Il tema del colonialismo non rientra fra i molti che nello stato che occupa la penisola italiana sono stati oggetto nell'ultimo secolo di lettura, rilettura, interpretazione e reinterpretazione. Questo, nonostante il fenomeno abbia interessato circa otto decenni, tra l'acquisto dei diritti su un'area nel porto eritreo di Assab nel 1882 e la fine dell'amministrazione fiduciaria della Somalia nel 1960. Francesco Filippi ritiene che l'opinione pubblica non provi interesse per un tema scollegato dall'attualità, e soprattutto poco sfruttabile (se non controproducente) sul piano politico. Il fatto che la realtà del colonialismo abbia toccato pochi contemporanei e che lo stato che occupa la penisola italiana si sia dedicato "tardi e male" all'assalto di altri continenti verrebbe considerato prova di una connaturata incapacità di dominio sull'altro. Il tema ha acquisito visibilità negli anni '90 per la querelle mediatica tra Montanelli e Del Boca; il non poter negare l'evidenza delle violenze coloniali è stato metabolizzato mediaticamente facendole coincidere con le violenze fasciste; sotto il fascismo si svolse solo una fase di un fenomeno di per sé aggressivo, e in questo campo gli elementi di continuità sotto il governo autoritario furono maggiori degli elementi di rottura. L'A. nota che il senso di estraneità nei confronti di una linea politica tanto costante e duratura si è concretizzato in acquiescenza fino al 1960 e poi in una amnesia collettiva; il libro intende esaminare la percezione comune del passato coloniale negli aspetti politici, economici, sociali e culturali che esso ha assunto in una realtà in cui, per quanto riguardava la postulata conquista del mondo che consentiva di accedere a pieno titolo al novero delle (autonominate) nazioni civili, era forte il complesso dell'"ultimo arrivato".
Nel 1845-1849 la marina britannica fermò in Nigeria navi sarde sospettate di traffico di schiavi, annota l'A. all'inizio del primo capitolo dedicato alle motivazioni del colonialismo. La storia coloniale dello stato che occupa la penisola italiana fu costruita approfittando di vuoti di potere o della benevolenza di questa o quella potenza coloniale già affermata. A costruire prospettive di ricchezza e di prestigio per l'opinione pubblica pensò la propaganda, che elaborò anche le correzioni necessarie a farle metabolizzare insuccessi e sconfitte. Filippi inizia ricordando che fu il privato cittadino Giuseppe Sapeto ad acquistare nel 1869 il porto di Assab da due notabili eritrei per conto della compagnia di navigazione Rubattino di Genova. Uno scalo tra Suez e l'India, a canale appena inaugurato, avrebbe dovuto garantire ottimi introiti; la previsione invece si rivelò errata e la Rubattino dovette a tutti gli effetti vendere la baia e le sue infrastrutture allo stato che occupa la penisola italiana. Nato da pochi anni e già oggetto di scarsa considerazione negli ambienti diplomatici, lo stato che occupa la penisola italiana aveva dovuto tollerare l'occupazione francese della Tunisia: per ragioni di prestigio non poteva subire anche il fallimento della Rubattino nell'unico lembo extraeuropeo su cui aveva messo -sia pure indirettamente- le mani. Ad Assab l'aquisto dell'area e la sua trasformazione formale in colonia avvennero col benestare dei veri padroni della zona, che erano i britannici. In concreto un'impresa fallimentare fu salvata con denaro pubblico, e lo stato che occupa la penisola italiana ebbe magrissima consolazione dallo smacco tunisino. La propaganda invece parlò di contributo alla pacifica civilizzazione dei popoli locali e dei vantaggi economici dell'iniziativa. Il primo punto lo sviluppò assecondando uno "spirito di servizio" molto diffuso presso le élite europee; una specie di dovere etico assommato da Kipling nel suo fardello dell'uomo bianco. Nell'agenda politica della "Sinistra storica", puntualizza Filippi, la "civilizzazione" compariva insieme all'allargamento del suffragio elettorale e alla riforma scolastica. La traduzione operazionale di questi propositi lasciò molto a desiderare, la colonia venne fatta gestire da militari privi di preparazione adeguata, il tenente Dario Livraghi divenne famigerato anche presso il grande pubblico verso il 1891 per le efferatezze commesse cercando di impadronirsi dei beni dei maggiorenti della zona, prima di essere velocemente assolto in tribunale. In secondo luogo, il colonialismo aveva fatto prosperare Francia e Regno Unito: l'imprenditoria peninsulare poteva ora partecipare al grande banchetto di un'Africa ancora da scoprire (e da sfruttare). Un'idea che non metteva in conto la scarsezza di capitali, i mercati ancora embrionali, la carenza di infrastrutture statali e il fatto che il porto di Assab non aveva altro retroterra che il deserto. Filippi descrive la successiva militarizzazione della énclave e l'inizio dell'espansione sul Mar Rosso come descriverebbe il rilancio di qualcuno che spera di rifarsi da una mano sfortunata. Nel 1885 il benestare britannico consente l'occupazione di Massaua, teoricamente sotto controllo egiziano. I cinque anni successivi vedono la graduale annessione dei territori circostanti i due porti e l'occupazione di Asmara, col pretesto del consolidamento di una colonia chiamata Eritrea.
Ad ogni conquista la propria bugia, esordisce il secondo capitolo dedicato a una rassegna dei racconti pubblici elaborati nel tempo a beneficio dell'opinione pubblica. L'A. considera l'Eritrea come un avamposto dai confini inedifiniti e massicciamente presidiato. Il suo scopo -non certo nascosto- sarebbe quello di fare da retroterra per l'aggressiva annessione dell'Etiopia. L'unica "risorsa locale" sfruttabile e sfruttata sono i combattenti: il vocabolo àscari con cui li si indica avrà accezione negativa per tutto il periodo colonialista: pedoni sacrificabili nei continui scontri di confine, buoni altrimenti per dare un tocco esotico alle parate militari. Filippi nota come il trattato di Uccialli sottoscritto con l'Etiopia nel 1889 fosse un pacifico esempio dell'abituale disprezzo con cui veniva considerata la controparte: nella sua versione in amarico l'imperatore d'Etiopia poteva servirsi del governo dei non richiesti vicini, laddove nella versione mandata nelle cancellerie europee consentiva a farlo, ovvero delegava in tutto la propria politica estera allo stato che occupa la penisola italiana. L'A. nota che fino al 1896 gli scontri di confine e la realtà da avamposto militare in allarme permanente dell'Eritrea non uscirono dai circoli della politica estera. Solo con la disfatta a Abba Carima (chiamata poi Adua) la stampa portò estesamente il tema a conoscenza dell'opinione pubblica, mettendo in discussione i motivi dell'esistenza stessa della costosa colonia sul Mar Rosso. L'idea di farne una "colonia di ripopolamento" per attirare emigranti altrimenti destinati agli USA o all'Argentina comporta il sequestro di centinaia di migliaia di ettari di pascoli e la distruzione dell'economia di sussistenza della popolazione locale; dalla penisola italiana si recano in Eritrea poche centinaia di emigranti che per lo più evitano con cura di fermarvisi, con buona pace della pubblicistica che la definiva fertilissima.
Negli stessi anni lo stato che occupa la penisola italiana conferma il proprio ruolo di pedina del colonialismo britannico siglando -con l'avallo del Regno Unito- trattati con sultanati somali. Dal 1893 viene affidato ad affaristi abbondantemente finanziati con denaro pubblico -Vincenzo Filonardi prima, la Anonima del Benadir poi- lo "sviluppo" di mille chilometri di costa, su modello di quanto fatto dai britannici con la Compagnia delle Indie. Ovviamente con risultati opposti: i "concessionari" spadroneggiano irritando la popolazione locale senza avviare attività di rilievo e soprattutto senza produrre un centesimo di introiti, anche perché quasi tutti i fondi a disposizione vanno in spese militari necessarie alla protezione dei colonizzatori. Nel 1903 lo stato che occupa la penisola italiana straccia la concessione, processa (e assolve) per malversazione i concessionari confermando davanti al mondo intero di quali prodezze sia capace la propria classe imprenditoriale e dopo pochi anni annette amministrativamente i territori somali estendendovi il diritto e il sistema amministrativo dell'Eritrea. Dal 1908 in poi la Somalia diventa a tutti gli effetti una seconda voragine di denaro pubblico.
Filippi nota che il moto colonialista non segue una rotta chiara e non sa nemmeno come usare gli avamposti che va affannosamente mettendo insieme. All'inizio del XX secolo il governo britannico presenta la rivolta anticolonialista in Cina come una rivolta contro la civiltà e riesce a ottenere l'aiuto di varie potenze in una operazione repressiva di vasta portata. Alla élite peninsulare vengono serviti dal Corriere della Sera -instancabile foglietto bellicista- resoconti puntigliosi sulle sofferenze inflitte dai boxer ai cristiani e agli occidentali; aggregato a un "G8 ante litteram" lo stato che occupa la penisola italiana manda dunque in Cina un corpo di spedizione che dopo un anno e al prezzo di diciotto morti in combattimento gli frutta una concessione nella città portuale di Tientsin. Si tratta, letteralmente, di una quarantina di ettari di terreno paudoso usati per lo più come cimitero. Nei decenni successivi diventeranno un quartiere multietnico buono per rari articoli di costume e per inviarvi -come diplomatici o militari- giovani ricchi da cambiare di posto. La spedizione ha successo da un altro punto di vista: consente allo stato che occupa la penisola italiana di ben figurare tra le potenze colonialiste.
Per la Tripolitania lo stato che occupa la penisola italiana fa mosse meglio fondate. Il nord Africa del 1910 contava una popolazione europea consistente e aveva una qualche importanza commerciale; costituirvi una colonia andava oltre il superamento dei fatti di Tunisi, ma richiedeva una lunga manovra di avvicinamento diplomatico per superare la contrarietà del Regno Unito, stanziamenti pubblici ragguardevoli per il potenziamento di una flotta militare e un casus belli contro Istanbul. Filippi nota che al favore delle élite economiche e culturali si accompagna la contrarietà delle masse, consapevoli del bilancio impresentabile delle precedenti iniziative. Conquistare un altro pezzo di litorale improduttivo non pareva un gran che, come soluzione ai problemi della povertà e dell'emigrazione; invece la propaganda lo presenta proprio in questo modo, sopravvalutandone risorse e potenzialità con eroico sprezzo del ridicolo. Le considerazioni razziste verso la popolazione locale -poca, povera, non in grado di far fruttare le terre- almeno non chiamano in causa la civiltà da esportazione; in alte sfere si conta sul fatto che l'impresa sia facile e porti proventi immediati. L'opposizione sociale parla con Salvemini di "cassone di sabbia" ma non ha rilevanza nella guerra di aggressione del 1911-12 che viene ovviamente presentata come guerra di riscatto. Ne ha molta invece la retorica di Giovanni Pascoli: armi in pugno, i sudditi possono dimostrare di non essere come "i negri" da linciaggio degli Stati Uniti. Con Pascoli prende il sopravvento una propaganda emotiva e razzista che fa strame di opinioni assennate sui fondi che sarebbe possibile usare in modo più costruttivo che non per tentare di instaurare una "colonia di ripopolamento" attorno a Tripoli dall'utilità peggio che dubbia. I suoi sviluppi porteranno al consolidamento di un "razzismo di colonia" che connoterà nei decenni successivi l'atteggiamento dominante. Filippi prosegue spiegando come la nulla conoscenza del terreno e della realtà locale (eloquente riflesso della cura con cui era stata preparata l'aggressione) trasformasse la pronosticata facile impresa in una delle più lunghe guerre in cui sia mai stato impegnato lo stato che occupa la penisola italiana. Statuita la minore dignità della popolazione locale, i conquistatori si vendicano dei rovesci subiti sul campo con una interminabile teoria di uccisioni arbitrarie, stupri e saccheggi che sarebbe stata impensabile in Europa. Con la prima guerra mondiale il paradiso libico della propaganda lascia il posto alla rappresentazione della colonia come l'ennesima terra inospitale, buona per avventure romanzesche e traffici poco chiari. Il fascismo continua la politica prebellica: occupazione militare e assoggettamento della popolazione con ogni mezzo necessario, fino ad arrivare dopo il 1929 con il "macellaio del Fezzan" Rodolfo Graziani alla deportazione (qualcuno parlerà di genocidio) di intere popolazioni per togliere risorse alla guerriglia. Solo nel 1931 le operazioni di vasta portata si chiudono, dopo la cattura di Omar al Muqtar. All'opinione pubblica arriva il messaggio per cui l'unico modo per trattare con la popolazione locale è la violenza efferata.
Nelle ostilità contro l'impero ottomano lo stato che occupa la penisola italiana aveva sbarcato truppe a Rodi e nel Dodecaneso, che controlla senza alcun titolo fino al 1923, anno in cui formalizza l'annessione con il trattato di Losanna e avvia un "reinsediamento" dagli esiti trascurabili in nome della continuità con la presenza veneziana. Per trent'anni le isole dell'Egeo sono un "possedimento" (non una colonia, troppo tenui le differenze con la popolazione locale) che fa da vetrina delle politiche colonialiste. Rispetto al "modello" si tratta di una realtà sui generis destinata a non lasciare praticamente tracce nella memoria popolare.
L'A. afferma invece il contrario per l'aggressione all'Etiopia del 1935, che avrebbe lasciato tracce molto più forti nella memoria pubblica e nella coscienza civile. L'iniziativa viene propagandata come impresa fascista ed è praticamente la prima in cui lo stato che occupa la penisola italiana non si comporta da subordinato o da comprimario. Ai temi propagandistici preesistenti viene dunqe associato anche quello del "carattere epocale" dello scontro: una nazione giovane in lotta darwiniana con le vecchie potenze coloniali. La propaganda si concentra sul prestigio della conquista mettendo in ombra la sua effettiva utilità economica, e la presenta come una rivincita sulle potenze ostili. Gli abissini sono descritti capacissimi di qualsiasi ferocia e secondo gli stereotipi di più bassa lega. Barbari arretrati che discreditano la Società delle Nazioni in cui siedono. Filippi parla di "un investimento emotivo" che riguarda il destino stesso della penisola; il disprezzo per un nemico considerato subumano amplifica oltre misura la brutalità in battaglia, giustifica le violenze contro i civili e il ricorso ai gas asfissianti, e infine l'instaurazione di un regime di apartheid. L'A. nota che comunque la paura del fallimento, più che giustificata stanti le umilianti esperienze del passato, induce a mobilitare centinaia di migliaia di effettivi e a uno spiegamento tecnologico inusuale per una guerra coloniale che assicura una conquista effimera pagata un prezzo altissimo. In pregiudizi d'oltremare Filippi considera lo sviluppo della narrazione sulle colonie e sui loro abitanti. La corsa all'Africa -che sarebbe meglio definire "scalcinato assalto alle terre altrui"- punta ai territori ancora "liberi", vale a dire non colonizzati, in cui si postula ovviamente a torto un vuoto istituzionale che la superiorità bianca ha il dovere di colmare. Filippi nota che la baia di Assab viene acquistata dalla Rubattino sottoscrivendo un contratto debitamente tradotto e non con una manciata di perline. Un elemento fondamentale che indica l'esistenza di un apparato istituzionale e giuridico di cui è necessario tenere conto. Lo stato che occupa la penisola italiana invece, con atto stavolta arbitrario, trasformerà tredici anni dopo la proprietà in sovranità ammettendo implicitamente di conoscere benissimo la differenza tra la realtà e i contenuti della propaganda che diffonde. La propaganda ritrae società in cui vige un primitivismo millenario, incapaci di sfruttare ricchezze che spettano alla superiorità bianca. Nel Mar Rosso come in Somalia, le strutture di società antiche e articolate vengono spazzate via dalla violenza tecnologica corroborata dal disprezzo. Di tutto questo all'opinione pubblica arrivano per lo più aneddoti edificanti sulla magnanimità degli aggressori. La propaganda non può ricorrere agli argomenti dell'arretratezza e del vuoto istituzionale per giustificare le intromissioni in Cina o nell'impero ottomano: si tratta di civiltà note e documentate da secoli che vengono dunque definite "arretrate", "anchilosate" o "decadenti"; nulla di meglio di uno shock militare per rimetterle sulla via dello sviluppo. Nel caso dell'Etiopia la propaganda riesce a ricorrere in contemporanea a entrambi i filoni; la satira si accanisce sul metro e cinquantasette di Hailé Selassié... quando Vittorio Emanuele III era più basso di quattro centimetri. In ogni caso ai conquistati vengono attribuiti i segni di una diversità inconciliabile: l'A. riporta l'accoglienza riservata nel 1884 ad alcuni maggiorenti della Dancalia, esibiti letteralmente come animali e raffigurati come tali dall'immancabile Corriere della Sera. Filippi illustra come, per decenni, non solo l'opinione pubblica ma anche il personale amministrativo inviato in loco abbiano mutuato la propria concezione dei territori colonizzati e delle rispettive popolazioni da letteratura non sempre di buon livello; postulare la refrattarietà degli abitanti alla civilizzazione aiuta a sfruttare le (poche) risorse del territorio senza scrupoli di coscienza e a superare lo shock culturale di chi arriva sul posto avendone scarsa e distorta cognizione. L'A. cita l'anello al naso -comune in molte culture ma in Europa esclusiva degli animali- come sigillo di alterità stupida e pericolosa, e la sveglia al collo come attestazione dell'incapacità di comprendere appieno la complessità del progresso portato dai colonizzatori. I quali ritengono meno problematico dare nuovi nomi a regioni e località piuttosto che usare quelli esistenti: diventa Eritrea tutto quello che viene strappato al controllo etiopico, e sono sostanzialmente fittizi o dal labile richiamo antiquario anche Somalia e Libia. Il nome Etiopia invece viene usato soltanto dopo la conquista di quella che in precedenza era una meno nobile Abissinia. La creazione di un unico organismo retto da un viceré e con capitale Addis Abeba rappresenta dopo il 1936 il culmine di una omogeneizzazione statuita per legge. La cosa non aiuta ovviamente l'opinione pubblica a comprendere una realtà che la stampa compendia per lo più in curiosità bizzarre e notizie granguignolesche. Nel 1947 lo stato che occupa la penisola italiana viene estromesso bruscamente dal novero delle potenze coloniali, cosa che evita ai suoi abitanti di acquisire anche quel poco di consapevolezza indotta da una lenta (e spesso bellicosa) decolonizzazione. Affare di uomini, il colonialismo non si accontenta di ritrarre le popolazioni colonizzate come stupide, bellicose, pigre, indolenti e dedite al vizio. La propaganda, la divulgazione, la memorialistica attribuiscono in particolare alle donne una sensualità animalesca e a tratti demoniaca, negando loro anche quelle tracce di lealtà e di senso dell'onore che si degnano di accordare agli uomini e ritraendole nude senza che la censura abbia da eccepire. Il concetto della "africana facile" alimenta una produzione che va dal pornografico al canoro, cui le autorità fasciste cercano senza risultato di mettere un freno perché non gradiscono la promiscuità razziale. Cui indulgono con una certa regolarità i soldati di stanza in Africa Orientale.
Lo stato che occupa la penisola italiana non vive una decolonizzazione. A portare testimonianza dall'oltremare sono più che altro militari che hanno vissuto l'esperienza come un'avventura giovanile e che ricordano di averla vissuta in un clima di segregazione più che di scambio, con la diffusa sensazione di non essere stati dei benvenuti. Filippi sottolinea che solo per la Libia e per limitate zone dell'Eritrea si può parlare di insediamenti agricoli che non supereranno mai come numerosità l'1% in proporzione con la popolazione locale, e i cui abitanti godono di uno status giuridico privilegiato ai sensi di un ordinamento giuridico che distingue colonizzati e colonizzatori: apartheid di fatto in Africa Orientale, la situazione è più sfumata per la vicina Libia senza che si arrivi a mettere in discussione il ruolo (nel migliore dei casi) subordinato dei nativi del luogo. L'A. specifica che la fine dei sogni di ricchezza che si impone nel 1947 fa rientrare nella penisola quasi tutti coloro che avevano provato a realizzarlo con l'aiuto dello stato e delle sue armi. La situazione turbolenta e la vera e propria cacciata operata da governi locali ostili dopo la seconda guerra mondiale (su tutti quello libico di Gheddafi, nel 1970) alimentano l'indignazione di chi si ritiene vittima di un sopruso gratuito e dell'ingratitudine di chi si è visto "trasformare il deserto in un giardino". Considerazioni che vanno ad alimentare il consolidato ritratto dei colonizzati come infidi e traditori. Come non aveva tenuto il passo altrui al tempo della colonizzazione, lo stato che occupa la penisola italiana non riesce a tenerlo nemmeno al tempo della decolonizzazione: come attore economico non ha neppure quella penetrazione esclusiva nelle ex colonie che gli altri avevano saputo conservare. Filippi nota che le produzioni mediatiche del dopoguerra abbiano insistito fino a oggi nel notare le infrastrutture lasciate dai colonizzatori, asserendo (anche in modo esplicito) come i locali non abbiano saputo fare più nulla. Le avventure coloniali di Roma vengono liquidate dallo stesso Regno Unito che le aveva incoraggiate o tollerate per decenni. L'amministrazione fiduciaria della Somalia viene accordata solo per calcolo geopolitico britannico. I colonizzati invece riportano il marchio indelebile dei confini stabiliti a tavolino e tentano la costruzione di compagini statali stabili, anche se nel 2023 la realtà mostra una Libia e una Somalia divise dalla guerra civile e un'Eritrea dominata dalla dittatura. L'A. ne conclude che il marchio della colonizzazione è stato forte per i colonizzati. I colonizzatori invece, cacciati con ignominia dal club delle potenze coloniali, archiviano velocemente il colonialismo che scompare dal dibattito pubblico e diventa marginale sul piano politico. Il suo posto viene preso dal terzomondismo e dalla cooperazione internazionale: a Roma, la FAO trova sede in un palazzo originariamente progettato come ministero delle colonie. Ogni colpa del colonialismo viene scaricata sul fascismo, che a sua volta viene ripudiato insieme alle responsabilità storiche che aveva comportato. Il colonialismo prefascista diventa oggetto di agiografia da parte di certa stampa conservatrice ma di fatto viene rimosso dal dibattito, quando non dalla memoria collettiva. Negli anni Cinquanta se mai le evidenze della difficile decolonizzazione altrui fanno pensare che il colonialismo peninsulare esca bene dal confronto; la stampa si accanisce con malcelata soddisfazione contro il Regno Unito e la Francia in occasione della crisi di Suez, e si limita a favole autoassolutorie le rare volte che deve mettere in agenda le vicende delle ex colonie. Anche per la sconfitta in Etiopia nel 1941 esiste una narrazione che ne vede protagonisti i soli inglesi, negando il ruolo della resistenza locale. L'A. nota che, come nel caso dell'occupazione della Jugoslavia, nessun accusato di crimini di guerra viene estradato in Etiopia: certe continuità è bene rimangano sotto traccia. Filippi sottolinea che la quasi inesistente storiografia in materia conta dopo il 1952 su una corposa produzione -curata da un comitato interministeriale di redattori dalle simpatie colonialiste- "priva di qualsiasi requisito di serietà e di scientificità" che cerca per anni di puntellare l'immagine di un colonialismo civilizzatore e costruttore di infrastrutture. Primo (e probabilmente unico) risultato, quello di sganciare la trattazione dagli sviluppi che essa conosce nei paesi in cui la decolonizzazione viene per lo meno presa in considerazione come tale. Filippi nota che il fascismo funge da giustificativo sempre valido cui attribuire ogni demerito, anche quelli precedenti la sua ascesa; sottolinea poi che la propaganda fascista del 1935 -che mostrava la costruzione della rete viaria che sarebbe servita alla logistica contro l'Etiopia- abbia insistito sul tema quanto bastava per farne il principale argomento degli assertori di un colonialismo buono. In conclusione, Filippi sostiene che in buona sostanza la memoria condivisa del colonialismo si limita solitamente alla propaganda su infrastrutture più utili ai colonizzatori che ai colonizzati. Le testimonianze contemporanee elencate dal libro ridimensionano l'estensione e soprattutto la qualità dei lavori eseguiti, facendo esplicito riferimento a sperperi e ruberie. Ironicamente, i tronconi davvero realizzati serviranno agli inglesi nel 1941 per invadere l'Africa Orientale. L'A. sintetizza i problemi nella enorme disparità esistente tra obiettivi prefissati e risorse destinate a realizzarli. Lo stato che occupa la penisola italiana regge le proprie colonie "tenendo pulita la facciata" a pro di un'informazione che controlla pressoché per intero, ignorando o nascondendo i problemi che non ha la capacità di affrontare. Il razzismo imperialista diffuso per decenni nella società si cristallizza dopo la cacciata dall'oltremare perché gli ex colonizzati emigrano verso mete più appetibili e perché lo stato che occupa la penisola italiana non fa gran che per attirarli. Nel caso dell'amministrazione fiduciaria della Somalia lo stato che occupa la penisola italiana provvede con personale del vecchio ministero delle colonie -mai epurato- a provvedere a compiti cui non aveva pensato di provvedere nei cinquant'anni precedenti, come l'organizzazione di un qualche sistema scolastico e la formazione di personale locale.
L'ultimo capitolo considera il retaggio attuale di ottant'anni di colonialismo. All'abbandono inesorabile delle posizioni ex coloniali, occupate da altre potenze o da movimenti antimperialisti, secondo Filippi si è accompagnata sul piano interno a "una prolungata e più o meno volontaria amnesia". Solo a Roma esistono comunità relativamente numerose di persone consapevoli di una doppia appartenenza; il rimanente della memoria è dato dai ricordi dei militari reduci e da quanti hanno subito l'espulsione dalla Libia come "una brutale cacciata dall'Eden". Sostanzialmente le rappresentazioni sociali create dalla propaganda nata a fine '800 non ne vengono confutate, corrette o scalfite. Il volume elenca anzi varie espressioni a tutt'oggi in uso, specchio della interiorizzazione della propaganda: tra queste le lingue di Menelik -a dileggio di un sovrano colpevole di aver confutato le carte truccate con cui lo stato che occupa la penisola italiana aveva cercato di ridurlo a un subordinato- o ambaradàn, che da località etiope in cui nel 1936 avvenne un massacro indiscriminato di militari e civili a mezzo gas asfissianti è passata a indicare una situazione gioiosamente confusionaria. Per decenni, si sottolinea, la cinematografia ribadisce la superiorità dei colonizzatori; quando racconta eventi bellici i protagonisti sono bianchi; i locali per la cui terra si combatte hanno nella trama ruoli negativi o marginali. In vari casi l'Africa (tutta) è "un mondo fatto di popolazioni con gonnellini di paglia che vivono in capanne, le cui donne seminude si concedono sorridenti". Una iconografia ottocentesca. Solo negli anni dopo il 1960 lo stereotipo si sdoppia nel "negro civilizzato" veicolato dalle produzioni statunitensi, la cui accettazione -stando al solerte Corriere della Sera- richiede un esplicito ricorso alla razionalità e viene in ogni caso considerata il frutto di condizioni non replicabili. Gli africani reperibili nella penisola sono talmente pochi che l'antirazzismo ha carattere teorico. Filippi presenta quindi le vicende de Il leone del deserto, un kolossal propagandistico libico centrato sulla figura di Omar al Muqtar fortemente voluto da Gheddafi nel 1981 e bandito per decenni dalla penisola italiana perché "lesivo dell'onore dell'esercito". Nei comunicati stampa di protesta è evidente il disappunto per i temi sgraditi riportati all'attualità; vi si tace il nome di al Muqtar e con bella prova di cognizione di causa se ne data l'esecuzione al 1912. Il film rimarrà all'indice fino al 2009, anno in cui viene programmato da un canale televisivo a pagamento. Dopo la fine dell'amministrazione fiduciaria la Somalia resta sostanzialmente assente dall'agenda massmediatica fino al 1992, quanto la missione Restore Hope viene raccontata facendo pensare alla narrazione di cento anni prima: si portano la pace e la civiltà a una terra incapace di provvedere a se stessa, i cui abitanti vengono raffigurati come condiscendenti e bisognosi di soccorso oppure come ribelli infidi, privi di onore e di raziocinio. L'A. ricorda la battaglia del checkpoint pasta come riattualizzato esempio di una narrativa centenaria, e sottolinea il fallimento della missione; dopo un anno, un centinaio di caduti (contro, pare, diecimila somali) e un miliardo di dollari speso senza risultati, i contingenti occidentali si ritirano. A missione conclusa il comportamento dei militari di un corpo d'élite inviato in Somalia dallo stato che occupa la penisola italiana è al centro di uno scandalo di una certa portata; emergono la nulla considerazione per la popolazione locale, i traffici poco chiari e le violenze arbitrarie, in una cronaca che potrebbe riferirsi identica a fatti di cento anni prima. In chiusura, Filippi tratta della restituzione dell'obelisco di Axum trafugato nel 1937, di cui i trattati internazionali avevano imposto la restituzione all'Etiopia. Preso atto della necessità nel 1956, lo stato che occupa la penisola italiana completerà la restituzione e la riedificazione del monumento soltanto nel 2008 senza che la stampa si lasci sfuggire l'occasione per alimentare un'altra volta la vulgata della "brava gente". La conclusione riprende i temi essenziali del volume, soprattutto quello della mancata elaborazione di cosa sia stato un colonialismo di cui restano congelate attestazioni odonomastiche e poche altre tracce, e dei suoi effetti sulle regioni colonizzate.


Francesco Filippi, Noi però gli abbuiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie. Bollati Boringhieri, Torino 2021. 198 pp.