe culminata nell'insediamento e nella spartizione della penisola iberica da parte di alani, svevi e vandali e nel sacco di Roma del 410. Il testo nota le differenze col passato: i nuovi venuti colonizzarono province potenzialmente redditizie senza che Roma potesse opporsi -in contemporanea si erano sollevate le truppe di stanza in Britannia e in Gallia- e ne intercettarono il gettito fiscale. Heather ricorda la del tutto inusuale semiautonomia che l'impero aveva lasciato ai goti; la fedeltà -condizionata al suo rispetto- che essi tributavano all'impero venne meno nel 395, dopo che loro contingenti erano stati precettati (con gravi perdite) da Teodosio contro usurpatori occidentali; questioni di prestigio impedirono alla corte orientale di trattare con il loro capo Alarico, che fece insediare i goti come né sudditi né federati in Macedonia, in un lungo stallo diplomatico che si interuppe solo nel 406 quando Stilicone interessò i goti a una campagna contro Costantinopoli -volta a ottenere il reintregro delle loro zone di insediamento e dell'Illirico all'impero d'Occidente- invece che direttamente contro le truppe della Britannia o contro gli invasori a nord. Proprio gli sviluppi a nord avrebbero reso il piano irrealizzabile levando le ire dei goti che nel 408 si mossero verso la penisola italiana nonostante le somme elargite loro dal senato. Heather narra come Stilicone rimanesse allora vittima di uno dei "brutali, sanguinari e radicali" cambiamenti di regime dell'epoca; in nulla diverso, neppure in questo, da qualsiasi ufficiale romano nonostante le sue origini vandale. Le purghe che accompagnarono la sua morte avvantaggiarono Alarico, lontano con i suoi goti dalle zone di insediamento nei Balcani. L'A. descrive le trattative che si susseguirono per oltre un anno, sottolineando come l'atteggiamento conciliante di Alarico faccia pensare che fosse consapevole di come la forza dell'impero momentaneamente affievolita potesse invece risorgere in qualsiasi momento, e come il sacco di Roma del 410 fu segnato da particolare moderazione e dettato dalla necessità di compensare in qualche modo un'armata ingrossatasi strada facendo e delusa dal mancato avverarsi di ogni promessa. Con la corte a Ravenna, sostiene Heather, l'imperatore in carica poté lasciare Roma al suo destino senza che l'impero nel suo insieme ne risentisse eccessivamente; "se il sacco di Roma fu poco significativo dal punto di vista storico, la catena di eventi di cui era parte ebbe invece un notevole impatto sulla stabilità dell’Europa romana e generò delle onde d’urto che si riverberarono in tutto il mondo conosciuto". Sulla scia dell'accaduto Agostino di Ippona disconfermò nel De civitate Dei i fondamenti dell'ideologia imperiale e del monopolio del favore divino di cui Roma avrebbe goduto; le fonti pagane come Rutilio Namaziano non nutrivano invece dubbi sul fatto che il prestigio e la potenza imperiale fossero destinati a trionfare di nuovo. Gli eventi narrati da Heather diedero loro ragione: in tre anni tutti gli usurpatori erano stati sconfitti e il magister militum (e poi imperatore) Costanzo poté rivolgersi contro i goti -il cui sovrano Ataulfo coltivava aperte ambizioni imperiali- cacciandoli da Narbona verso la Spagna: conclusa con essi una pace se ne servì contro i vandali e gli alani, prima di reinsediarli in Aquitania a prudente distanza dai principali centri politici. Heather precisa che l'impero non tornò quello di prima: ampie zone dell'Occidente di insediamento vandalo o gotico e tutta la Britannia non versavano più tributi a Ravenna e in generale il gettito si ridusse ovunque in modo sostanziale per una quindicina d'anni. Dalla Notitia dignitatum si può inferire la grave usura dell'apparato militare occidentale, che risentì anche delle restrizioni finanziarie. L'A. nota anche come i capi di forze militari esterne potessero ormai inserirsi nelle falle del sistema politico romano e come nel corso dei decenni si fosse parimenti accentuata la pericolosità del sempre esistito fenomeno che vedeva le classi inferiori aiutare i nemici della classe dominante, quali che fossero. Nel V secolo il fenomeno iniziò a coinvolgere anche i proprietari terrieri. Questo non fu certo un "segno della mancanza di fibra morale dei romani del tardo impero", ma "la conseguenza diretta e inevitabile delle caratteristiche della ricchezza fondiaria", che non può essere abbandonata per cercare fortuna altrove.
Il parziale ripristino della stabilità operato da Costanzo -che al potere era arrivato facendo piazza pulita di ogni avversario, stando al dettagliato racconto con cui si apre il sesto capitolo- non poté consolidarsi per la morte improvvisa e senza eredi designati del suo principale artefice. L'A. riassume gli oltre dieci anni di guerre e il miscuglio di amicizie, diplomazia, omicidi e battaglie campali che consentirono al generale Ezio di trovarsi nel 433 sovrano di fatto dell'impero d'Occidente secondo una prassi in tutto consueta da secoli, ma che stavolta ebbe conseguenze molto diverse. I dieci anni di paralisi politica permisero infatti a gruppi ed eserciti di varia affiliazione di perseguire i propri scopi a tutto discapito dell'impero, e a un elevato numero di capi locali di comportarsi da usurpatori. Dopo il 428 i vandali di Genserico ormai tutt'uno con le popolazioni alane prepararono con ogni cura il passaggio dalla penisola iberica all'Africa, passando per la poco guarnita Tingitana. Le fonti attestano che, ariani come Ulfila, i vandali si accanirono particolarmente contro le istituzioni cristiane ortodosse. Con l'assedio di Ippona, sostiene Heather, i vandali irruppero in una provincia che era al tempo stesso il granaio di Roma, il motore economico dell'impero d'Occidente e la fonte della maggior parte delle sue entrate fiscali. L'A. esamina le molte campagne militari con cui Ezio cercò di rimettere in piedi l'impero d'Occidente a partire dal 430, anno in cui l'autorità imperiale si faceva rispettare solo nella penisola italiana, nella Narbonese e in Sicilia. Per l'Africa Ezio chiese e ottenne aiuto da Costantinopoli; per la Gallia, agli unni. Cui fu costretto ad assegnare terre in Pannonia. Nel 439, assicura Heather, la Gallia e il limes erano sotto controllo come quasi tutta la penisola iberica, ma pochi anni dopo i vandali riguadagnarono in Africa le posizioni perdute, sottraendo (e stavolta definitivamente) all'erario romano introiti vitali. L'arrivo alla frontiera degli unni di Attila, insuscettibili di rabbonimento anche a fronte delle cospicue offerte dell'imperatore d'Oriente, rese impossibile qualsiasi tentativo di riconquista che sarebbe dipeso dagli aiuti provenienti da Costantinopoli. Governato da e per i proprietari terrieri, dopo il 440 l'impero fu costretto a ridurre drasticamente i benefici fiscali che da secoli favorivano i possidenti e gliene assicuravano la fedeltà pur di mantenere un esercito in grado di avere qualche influenza sugli eventi.
Il settimo capitolo descrive le competenze belliche unne dello stesso periodo; a differenza dei goti di settant'anni prima, Attila e Bleda dimostrarono di poter conquistare fortezze romane di prima linea e città murate. Le fonti, -pur scarse, mutile e a tratti contraddittorie- consentirebbero di concludere che la presa di Naissus e di altre città balcaniche costrinse Costantinopoli ad abbandonare precipitosamente l'impresa d'Africa e a firmare con gli unni una pace poco onorevole, disattesa poco meno di un anno dopo al rientro delle truppe inviate contro i vandali e alle prime notizie di contese ai vertici del regno unno. Heather descrive i successivi rovesci inflitti da Attila alle formazioni romane in due importanti battaglie campali e la metodica devastazione dei Balcani su cui concordano le fonti: dati archeologici riferentisi a Nicopolis confermano che a centri romani in Tracia vecchi di trecento anni fu riservata una distruzione radicale. "La macchina della propaganda lavorò a pieno ritmo per spiegare all’opinione pubblica il come e il perché di quell’ultima «vittoria» romana; ma non appena da dietro le quinte spuntò fuori l’esattore delle tasse tutti capirono com’erano andate in realtà le cose". Come successo in Occidente dopo la perdita dell'Africa, in Oriente l'erario dovette procedere a una revoca, sia pure parziale, dei privilegi fiscali. Le fonti non consentirebbero invece di capire né come gli unni fossero riusciti a imporsi, né il perché di ostilità tanto estese. Il testo dedica varie pagine alle (poche) fonti disponibili sulla persona di Attila, sulla sanguinosa lotta con cui aveva preso il potere e sulla diplomazia unna, che non si fece problemi a umiliare l'imperatore Teodosio davanti a tutta la corte dopo aver sventato un suo complotto. Ai tempi di Attila i rapporti tra unni e romani erano da decenni basati su denaro contante in cambio di aiuto militare; non sono reperibli fonti, scrive Heather, che consentano di capire quando gli unni poterono passare alla semplice estorsione, ma il flusso di ricchezza mobile dall'impero verso gli unni fu sufficiente a cambiare radicalmente la struttura di potere decentrato che avevano conservato fino ad allora, e probabilmente consentì loro di organizzare gruppi militari di tipo predatorio. Heather osserva che l'attestata e rapida germanizzazione degli unni proverebbe il loro interesse a inglobare popolazioni e non a controllare territori romani; dopo il 410 l'ascesa della potenza unna avrebbe anzi fatto diminuire i tentativi di sfondare il limes da parte di popolazioni germaniche, anche se questa apparente tregua servì a consolidare in Europa una minaccia analoga a quella che la minaccia sasanide era stata in Oriente. In queste condizioni Attila concluse una conciliante pace con Costantinopoli. Le fonti attestano in modo aneddotico vari casus belli con l'Occidente, che gli unni attaccarono con una straordinaria massa di armati nel 451. Heather ricorda, al netto dei contenuti agiografici delle fonti, che Ezio gli contrappose in Gallia quanto rimaneva dell'esercito romano insieme agli effettivi di molti alleati come i burgundi e i visigoti; ai Campi Catalunici riuscì a respingere il primo attacco unno. L'anno successivo Attila irruppe nel nord della penisola italiana; agiografi e sceneggiatori di Hollywood, maligna fondatamente Heather, amano ricordare il salvifico intervento del pontefice Leone I sorvolando sulle vulnerabilità di un esercito da mesi in territorio ostile e sul contemporaneo arrivo di contingenti da Costantinopoli. Secondo l'A. le due secche sconfitte subite in meno di due anni attestavano il fatto che il regno unno era privo di organizzazione, di burocrazia e di cultura amministrativa e che non era quindi in grado di reggere logisticamente lunghe campagne di invasione molto lontano dai propri insediamenti.
Heather distingue gli effetti generali dell'ascesa unna sul mondo romano in tre fasi distinte. Fra il 376-380 e 405-408 essa causò due acute crisi di frontiera, costringendo l'impero ad accettare sul proprio territorio l'insediamento di genti non sottomesse, cosa che contribuì allo sviluppo di dannose forze centrifughe nel corpo politico dell’impero. Nella fase successiva gli unni unificarono il proprio dominio in Europa, ma l'impero d'Occidente non riuscì ad approfittare della relativa quiete per eliminare le minacce su accennate. La terza fase viene definita dalle massicce campagne militari condotte dal 440 in poi. Questa terza fase comportò la devastazione delle provincie balcaniche, la cui élite terriera non si risollevò più. Eppure, sostiene Heather, neppure le campagne di Attila furono una minaccia direttamente mortale per l'impero. Se l'impero di Occidente sopravvisse ai limiti logistici degli unni, contrastarli assorbì tutte le risorse finanziarie rimaste e lasciò campo libero a vandali, svevi e burgundi, che da decenni entro i confini si erano impadroniti del gettito delle regioni occupate. Alla morte di Attila l'impero d'Occidente non aveva più il controllo della Britannia, delle migliori province africane, di parte della Gallia e della Spagna; il resto del territorio era indebolito da dieci anni di combattimenti.
L'ultima parte del volume è dedicata a la caduta degli imperi; la caduta dell'impero unno e quella dell'impero romano d'Occidente viene esaminata di concerto.
L'ottavo capitolo definisce la parabola degli unni dal loro esordio sulla scena europea alla loro estinzione come potenza indipendente, databile attorno al 469. Heather non fa propria la versione dello storico Giordane per cui la morte di Attila e lo scontro dinastico che ne seguì portarono all'indipendenza di tutti i gruppi gotici noti (almeno sette) e alla scomparsa degli unni come potenza; constata anzi che il naufragio dell'impero unno richiese quindici anni e che non c'è motivo di credere che tutti i sudditi degli uinni disponessero di formazioni nette e di leadership consacrate pronte a emergere. In ogni caso, nel 469 gli unni erano ridotti da dominatori a braccati e uno dei figli di Attila ottenne dall'imperatore d'Oriente di insediarsi sul Mar Nero a sud del Danubio. Heather ripercorre il dibattito storico sull'argomento, che chiama in causa ora la personalità irripetibile di Attila, ora le ingiustizie sociali accumulatesi per l'ineguale distribuzione delle ricchezze estorte all'impero, ora i dissidi con sudditi a maggioranza germanici; all'impero unno, sottolinea l'A., non si apparteneva per libera scelta ma per conquista e intimidazione, temperate (solo per le élite) dalla mobilità sociale ed etnica che vi erano possibili e dall'oro che i vertici elargivano a un livello sottoposto. La guerra latente era una condizione normale nei rapporti con dominatori che non avevano né la stabilità né la burocrazia necessarie a controllare popoli soggiogati che andavano tenuti impegnati con continue operazioni militari dirette all'esterno. Anche in assenza di fonti, riferisce Heather, è verosimile che un'ondata di ribellioni partita dalla periferia dell'impero sia andata avvicinandosi al centro, tanto più forte quanto maggiore era stata la distanza dal centro nevralgico e quanto più intatta era rimasta la struttura sociale dei conquistati. In sintesi, la sopravvivenza dell'impero unno dipendeva dalle vittorie militari e dall'oro che arrivava in un modo o nell'altro dall'impero romano; un anno di sconfitte bastò a far precipitare la sua crisi interna, che deflagrò con la morte di Attila. La fine dell'egemonia unna lasciò l'impero d'Occidente alle prese con un doppio problema: evitare che le lotte scatenatesi a nord del Danubio investissero quanto restava del territorio, e impedire il consolidarsi di una nuova formazione monolitica e ostile. Il poco che è possibile desumere da fonti lacunose e di parte consente di concludere che il primo obiettivo non fu raggiunto e che intorno al 470 grandi masse di profughi oltrepassavano il limes, chi per integrarsi, chi meno, in un quadro di intricati conflitti regionali. Secondo Heather la fine dell'impero unno portò anche alla fine dei delicati equilibri di potere da cui dipendevano le sorti dell'impero d'Occidente: Ezio -ucciso nel 454 in una congiura- era stato per decenni un imperatore de facto che Valentiniano aveva tollerato sempre meno, sostenuto in questo da un certo numero di quei notabili scontenti che con buona pace della propaganda non mancavano in nessun caso e che in capo a qualche mese uccisero anche lui. "La morte di Attila e la scomparsa dell’impero unno non solo avevano fatto sì che Valentiniano concepisse il progetto di vivere e regnare senza Ezio, ma avevano anche alterato il delicato equilibrio di potere con cui il generale aveva tenuto in piedi l’impero romano d’occidente". Heather ripercorre gli anni successivi alla morte di Valentiniano notando come la dissoluzione della potenza unna le riserve militari dell'impero d'Occidente non consentissero più di tenere i goti ai margini della vita politica, e come il loro sostegno oltre a non essere gratuito (Teodorico sconfisse gli svevi in Spagna per conto dell'imperatore Avito agendo senza contingenti romani, e vi esercitò diritto di preda) andasse a incrementare il numero dei personaggi dediti a intrighi di palazzo sui quali Costantinopoli esercitava comunque diritto di veto e di ingerenza, in un quadro in cui "troppi erano i partiti coinvolti e troppo poche le ricompense da distribuire".
La fine dell'impero è il tema del nono capitolo. Heather vi confuta innanzitutto, tramite un esame cronologico della situazione nelle province orientali e delle minacce cui erano sottoposte, l'idea avanzata a più riprese per cui Costantinopoli non avrebbe profuso sufficiente impegno per salvare l'impero d'Occidente. Descrive poi la crisi politica seguita in Occidente alla morte di Attila e la lunga instabilità che ne fu conseguenza, precisando che Costantinopoli cercava di identificare e di appoggiare pretendenti che lasciassero presagire qualche speranza di stabilità, mentre gli imperatori d'Occidente erano costretti a fare sempre maggiori concessioni territoriali alle popolazioni stabilitesi entro l'impero, ogni volta con ulteriori perdite di entrate fiscali. A Costantinopoli, spiega l'A., erano consapevoli del fatto che il tracollo dell'impero d'Occidente avrebbe potuto essere evitato solo con la restaurazione di un potere legittimo, con la diminuzione degli attori da tenere in equilibrio e con la crescita del gettito: il sostegno di Costantinopoli al pretendente Antemio nel 467 sarebbe stato dovuto al fatto che gli erano attribuite credenziali e competenze utili per tutti e tre gli obiettivi. Una sua campagna vittoriosa contro i vandali -non come quella di Maggiorano di dieci anni prima- avrebbe rimesso l'impero d'Occidente in condizioni di sopravvivere, conclude Heather prima di descrivere come la spedizione del 468 a larghissima partecipazione orientale finisse in modo anche peggiore, in un unico scontro navale dall'esito disastroso. All'impero d'Occidente rimanevano poco più che la penisola italiana e la Sicilia e nei dieci anni successivi "nonostante l’inerzia politica e culturale che rendeva difficile concepire il mondo senza Roma, vari popoli in vari luoghi cominciarono a realizzare che l’impero romano d’occidente non esisteva più". Heather considera come modello il caso della provincia del Norico, per lo più risparmiata fino al 460 dai rovesci peggiori, per indicarvi la repentina scomparsa della circolazione monetaria (segno che non era più l'impero a retribuire i difensori), la pari tendenza all'abbandono delle villae divenute indifendibili in favore di insediamenti fortificati e il concentrarsi della popolazione romana in pochi centri urbani. Lo stile di vita romano che dipendeva dal potere emanato dal centro dell'impero poté esistere finché questo flusso non si interrrupe. In Gallia e in Spagna invece non si verificarono vuoti di potere; le parti in causa anzi vi si affollavano, e Heather ne ricostruisce le vicende notando che invece di cercare di vivere all'ombra dell'impero, le compagini esistenti nel suo territorio iniziarono ad allearsi contro di esso. Le fonti romane indicano comunque il persistere di una élite che su entrambi i lati dei Pirenei voleva continuare a essere romana e che si trovò a contesa con quanti erano invece convinti che l'impero non avesse futuro. Nonostante questo, contrariamente a quanto successe in Britannia l'ordine romano basato sulla presenza di proprietari terrieri e di contadini fittavoli non scomparve mai del tutto e il lento svanire del controllo imperiale permise ai sovrani visigoti di amministrare i propri possedimenti usando modelli e leggi romani e amministratori in grado di farli funzionare. Conseguenza della dissoluzione del potere imperiale fu la ridistribuzione delle risorse immobiliari disponibili, sia nei territori visigoti che in quelli burgundi; le élite dovettero fare scelte radicali intanto che le manovre per il potere imperiale perdevano sempre più significato e che l'impero d'Oriente stentava a riprendersi dal rovescio africano. Heather nota infine come l'impero sostanzialmente ridotto alla penisola italiana disponesse ancora di formazioni militari molto ingenti e sostenute da molti germani sfuggiti al crollo dell'impero unno. Forze tanto ingenti da far dubitare che ci fossero risorse per mantenerle. Lo sciro Odoacre avrebbe compreso l'inutilità di mettere in piedi un qualsiasi effimero sovrano, e dopo essersi assicurato la fedeltà dell'esercito distribuendo terre si mise a disposizione di Costantinopoli, che prese atto del suo ruolo de facto e gli consentì di deporre l'ultimo imperatore.
Il testo presenta con la caduta di Roma il suo ultimo capitolo. Heather afferma che fino alla rottura dell'unità mediterranea con l'ascesa dell'Islam un impero in tutto e per tutto romano continuò a esistere a est, e che in Europa e in Africa continuarono a esistere persone che si pensavano romane e che tali erano ritenute dagli altri. A finire nel 476 erano stati i tentativi di tenere in vita un impero d'Occidente inteso come struttura politica onnicomprensiva e sovraregionale. Contrariamente a chi sottostima la deposizione di Romolo Augusto, Heather crede che essa abbia rappresentato il culmine di un processo storicamente significativo -precipitato nei dieci anni precedenti- che aveva avuto inizio col primo manifestarsi della presenza unna ai confini d'Europa, di cui gli unni furono per molti decenni inconsapevole motore e che fu caratterizzato dalla violenza in ogni sua fase. Heather nota poi come la romanitas provinciale esistesse in simbiosi col potere centrale; dopo il 476 gli schemi di carriera delle élite cambiarono drasticamente e l'avanzamento sociale iniziò a passare dal servizio militare per il sovrano locale e non dalla scala gerarchica della burocrazia; il costoso iter degli studi classici diventò superfluo. Sulle cause ultime della fine dell'impero d'Occidente Heather si discosta apertamente dalla tradizione storiografica che le identifica innanzitutto in fattori sostanzialmente endogeni: "Ogni ricostruzione del percorso che nel V secolo portò l’impero romano d’Occidente alla rovina non può prescindere dal fatto che la sua controparte d’oriente non solo sopravvisse, ma prosperò ancora per tutto il VI secolo. Tutti i mali individuati nel sistema occidentale si riscontravano assolutamente identici, se non più gravi, in quello orientale". Heather chiama in causa le differenze geografiche, con il lungo limes occidentale, e l'ascesa di una potenza unna che spinse entro i confini dell'impero un numero di armati comunque insufficiente a causarne la dissoluzione. L'azione degli invasori si sommò ai limiti militari, economici e politici interni a un sistema già sotto pressione per altri motivi come la presenza sasanide a oriente, le risorse fiscali comunque risicate, i rischi del do ut des con le élite terriere provinciali. Secondo Heather tuttavia l'edifico imperiale collassò essenzialmente per i massicci attacchi militari provenienti dall'esterno, da popolazioni che non erano più quelle del I secolo perché una vera rivoluzione economica facilitata dagli scambi con Roma aveva trasformato la loro produzione agricola e manifatturiera cambiandone la stratificazione sociale e irrobustendone molto le strutture politiche. Un processo che si rafforzò con l'ingresso in territorio romano portando alla costruzione di compagini mai viste prima per formazione e ampiezza, che in un modo o nell'altro approfittarono della burocrazia di redistribuzione del gettito fiscale che era uno dei punti di forza dell'impero. Heather sostiene anche che gli eccessi dell'imperialismo romano abbiano avuto un ruolo nella nascita di queste nuove strutture, stanti le ricorrenti spedizioni romane al di là del limes e la corrente di resistenza che senz'altro provocarono, al pari delle competenze diplomatiche e del fiorente commercio di armi romane. L'A. condivide la tesi per cui il tipo di dominio esercitato da un impero tende a generale reazioni uguali e contrarie. "L’impero romano gettò i semi della propria distruzione non per le debolezze intrinseche che nel corso dei secoli si erano sviluppate al suo interno e nemmeno per altre nuove debolezze sorte nella fase conclusiva della sua storia, bensì in conseguenza dei rapporti che aveva costruito e intrecciato con il mondo germanico. I sasanidi erano riusciti a riorganizzare la società mediorientale in modo da liberarsi della dominazione romana; altrettanto fece il mondo germanico, solo che la collisione con la potenza unna fece precipitare il processo molto più in fretta [...]. L’impero romano d’Occidente non crollò per lo stesso peso del suo "magnifico edificio", ma perché i vicini germanici reagirono al suo strapotere in modi che i romani stessi non avrebbero mai potuto prevedere [...]. Per via della sua illimitata aggressività, l’impero romano fu in ultima analisi la causa della propria distruzione".


Peter Heather, La caduta dell'impero romano. Una nuova storia. Garzanti, Milano 2008. 657 pp.