Il libro di Vercelli rappresenta una introduzione oggettiva ai principali aspetti della storia dello stato sionista, utile anche per un primo accostamento al tema del sionismo in generale e del dibattito che ne ha animato lo sviluppo.
Nel capitolo iniziale dedicato alla nascita dello stato, alle sue premesse e ai suoi effetti Vercelli prende atto del fatto che lo stato sionista rappresenta per molti un elemento di tensione se non di scandalo, e che la materia del contendere non si limita alla sua accettabilità nel presente ma coinvolge anche e soprattutto la sua legittimità storica. In Medio Oriente i confini sono stati tracciati prima della formazione delle identità nazionali; lo stato sionista avrebbe concluso per primo -col punto di arrivo del 1948- un pecorso di consolidamento iniziato nel XIX secolo. Secondo Vercelli lo stato sionista "non occupò territori appartenuti a un’altra entità statale, non usurpò l’altrui giurisdizione ma produsse senz’altro una frattura tra la locale comunità araba –che si pensava come parte di una più generale unità, quella dei popoli della regione mediorientale– e la comunità ebraica palestinese, che da quel momento poté contare invece su istituzioni indipendenti". Vercelli introduce la distinzione terminologica tra ebraismo e sionismo, riassume gli esiti della "emancipazione" del XVIII e XIX secolo e il mutare in senso razzista biologico dell'antisemitismo e si accosta al concetto antisemita di "questione ebraica" definendola come il permanere di caratteri specifici di tipo culturale, religioso o sociale malgrado il rapporto di scambio (se non di simbiosi) fra coloro che ne erano portatori e la modernità. L'A. nota che tutto questo non comportò miglioramenti per le condizioni di vita "ai limiti dell'abiezione" imposte alla numerosissima popolazione ebraica dell'impero russo -le cui condizioni precipitarono nel 1881 con l'assassinio di Alessandro II- che poté sottrarsi solo emigrando a una situazione senza altre prospettive. Vercelli valuta in circa settantamila persone (su oltre due milioni e mezzo di emigranti) che fra il 1880 e il 1915 si trasferirono in Palestina mosse dagli ideali del sionismo politico di Theodor Herzl e Max Nordau, che proponeva la costruzione di uno stato sovrano -su modello di quelli andati consolidandosi in Europa nel corso del XIX secolo- come risposta diretta e definitiva ai problemi contemporanei. Vercelli nota che le personalità di spicco del futuro stato sionista, nate per lo più in Ucraina e in Bielorussia, provenienti da ambienti culturali stimolanti e propensi a svalutare la diaspora come segno di incapacità di influire sul proprio destino, erano già in Palestina nel 1915. Il lavoro agricolo di gruppo e la lingua ebraica vennero considerati base dell'emancipazione politica. L'A. ripercorre i primi passi dello yishuv, l'insediamento che il sionismo dotò progressivamente di un complesso di strutture permanenti di tipo residenziale, sociale, economico e infine politico legittimato nel 1917 dalla Dichiarazione Balfour e dal suo riconoscimento del diritto a una national home ebraica in Palestina. L'idea di ricomporre tutte le comunità ebraiche in un'unica società non trovò consensi unanimi. Le componenti religiose attendevano il superamento della diaspora con l'arrivo del messia, i laici temevano che inseguire idee visionarie in una terra agra e lontana si sarebbe tradotto più che altro in una brusca interruzione del processo di emancipazione avviato da tempo in Europa occidentale. Vercelli sottolinea come durante la prima guerra mondiale il Regno Unito avesse promesso sia agli arabi che agli ebrei la stessa cosa, ovvero la creazione di uno stato nazionale sulla stessa terra. Diventato potenza mandataria dell'amministrazione in Palestina il Regno Unito espresse per i successivi venti anni in documenti ufficiali una politica di contrasto dell'immigrazione ebraica. Senza esito. Stanti i crescenti attriti con la popolazione araba e le sollevazioni contro gli insediamenti ebraici, la Palestina divenne un problema di ordine pubblico cui i britannici rispondevano solo con la forza.
Vercelli afferma che tratti distintivi dello yishuv erano l'immigrazione di massa e la costruzione di una comunità dotata di risorse proprie e in grado di autosostenersi: una rottura netta col quietismo del conservatorismo religioso. Dopo il congresso di Basilea del 1897 il sionismo si mosse su un doppio binario accostando il sostegno politico, la raccolta di fondi e la promozione dell'ideale sionista nel mondo alla costruzione dell'insediamento in Palestina. Nel 1921 uno esecutivo sionista palestinese iniziò a funzionare come governo de facto. Dal 1929 fu inglobato -insieme al Consiglio nazionale ebraico eletto dai delegati dello yishuv- dalla Agenzia ebraica, ente di diritto privato previsto dal mandato britannico e incaricato di tenere i rapporti con il Regno Unito. Accanto ai cenni sulle istituzioni sioniste Vercelli rileva l'importanza dell'acquisto dei terreni come "elemento fondamentale della strategia di colonizzazione" finanziato dal Fondo nazionale ebraico e dal Fondo per la ricostruzione, e nota come il criterio dello avoda ivrìt, il "lavoro ebraico", venisse adottato per regolare l'immissione degli immigrati nelle attività e per creare un circuito economico separato completamente autonomo da quello arabo. Alla sindacalizzazione e all'assistenza dei lavoratori ebrei provvedeva la Histadrut. In pochi anni l'economia ebraica crebbe, quella araba venne progressivamente marginalizzata. Lo stesso successe ai rispettivi redditi. La Haganah, nata come coordinamento per l'autodifesa, in pochi anni divenne una struttura clandestina "in grado di colpire gli avversari", con servizi di informazione propri e la capacità di produrre armi. La destra se ne scisse nel 1931 fondando lo Irgun Zvai Leumi e rimanendo ai margini della vita politica per molti decenni.
Dopo la seconda guerra mondiale le ostilità tra arabi ed ebrei diventarono guerra aperta, con i britannici sotto tiro incrociato. La leadership sionista -scrive Vercelli- condannava ufficialmente il terrorismo ma lo Irgun e il Lohamei Herut Israel -detto Banda Stern- si produssero comunque in una serie di attentati contro autorità e truppe britanniche; i più rilevanti la distruzione del comando inglese in Palestina ospitato allo hotel King David di Gerusalemme e l'assassinio del mediatore dell'ONU conte Bernadotte.
Vercelli nota come la risoluzione 181 del 1947 con cui l'ONU sanciva a maggioranza assoluta la "soluzione dei due stati" venne accolta con molti dubbi anche dalle autorità sioniste e che il Dipartimento di Stato statunitense aveva consigliato di mettere tutta la Palestina sotto tutela delle Nazioni Unite, rinviando o bloccando la sua divisione. L'esecutivo sionista del Direttorio del Popolo si espresse per l'indipendenza con uno stretto margine, e il primo conflitto scoppiò formalmente a poche ore dalla dichiarazione di indipendenza il 15 maggio 1948 a causa del netto rifiuto della spartizione da parte di tutti i paesi confinanti -ciascuno dei quali perseguiva obiettivi propri, cosa che riuscì infine solo al Regno di Giordania- e dall'errata valutazione delle capacità di resistenza di uno stato sionista appena nato ma in cui era diffusa la convinzione di essere arrivati allo scontro finale. Vercelli specifica che gli scontri erano in atto da mesi e che aiuti militari dalla Cecoslovacchia avevano permesso alla Haganah di consolidare guadagni territoriali e di passare all'offensiva arrivando al 14 maggio col controllo di "una parte importante del territorio". Diventate Tsahal, Tsva Haganah Le-Israel, le forze armate sioniste mantennero quasi sempre l'iniziativa anche grazie al rilevante aiuto sovietico. Alla fine delle ostilità nel 1949 le linee di armistizio segnavano l'ampliamento dello stato sionista per oltre quattromila chilometri quadrati. Per la popolazione araba fu la nakba, la catastrofe. Vercelli consente di valutare in circa cinquecentoquatantacinquemila persone i profughi che dal 1947 al 1949 lasciarono i territori del nuovo stato sionista, e fornisce dati sulla contemporanea espulsione degli ebrei da territori compresi fra il Marocco e l'Iraq. Secondo i dati riferiti dal libro si trattava di circa ottocentocinquantaseimila persone. Per espulsione o per abbandono volontario dopo che le varie autorità ebbero accolto il sentimento antiebraico sempre più acceso trasformandolo in legislazioni punitive o restrittive, al 1954 seicentomila di esse si erano trasferite nello stato sionista, altre duecentomila negli USA o in Europa. Vercelli tratta anche dell'arrivo di decine di migliaia di ebrei per lo più sefarditi dallo Yemen, dall'Iran, dall'Afghanistan, dal Pakistan e dalla Turchia. In pochi anni la popolazione dello stato sionista raddoppiò arrivando a quasi un milione e mezzo di persone perché l'immigrazione in massa vi venne considerata una soluzione di riequilibrio rispetto al problema dei palestinesi, incrementava la percentuale di popolazione ebraica, forniva mano d'opera a basso costo e aiutava a popolare aree di rilevanza strategica, soprattutto sui confini.
Il libro tratta la questione della geopolitica postbellica; consapevole della propria fragilità anche se vittorioso sul campo, lo stato sionista era comunque circondato da paesi dichiaratamente propensi a distruggerlo e fino al 1952 tenne una politica estera di non allineamento, gradatamente abbandonata a fronte dell'importante sostegno ricevuto sul piano diplomatico e militare dagli USA e dell'aumento dell'influenza sovietica in Egitto.
Il secondo capitolo del testo considera la costruzione dell'economia e della società nello stato sionista fino al 1955, indicandone i problemi strutturali -che tutt'oggi persistono- nell'immigrazione e nella militarizzazione. L'immigrazione comportò la disponibilità di forza lavoro per lo più priva di formazione adeguata ed estranea alla realtà locale, in un paese privo di risorse naturali e la cui economia dipendeva ancora molto dagli aiuti esterni. Vercelli descrive le vicende economiche dei primi anni di esistenza dello stato sionista e nel loro alternarsi di austerità e di "nuova politica economica", sottolinea il ruolo fondamentale degli USA e del loro sostegno economico e militare fin dal 1949 -anche se fino al 1967 i maggiori fornitori di armi rimasero la Francia e la Germania Occidentale e illustra come all'accettazione di risarcimenti dalla Germania per lo sterminio lo stato sionista giunse solo dopo aspri confronti al proprio interno. Il complesso di misure adottate fece crescere per vent'anni l'economia dello stato sionista, anche se per molto tempo un quinto delle importazioni continuò a essere finanziato con l'aiuto statunitense. I kibbutzim nati per la messa in pratica del collettivismo socioeconomico -ed esperienza unica nel loro genere- vengono definiti nel libro "isole di socialismo realizzato in un contesto capitalistico" senza tacerne le oggettive difficoltà derivanti dalle "discrasie organizzative interne" e dal dover tenere il passo con un'economia sostanzialmente di mercato. Vercelli considera anche l'importanza sociale ed economica della Histadrut, al tempo stesso sindacato e organizzazione cooperativa e assistenziale cui nel tempo arriva a essere iscritta quasi un terzo della popolazione.
Vercelli identifica gli assi portanti del sionismo nell'ideologia socialista e nel nazionalismo ottocentesco, che si traducono nella costituzione di un'identità attraverso il lavoro collettivo e l'autogestione, destinati nel loro complesso a sfociare nella costruzione di uno stato. Ne deriverebbe un ethos caratteristico, definito come "spirito sabra": nella definizione di Claude Klein il sabra -fico d'India, alla lettera- nato nello stato sinonista rifiuta molti tratti dell'ebraismo perché considerati diasporici, dalla religione all'intellettualismo fino al vestire meno che spartano: "è un patriota, un soldato di élite, che parla poco delle sue imprese militari". Il libro spiega come l'elemento più significativo per la costruzione di una identità propria sia stato introiettato nella legislazione fin dal 1950. La Hok Havshvut, "legge del ritorno", formalizza il diritto di ogni ebreo "a venire nel suo paese come oleh". La norma riconosce gli ebrei come popolo disperso, il diritto per gli ebrei di risiedere stabilmente nello stato sionista, l'identificazione dello stato sionista come "paese degli ebrei" per antonomasia, la qualifica di olìm di quanti vi "tornino" esercitando in questo modo un diritto ancestrale. Se la legge ha mantenuto maggioritaria nel tempo la componente ebraica della popolazione ma ha adottato e modificato nel corso del tempo una definizione giuridica di appartenenza all'ebraismo oggetto di critiche di vario genere, e di ingerenze delle autorità religiose nel campo di competenza delle autorità civili. Vercelli sottolinea che gli equivoci e le interpretazioni più o meno estese o arbitrarie del concetto di ebraismo hanno avuto e hanno conseguenze rilevanti, e che i protagonisti principali della contesa sono le correnti di pensiero che assegnano supremazia alla religione e quelle che intendono lo stato sionista come un'entità laica. Le prime considerano lo stato sionista la ricostruzione di Eretz Israel secondo la tradizione e il dettato biblico, le seconde la ricomposizione ancora non conclusa di una diaspora. In concreto lo stato sionista è un crogiolo etnico con pochi paragoni al mondo e in cui sono ebrei la maggior parte degli abitanti. Una maggioranza che presenta grossi scollamenti fra convincimenti e pratiche propriamente religiose da una parte e rispetto delle consuetudini dall'altra, dato che si riflette nella formazione degli esecutivi, nell'agenda dei partiti politici e anche nell'assetto delle istituzioni. In particolare "l'’assenza di una Costituzione scritta [...] è quindi anche e soprattutto il risultato del secco rifiuto opposto dai partiti religiosi, i quali obiettarono da subito che un documento di tale natura non avrebbe potuto chiaramente esprimere il carattere del popolo ebraico e del suo Stato". L'ebraismo si fonda sul rigoroso rispetto dei precetti: l'esistenza di un ministero degli affari religiosi e l'esistenza di corti rabbiniche cui è assegnata la giurisdizione su determinate materie civili come il matrimonio e il divorzio fecero sì che fin dalla fondazione l'incidenza di certe decisioni travalicasse il campo dei convincimenti e interessasse la condotta pubblica dei cittadini. Vercelli riporta che la maggioranza della popolazione ebraica si è sempre comportata secondo i criteri della non osservanza, che gli osservanti hanno sempre manifestato tendenza all'isolamento conservando le proprie abitudini in ambienti separati come certi quartieri di Gerusalemme, e che la questione dei finanziamenti pubblici alle attività religiose è sempre stata oggetto di divisioni a tutt'oggi persistenti. La conflittualità si riflette anche sull'organizzazione del sistema scolastico. L'A. tratta anche di come il dipartimento ministeriale per le questioni islamiche riorganizzò e finanziò la vita delle comunità rimaste senza istituzioni dopo il 1948, sottolineando come per la prima volta nella storia fosse toccato agli ebrei organizzare la vita religiosa dei musulmani. Secondo Vercelli, fatti salvi gli attriti dovuti alle circostanze l'adattamento dei musulmani sarebbe stato "relativamente agevole" almeno fino al 1967: la legge dello stato sionista fissò regole inderogabili in determinati ambiti (divieto della poligamia e di sposarsi prima dei 17 anni per le donne, istruzione primaria obbligatoria, regolamentazione del divorzio) e definì quelli di pertinenza delle corti religiose; consentì il finanziamento delle attività religiose tramite l'amministrazione di fondi stanziati dalla legge sulla custodia della "proprietà assente", che "regolava la destinazione di beni e terre abbandonate dagli originari proprietari arabi". Secondo Vercelli, nell'organizzazione delle forze armate David Ben Gurion avrebbe cercato di evitare sia i rischi connessi a un esercito professionale sia l'eccessiva politicizzazione dei reparti, facendo dell'esercito una sede di socializzazione e di integrazione per gli immigrati connessa anche con il mondo del lavoro e dell'economia. La leva obbligatoria per ebrei e drusi di entrambi i sessi, con richiami periodici dopo il congedo e un relativamente poco numeroso gruppo di ufficiali di professione è a tutt'oggi robustamente connessa al mondo produttivo, particolare che sarebbe alla base degli elevati livelli dell'industria militare e tecnologica dello stato sionista. Componente imprescindibile della società, i militari "non sono mai stati una realtà da essa separabile, dipendendo in tutto e per tutto dai poteri civili, di cui sono considerati diretta emanazione". Il servizio militare è facoltativo per beduini e circassi, volontario per i musulmani non beduini e per i cristiani. La dottrina militare di Tsahal risente dei confini incerti e della perdurante ostilità dei paesi confinanti ed è centrata "sui presupposti della prevenzione e dell'anticipazione delle mosse degli avversari". Lo stato sionista "non può permettersi di perdere nessuna guerra poiché una sconfitta militare comporterebbe un risultato catastrofico per l'intero paese, data la sua conformazione geografica.
Stante l'assenza di una costituzione, lo stato sionista si è dato nel corso dei decenni una serie di Leggi Fondamentali che inquadrano le più importanti materie di pertinenza pubblica: parlamento, terre demaniali, presidenza dello stato, governo, bilancio, forze armate, Gerusalemme capitale, sistema giudizario, controllore dello stato, libertà di occupazione e dignità e libertà della persona; si avrebbe il caso di un paese che "non ha costituzione ma possiede un sistema e un diritto di natura costituzionale". Lo stato sionista è una repubblica parlamentare con parlamento monocamerale eletto col proporzionale, in cui l'esecutivo è stato spesso presieduto da figure carismatiche capaci di imporre decisioni di governo anche in contrapposizione all'assemblea. Vercelli si sofferma sulla figura del "controllore di stato", revisore dei conti pubblici e ombudsman che risponde del proprio operato solo al parlamento, e sull'importanza della Corte Suprema. Dominato per i primi trent'anni dal partito laburista, il sistema partitico riflette la polarizzazione di posizioni che hanno connotato la vita e l'evoluzione del paese e l'A. lo descrive come il riflesso di un dibattito politico sempre vivo nel corpo sociale e soprattutto del variare degli umori politici, molto condizionato dai flussi migratori.
Il terzo capitolo espone le vicende comprese fra il 1956 e il 1972, iniziando col riassunto di una storia economica in cui si ebbero un ridimensionamento dell'intervento pubblico, la realizzazione di infrastrutture e -dal 1967- l'integrazione dell'economia di Gaza e della Cisgiordania, per una crescita a ritmi del 10% annuo interrotta solo dalla crisi petrolifera del 1973. La crisi di Suez nel 1956 viene ritratta come contesto per la messa in pratica della dottrina militare sionista: l'intervento militare francobritannico portò all'occupazione temporanea del Sinai e di Gaza da parte di Tsahal, dopo anni di scontri di confine, su ordine di un esecutivo deciso a rispondere seccamente alle provocazioni. Negli stessi anni, scrive Vercelli, andò aggravandosi il destino dei rifugiati palestinesi nei paesi confinanti, mentre quelli rimasti nello stato sionista -soggetti a leggi penalizzanti della libertà personale fino al 1966- iniziarono un lungo e difficile percorso di integrazione, scontrandosi con la cultura occidentale di cui la società sionista era espressione e trasformandosi in proletariato industriale, visto anche l'impatto della legge sulla "proprietà assente" del 1950 che confiscò e assegnò nel 1953 al demanio immobili e terreni abbandonati nel 1948. L'A. nota che nonostante i buoni propositi della dichiarazione di indipendenza, lo stato sionista per vari decenni non si dotò di strumenti necessari a una politica di integrazione della componente non ebraica della popolazione. Di qui disparità di trattamento e discriminazione di fatto cui dopo il 1967 la popolazione araba reagì mostrando maggiore consapevolezza dei propri diritti anche grazie all'ascesa dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Vercelli nota come il voto arabo sia stato determinante in più di una consultazione e come la popolazione araba, oggi circa il 20% di quella totale, stia aumentando.
Il testo riassume le vicende successive al 1956 con l'ascesa dell'OLP e l'insediarsi di esecutivi ostili in Siria e in Iraq con relativo e perdurante clima di guerriglia a bassa intensità, rinfocolato anche da una "guerra per l'acqua" attorno al Giordano di cui lo stato sionista voleva deviare il corso. Quando nel 1967 il presidente egiziano Nasser iniziò quella che il libro chiama "fuga in avanti" chiamando i paesi vicini contro lo stato sionista, gli USA diedero il benestare per un'altra "azione preventiva". La "guerra dei sei giorni" delineò un quadro geopolitico completamente diverso in cui l'iniziativa militare sionista aveva decimato il potenziale bellico degli avversari e occupato territori grandi oltre tre volte quello controllato in precedenza, causando l'esodo di altre duecentomila persone. Vercelli descrive l'ondata di euforia successiva a una vittoria schiacciante sul piano militare, politico e anche simbolico perché aveva portato all'occupazione di territori ritenuti da molti "patria dei padri e della tradizione"; indica anche nell'esecutivo d'emergenza formatosi in quelle circostanze l'inizio della legittimazione politica per la destra che era rimasta marginale dal 1948 e che dal 1977 in poi avrebbe invece rappresentato la maggioranza nel paese. Fra le conseguenze della vittoria si sottolinea lo stabile inserimento nell'agenda politica del tema dello spazio fisico dello stato sionista e della sua espansione, di volta in volta coniugato secondo i criteri della sicurezza dello stato o secondo il messianismo tipico di alcune istanze ideologiche e culturali. Il fenomeno degli "insediamenti ebraici" nacque in questo contesto; dal 1990 in poi sarebbe diventato una delle questioni dirimenti in ogni trattativa di pace. Vercelli nota che la "indeterminazione" su cosa fare dei territori occupati e del milione e duecentomila arabi che ci vivevano "andò trasformandosi in un pericoloso stallo politico" visto che i governi laburisti fino al 1977 "decisero di non decidere" creando però oltre quaranta "punti di popolamento" su cui si basò l'affermazione del "movimento dei coloni", destinato a diventare un protagonista importante dello scenario politico. Vercelli cita il rovesciamento dell'immagine internazionale dello stato sionista, cui si iniziò a contestare l'unilateralismo sulle questioni territoriali, la politica annessionista su Gerusalemme Est e il trattamento riservato alle popolazioni palestinesi "sottoposte ai vincoli e alle limitazioni di un regime di occupazione". Lo stato sionista "perse l'aura di vittima e divenne un paese 'conquistatore'". Nella diaspora lo stato sionista iniziò a essere percepito come un patrimonio da preservare, un esistente da difendere; i paesi arabi adottarono la dottrina dei tre no: no alla pace, no al suo riconoscimento, no a negoziati.
Il testo descrive la nascita nel 1974 del Gush emunim, il "blocco dei fedeli" favorevole all'organizzazione stabile di insediamenti nei terrritori occupati lasciati fino a quel momento all'iniziativa di singoli. Pur delegando un partito religioso di rappresentarlo alla Knesset, il messianico Gush emunim è rimaso extraparlamentare e ha potuto muoversi senza tenere conto del giudizio degli elettori costituendo e ampliando insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza. Vercelli indica come gli aderenti al "blocco dei fedeli" unissero il recupero della centralità della religione nella vita quotidiana anche pubblica ad una "estrema adattabilità" agli imperativi della modernità: "torah e jeans, kippà e computer"; i loro insediamenti presero col tempo forma di municipalità a se stanti rigorosamente separate dal circostante ambiente palestinese e destinate ad avere carattere permanente a eccezione di quelle sul Sinai (restituito nel 1982) e a Gaza. Vercelli ricorda le vicende della guerra a bassa intensità con l'Egitto e il ruolo dell'OLP nell'organizzazione di una lotta clandestina dal forte impatto anche mediatico: dirottamenti, raid di commandos, rapimenti e assassinii portati avanti per logorare lo stato sionista senza arrivare allo scontro aperto e per imporre ai media la situazione dei profughi palestinesi. Caso emblematico, quello della rappresentanza alle olimpiadi di Monaco nel 1972. L'A. illustra gli avvenimenti della guerra del Kippur, in cui lo stato sionista vacillò sotto l'iniziale attacco dall'Egitto e dalla Siria salvo riprendersi soprattutto grazie agli aiuti statunitensi. I paesi arabi -molti dei quali avevano fornito assistenza dietro le quinte- non prevalsero sul terreno ma confutarono la inattaccabilità dello stato sionista e si vendicarono della sua vittoria militare con la crisi petrolifera. Sul piano interno il senso di insicurezza divenne preponderante tra la popolazione, mentre in politica si coagularono due schieramenti. La destra, convinta che con chi non riconosceva lo stato sionista non potesse esservi altro rapporto che la forza e che le rivendicazioni palestinesi non fossero solo inaccettabili ma anche prive di fondamento: "i palestinesi come popolo non esistevano, trattandosi semmai di un'appendice dei paesi arabi già esistenti". La sinistra propendeva invece per le trattative, che peraltro avrebbero implicato la ricerca di interlocutori fra avversari che non riconoscevano lo stato sionista come soggetto politico, ma come una "entità" destinata prima o poi a scomparire. La sconfitta della sinistra ad opera della "Coalizione", il Likud, nel 1977 viene ascritta da Vercelli a motivazioni economiche, anche se si verificò un massiccio travaso di voti dalla sinistra alla destra da parte dei sefarditi; la frattura tra sinistra e destra si sovrapponeva a quella tra occidentali e orientali e si inseriva nel contesto dell'affermarsi del liberismo. Nello stato sionista il Likud aggredì alla radice il potere e il radicamento economico dello Histadrut inveendo contro lo "statalismo" laburista, il prelievo fiscale e le inefficienze dell'amministrazione. L'A. specifica che le drastiche liberalizzazioni intraprese fecero impennnare l'inflazione e il debito, minacciando la credibilità finanziaria del paese. Se con gli accordi di Camp David del 1978 -approdo finale di anni di trattative con la mediazione degli USA e dell'ONU- il Sinai fu restituito a un Egitto che riconobbe finalmente lo stato sionista, per il resto il governo di Menachem Begin si dimostrò fedele alle indicazioni espresse dalla destra di Ze’ev Jabotinsky negli anni Trenta: la "integrità dello Stato ebraico" era intesa come continuità territoriale comprendente le due rive del Giordano [...] Begin era abituato a rispondere che permettendo l’esistenza della Transgiordania, considerato politicamente ed etnicamente uno Stato palestinese ma storicamente ebraico, gli ebrei avevano già concesso il 74% della 'loro terra'". In questo, il Likud fece propria la spinta ideologica dei gruppi religiosi propendenti per una concezione messianica della politica.
Il tema del "carattere sabra" è ripreso da Vercelli per constatare come la fusione in esso di comportamenti e abitudini di vita diversi -quelli degli ebrei askenaziti europei e di quelli sefarditi del Medio Oriente innanzitutto- non sia verificata. All'interno del paese anzi "sussistono più enclave e gruppi sociali molto diversi tra di loro": le istituzioni erano state costruite da immigrati per lo più europei senza prevedere il fenomeno dell'immigrazione sefardita, che col suo "carico di tradizioni e atteggiamenti estranei alla cultura occidentale" venne considerata "uno sgradevole retaggio del passato" oggetto spesso di emarginazione e rifiuto che ebbero in risposta fenomeni extraparlamentari sul calco delle Black Panthers. La demografia e le guerre hanno decretato il ribaltamento degli equilibri, ma a tutt'oggi il reddito e il livello di istruzione dei sefarditi sono più bassi; il movimento pacifista Shalom Akhshav, contrario alla politica degli insediamenti e favorevole al ritiro dai territori occupati, anni dopo avrebbe rispecchiato la stessa spaccatura trovando consensi fra la classe media e gli ambienti universitari e una ferma contrarietà presso i meno abbienti.
Il quinto capitolo descrive le vicende del conflitto con i palestinesi negli anni fra il 1982 e il 1994 a partire dagli avvenimenti che avevano portato l'OLP a insediare i propri combattenti nel sud del Libano, la Siria a raccogliere -anche per motivi di prestigio- il testimone dell'antisionismo intransigente e lo stato sionista a creare una zona cuscinetto a nord dei propri confini affidata a una milizia libanese e a intervenire nella successiva guerra civile per sostenervi le milizie cristiane. La narrazione continua illustrando come lo stato sionista nel 1981 iniziasse a considerare Bashir Jemayel del Fronte Libanese un interlocutore forte anche dal punto di vista istituzionale e il ministro della difesa Ariel Sharon a collaborarvi apertamente con l'idea di distruggere le basi dell'OLP anziché limitarsi alla politica di contenimento fino ad allora seguita. Tre anni di occupazione del Libano portarono solo all'allontanamento dell'OLP dai confini: l'operato di Tsahal non aveva conseguito altri risultati -anzi, di lì a poco nel vuoto di potere creatosi si sarebbe insediato Hezbollah- ed era stato descritto all'opinione pubblica internazionale in termini molto severi. Da tutto il mondo esclusi gli USA arrivavano attestazioni di biasimo mentre sul piano interno veniva pesantemente criticato l'operato di Tsahal -specie per le perdite subite e per la condiscendenza verso i falangisti libanesi- e rilevato il fatto che per la prima volta nel 1982 lo stato sionista era entrato in guerra deliberatamente e non perché obbligato.
Vercelli sottolinea come la "questione palestinese" e la politica sugli insediamenti residenziali siano divenuti parte sostanziale dell'agenda politica dopo gli anni Ottanta. Incontrovertibile è la crescita del numero degli insediamenti, della loro estensione e della loro popolazione. Nel 2007 in Cisgiordania risultavano quasi trecentomila coloni, a Gerusalemme Est circa duecentomila; i coloni sionisti nei territori occupati, si specifica, sono raddoppiati dopo gli accordi di Oslo nel 1993.
Da parte palestinese questo costituisce "il segno incontrovertibile di una volontà di 'colonizzazione' delle terre sulle quali dovebbe sorgere il futuro Stato di Palestina"; senza contare le motivazioni religiose, lo stato sionista usa ribattere che non ha sottoscritto accordi che limitino o impediscano la diffusione di aree residenziali nelle quali siano presenti suoi cittadini e che gli insediamenti sono avamposti militari contro eventuali tentativi di invasione.
La lontananza della leadership palestinese insediatasi a Tunisi e una fratellanza araba che si limitava a manifestazioni di solidarietà politica hanno innescato un processo di autonomizzazione da parte di una popolazione costretta ad affrontare da sola il "difficile rapporto" con l'amministrazione sionista. Vercelli ripercorre la storia della prima Intifada, la "sollevazione" del 1987, che "avanzava istanze non più eludibili ma [...] non offrendo risposte facilmente praticabili" a una situazione di stallo in cui nel 1988 venivano anche meno le pretese di Amman sulla Cisgiordania. L'annessione dei territori, riflette Vercelli, avrebbe stravolto in un paio di generazioni il quadro socioculturale dello stato sionista; ai suoi fautori si contrapponevano i sostenitori del negoziato, inteso più "come atto di necessità politica che non di virtù etica" in un contesto in cui non era più asseribile il "principio dell'inesistenza dei palestinesi in quanto tali, diluiti nel contesto delle comunità nazionali arabe".
Il libro tratta a questo punto dei mutati equilibri politici degli anni dopo il 1984 con l'insediamento di "governi di unità nazionale" in cui Likud e laburisti si accusavano a vicenda dei problemi del paese, delle pesanti misure economiche rese necessarie dall'inflazione e del perdurare dei problemi in politica estera, con l'elemento nuovo dato dalla consapevolezza mostrata da alcuni leader arabi per cui il ricorso alle armi non avrebbe piegato uno stato sionista che non smentiva di possedere armi nucleari. Vercelli nota come con la situazione venutasi a creare con la guerra del 1991 che mise in luce la cronicità dei problemi della regione, dai profughi alle disuguaglianze, dai rischi ambientali al problema idrico, si fece strada in tutti gli interlocutori che non si potessero dare risposte a tutto questo escludendo a priori lo stato sionista. Il testo ripercorre la storia dei colloqui iniziati a Madrid nello stesso 1991 nonostante il presentarsi di almeno due ordini di problemi: l'ascesa nei territori occupati di Hamas e del Jihad Islamico a ostacolare ogni ipotesi di compromesso, e un massiccio flusso nello stato sionista di immigrati dalla ex URSS; si trattava per lo più mano d'opera qualificata mossa da motivazioni economiche, che finì con gli anni per spostare a destra l'orientamento politico del paese.
Nel 1993 l'OLP e lo stato sionista -ma non il Libano e la Siria, con cui i contrasti rimasero- siglarono infine un accordo che prevedeva da una parte il riconoscimento dello stato sionista e la fine del ricorso alle armi da parte dell'OLP, dall'altra la concessione di un parziale autogoverno dei territori occupati ma non il totale ritiro di Tsahal e neppure la restituzione di Gerusalemme Est o l'abbandono degli insediamenti. Gli accordi Oslo I nel 1994 definirono l'autonomia di Gaza e Gerico, gli accordi Oslo II la definizione di un quadro politico palestinese nel cui contesto procedere al trasferimento del controllo delle funzioni civili per i centri più popolosi della Cisgiordania.
Il sesto capitolo del libro inizia con l'esposizione dei fatti inerenti l'assassinio di Yitzhak Rabin, avvenuto nel 1995 per mano di un simpatizzante della stessa destra religiosa extraparlamentare cui faceva riferimento l'autore della strage di Hebron avvenuta l'anno prima. Vercelli considera che l'episodio "oltre a far emergere la presenza di questo piccolo continente di rabbiosi avversari delle istituzioni democratiche, rivelò anche lo stato di profonda tensione nel quale era collassato il confronto politico", con il Likud che accusava i laburisti di aver ceduto alle richieste dei palestinesi tradendo il dettato sionista e facendo passare gli accordi grazie al voto dei deputati arabi. "Il processo di pace, obiettavano leader come Benjamin Netanyahu e Ariel Sharon, non avrebbe dovuto portare alla costituzione di un altro Stato arabo in terre che erano storicamente appartenute agli ebrei". La destra del "pace in cambio di pace" si era contrapposta alla sinistra del "pace in cambio di terra" propagandando istericamente le proprie istanze, arrivando a raffigurare come nazionalsocialisti il laburista Shimon Peres e lo stesso Rabin, e capitalizzò il risultato nel 1996 quando vinse di misura in un quadro normativo che stabiliva per la prima volta l'elezione diretta del primo ministro secondo il principio del premierato. Una legge elettorale che alle elezioni successive costrinse il premier eletto Ehud Barak a varare un'ampia coalizione prima di riprendere negoziati con i palestinesi destinati al fallimento, e a intraprendere il ritiro di Tsahal dal Libano meridionale sotto pressione dell'opinione pubblica solo per veder sbandare le milizie filiosioniste, che furono sostituite da quelle di Hezbollah.
Vercelli descrive l'ascesa del fenomeno dell'Islam militante nelle formazioni di Hezbollah e di Hamas, iniziato alla fine degli anni Ottanta e capace di ottenere ampio consenso in Libano e a Gaza. Specifica che prima della politicizzazione estrema avvenuta con lo sceicco Yassin, lo stato sionista del governo Begin aveva riconosciuto Hamas come ente con finalità sociali e religiose, pensandola un contrappeso all'egemonia dell'OLP.
Nel 2000 Ariel Sharon visitò la spianata delle Moschee a Gerusalemme, probabilmente "per dimostrare al suo elettorato di essere in grado di imporsi anche nei confronti della controparte araba". Un atto che fu il casus belli per la Intifada al Aqsa, di cui Vercelli nota i tratti marcatamente radicali di una sollevazione meditata da tempo a fronte della crisi di credibilità dell'OLP, e che vide un ampio fronte di organizzazioni combattenti strutturate fare ricorso agli attentati suicidi e ad armi pesanti. Alla reazione militare lo stato sionista ha associato la pratica degli omicidi mirati, della distruzione delle abitazioni dei congiunti dei combattenti irregolari e della "detenzione amministrativa" dei palestinesi in assenza di capi di accusa precisi. "Ancora una volta ci si è posti il problema di quale sia il confine, a volte molto tenue, tra la legittima autodifesa e la violazione dei diritti umani", conclude l'autore prima di affrontare la questione del geder ha'hafrada, il muro lungo settecento chilometri e alto otto metri costruito per separare fisicamente lo stato sionista dai territori occupati.
Vercelli prosegue ricordando come dopo il 2001 la minaccia dei combattenti irregolari sia cambiata perché lo stato sionista si trova avanti a un problema di cui è cambiata la natura. Organizzazioni come al Qaeda operano senza radicamento territoriale cambiando modi e forma e non ammettono mediazioni, demonizzando lo stato sionista come tale sulla base di temi cari all'antisemitismo novecentesco. Un orientamento ideologico che sarebbe stato fatto proprio anche dal presidente della Repubblica Islamica dell'Iran Mahmoud Ahmadinejad, delle cui intenzioni nucleari Vercelli si dice convinto. Dopo il 2001 l'esistenza dello stato sionista non sarebbe a rischio a causa delle minacce dirette da parte dei vicini, ma a causa di iniziative che sono innanzitutto ideologiche: agli oppressi, lo stato sionista viene indicato come "Satana" al pari degli USA.
Vercelli considera i mutamenti intervenuti nel XXI secolo nell'economia dello stato sionista: telecomunicazioni, informatica, elettronica, biotecnolgie, armamenti e tutto quanto ha a che fare con l'innovazione applicata, per una popolazione in cui un cittadino su quattro è laureato: "lo scarto con i circostanti paesi arabi è gigantesco e, per questi ultimi, incolmabile". I nuovi immigrati non ebrei dall'Europa orientale si sarebbero inseriti alla base della piramide sociale sostituendo i palestinesi; al vertice una élite che fa capo alla buova borghesia globalizzata. La linea politica del Likud e di Benjamin Netanyahu è quella di rapportare e raccordare l'economia dello stato sionista a quella dei paesi avanzati, saltando il contesto regionale con cui l'interscambio è pressoché nullo. Questo non incide sul permanere di problemi come la mancanza di materie prime (acqua compresa) e il pesante deficit della bilancia dei pagamenti.
Vercelli indica nell'astensionismo -altissimo soprattutto nell'elettorato arabo- uno dei motivi dell'ascesa di Ariel Sharon. Nonostante l'esistenza di una road map avanzata da USA, Russia, UE e ONU e basata su un processo per la costituzione di uno stato palestinese e sull'adozione del principio "terra in cambio di pace" la politica della destra presuppone l'assenza di interlocutori palestinesi credibili, prosegue con la costruzione del muro e smantella gli insediamenti da Gaza nel 2005, consolidando i confini dello stato sionista e facendolo disimpegnare dalle situazioni insostenibili. In pochi anni i contraccolpi elettorali causati dalle scelte di Sharon provocano scissioni centriste tanto nel Likud che fra i laburisti, con la nascita di Kadima, partito di maggioranza relativa sotto il cui governo lo stato sionista aggredisce il Libano nel 2006, dopo una lunga serie di provocazioni da parte di Hezbollah che il testo presenta come aspetti del "problema strutturale del rapporto con un vicino così scomodo" e di cui il governo Olmert considera corresponsabile il governo libanese. Il risultato delle ostilità viene definito eufemisticamente "deludente" e una commissione di inchiesta di poco successiva parlò di "fallimento" dovuto non solo alla "grave superficialità" dei vertici dello stato sionista ma anche e soprattutto di perdita di quel "vantaggio militare qualitativo" che è un assunto fondamentale di Tsahal. Vercelli conclude che senza un serio contrasto all'ingiustizia sociale che caratterizza le società mediorientali la risposta militare sarà sempre meno in grado di portare a risultati. La vittoria di Hamas a Gaza e il confinamento di al Fatah alla Cisgiordania nello stesso anno fanno scegliere allo stato sionista di avviare trattative di pace solo con quest'ultima, aprendo la strada all'isolamento internazionale di Gaza, dichiarata "entità nemica" nel 2007, da allora sottoposta al rafforzamento delle misure di separazione e condannata "alla più completa marginalità economica", a meno che Hamas non rinunci alla lotta armata, riconosca il diritto all'esistenza dello stato sionista e si impegni a un processo di pace su modello degli accordi di Oslo. Condizioni che toglierebbero a Hamas la stessa ragione di essere.
Il capitolo si chiude con un riepilogo che descrive la società e la demografia dello stato sionista, con il progressivo aumento della popolazione non ebrea, e dinamiche demografiche da paese avanzato costretto ad affrontare a tutt'oggi la mancata legittimazione e uno stato di permanente insicurezza. Elementi da cui discendono gravi limitazioni delle libertà collettive e "una secca riduzione della qualità della vita di tutti". Una situazione che peggiora tenendo conto del tasso di incremento della popolazione dei paesi confinanti e con la contesa per le risorse idriche, e delle dinamiche di una globalizzazione che impone la porosità a quegli stessi confini ancora centrali nell'agenda politica.
Il settimo capitolo conclude la trattazione con una esposizione sul tema dell'identità dello stato sionista e delle sue componenti pionieristica e laica. Il 1967 avrebbe contribuito alla trasformazione dell'impresa sionista: dal tentativo di costruzione di uno stato per gli ebrei, sarebbe diventata l'edificazione dello stato ebraico, con i tratti di un eccezionalismo a fondamento biblico analoghi a quelli dell'ideologia statunitense. I coloni farebbero dell'ebraicità una bandiera, omettendo gli aspetti di equità, di giustizia e di rispetto per gli altri che sarebbero stati propri del moderno sionismo politico. Il modo laico di declinare l'identità collettiva, frutto dell'affermazione di stili di vita individualisti, liberali e occidentali, è quello disincantato definito "post sionismo"; la sua rivendicazione di normalità rifiuterebbe la specificità ebraica. Un esito non sorprendente se davvero una delle promesse del sionismo era quella di fare degli ebrei "un popolo come gli altri". La secolarizzazione ha originato una società in cui europei e statunitensi possono identificarsi facilmente, ma che presenta "una sorta di surplus sentimentale" che può trasformarsi "in una deformante adesione ideologica" o in un "non meno aprioristico rifiuto fondato sul pregiudizio". Fuori dal contesto occidentale lo stato sionista non suscita alcun effetto di rispecchiamento, anzi leva una ostilità che si fa preconcetta tanto più si misurano i risultati raggiunti dal paese rispetto allo stallo socioeconomico in cui si trovano loro malgrado le società dei paesi confinanti. Vercelli denuncia il fatto che soprattutto in quei contesti l'antisionismo abbia spesso superato i limiti della critica legittima allo stato sionista, ai suoi fondamenti e alla sua prassi, "per diventare una velenosa dottrina antiebraica".
Nella conclusione Vercelli indica le condizioni di aleatorità in cui si svolge la vita quotidiana nello stato sionista, ed espone i capi di un dibattito storiografico in cui i recenti sviluppi -non certo unanimemente accettati- accusano una narrazione storica densa di mitologia nazionalistico-militare di non aver aiutato la costruzione di una società civile e men che meno la convivenza con i palestinesi. I detrattori dei nuovi orientamenti sottolineano il fatto che le vicende dello stato sionista, che è un soggetto collettivo, non sono diverse da quelle di qualsiasi altra nazione. Laddove la diversità dello stato sionista "costruzione dell'imperialismo" è proprio al centro delle contestazioni di chi nega la sua legittimità.


Claudio Vercelli, Breve storia dello stato di Israele (1948-2008). Carocci, Roma 2008. 166pp.