Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo. Questa prescrizione contenuta nel Talmud babilonese apre il libro di Bergman sui servizi segreti dello stato sionista e sulla loro fitta politica di omicidi mirati, eliminazioni selettive o liquidazioni.
Il libro si basa su fonti primarie, testimonianze dirette e una nutrita bibliografia e ha rivelato alla sua uscita dettagli ancora inediti su una quantità di episodi che hanno visto coinvolti i servizi dello stato sionista.
Le organizzazioni di intelligence più efficienti del mondo sono capiscuola di una pratica che affonda nelle origini attiviste e rivoluzionarie del movimento sionista, nel trauma della distruzione degli ebrei d'Europa e nella sensazione -condivisa sia dai politici che dai cittadini- che lo stato sionista e il suo popolo vivano nel costante pericolo di essere annientati e che nessuno porterebbe loro soccorso se questo rischio dovesse concretizzarsi. Secondo il capo del Mossad Meir Dagan citato nella prefazione una campagna di eliminazioni selettive (effettivamente pianificata, avviata e condotta) sarebbe servita assai meglio di una guerra vera e propria per impedire al piano nucleare della Repubblica Islamica dell'Iran di raggiungere i suoi scopi. Frutto del connubio tra guerriglia e forza militare di una potenza tecnologica, i servizi segreti dello stato sionista hanno creato la macchina da assassinio "più solida e affidabile della storia" i cui occasionali errori hanno solo rafforzato la fama di spietata aggressività.
L'operato del Lohamei Herut Israel, detto sbrigativamente Banda Stern dai britannici che furono i primi a farne le spese, viene presentato da Bergman come direttamente connesso all'esperienza di Yitzhak Ben Zvi e del sionismo pratico, che all'inizio del XX secolo iniziò a distinguersi dal sionismo politico di uno Herzl organizzando l'insediamento e la difesa degli immigrati ebrei in Palestina. I sionisti pratici ritenevano inevitabile una guerra per assumere il controllo della Palestina e nel 1912 disponevano della organizzazione HaShomer, nucleo di un futuro esercito e di un servizio di informazioni ebraici, riorganizzato e ridenominato Haganah nel 1920. Tollerato dai britannici e controllato dall'Agenzia Ebraica e dal sindacato Histadrut, lo Haganah capeggiato da David Ben Gurion praticò attentati e ritorsioni contro la popolazione araba e in un caso eclatante anche contro una personalità haredi attivamente contraria al sionismo. Quando Ben Gurion impose moderazione allo Haganah una scissione capeggiata da Avraham Tehomi diede origine nel 1931 allo Irgun Zvai Leumi, Organizzazione Militare Nazionale, un gruppo armato di estrema destra il cui leader Menachem Begin sarebbe diventato primo ministro dello stato sionista nel 1977. Durante la seconda guerra mondiale dallo Irgun si separarono costituendo la Lehi i contrari all'alleanza antitedesca con il Regno Unito, ferma restando la propensione di ambo i gruppi all'eliminazione mirata dei nemici arabi e britannici e anche degli ebrei considerati pericolosi per la causa. Bergman indica nell'esperienza della Brigata Ebraica inviata dai britannici in Europa un elemento discriminante che rafforzò la combattività dei suoi componenti, che videro gli scampati allo sterminio come esempi di remissività che avevano subito senza resistere, e desrive nei dettagli alcuni dei metodi con cui la sua unità segreta della Gmul attuò nei tre mesi successivi alla fine della guerra centinaia di eliminazioni mirate di personalità nazionalsocialiste prima di organizzare l'invio di rifugiati e di armi verso la Palestina. "Un popolo che vive in permanenza con la sensazione di correre il rischio dell'annientamento, scrive Bergman, "farà ogni cosa, per quanto estrema, pur di ottenere sicurezza, e si conformerà alle leggi e alle norme internazionali in maniera marginale, ammesso che lo faccia"; Ben Gurion e lo Haganah infatti si avvalsero dal 1946 in poi di uccisioni mirate, tecniche di guerriglia e attacchi contro i civili, mostrando come i più considerassero leciti dei mezzi in precedenza tipici della Lehi e dello Irgun. Lo "ordine Zarzir" emanato in previsione di una guerra contro gli arabi e contro i paesi confinanti prevedeva l'assassinio dei capi della popolazione araba della Palestina. Yitzhak Shamir della Lehi invece si segnalò per la eliminazione di varie figure dell'amministrazione britannica e di personalità inglesi che ostacolassero il progetto politico sionista. Dopo l'attentato al centro dell'amministrazione britannica al King David Hotel di Gerusalemme del 22 luglio 1946 -oltre novanta vittime civili- Ben Gurion denuncò l'operato dell'Irgun senza che questo si scoraggiasse. Anzi, la Lehi rincarò la dose distruggendo l'ambasciata britannica a Roma e cercando di eliminare con lettere bomba vari esponenti del governo britannico. Bergman si dice dubbio sulla insostituibilità di queste iniziative per l'indipendenza dello stato sionista; dopo la seconda guerra mondiale l'impero britannico andava comunque riducendosi rapidamente.
Il secondo capitolo ripercorre la nascita di una guerra segreta nel 1947. Dopo il voto dell'ONU per la spartizione della Palestina, ricorda Bergman, le forze palestinesi sotto il comando di Hassan Salameh iniziarono le ostilità arrivando ad attaccare direttamente Tel Aviv. L'A. riporta le contromisure prese da Ben Gurion con l'avvio della operazione Starling, diretta contro i leader dei partiti arabi, contro i centri politici, quelli economici e quelli produttivi. Un insuccesso, scrive Bergman, con l'eccezione dei risultati raggiunti da un "plotone arabo" della milizia Palmach nelle operazioni sotto copertura. La profonda infiltrazione di informatori nei paesi arabi ordinata anni prima da Ben Gurion diede invece un contributo sostanziale alla vittoria dello stato sionista nella guerra del 1948; dopo l'indipendenza, in piena guerra, Ben Gurion ordinò la fondazione di Aman (servizi di intelligence dello stato maggiore), dello Shin Bet (sicurezza interna, detta anche Shabak) e di un dipartimento politico addetto allo spionaggio e alle operazioni all'estero. Bergman descrive le prime operazioni: la repressione dello Irgun e della Lehi -responsabile dell'assassinio del mediatore dell'ONU Bernadotte- e la sorveglianza dei partiti di sinistra e di estrema destra. Nel 1949 Ben Gurion, dopo forti contrasti col ministro degli esteri Moshe Sharett, avocò a sé il dipartimento politico trasformandolo nel Mossad, "Istituto per l'intelligence e le operazioni speciali". Il futuro dello stato sionista secondo Ben Gurion dipendeva "da un esercito e un'intelligence forti più che dalla diplomazia", chiude l'autore specificando che Ben Gurion mantenne tutte e tre le agenzie sotto il proprio controllo diretto -Mossad e Shin Bet in veste di primo ministro, Aman in veste di ministro della difesa- senza che le agenzie avessero una base giuridica che le facesse esistere ufficialmente. I servizi dello stato sionista si svilupparono fin dalla loro fondazione "in un regno delle ombre adiacente alle istituzioni democratiche del paese eppure da esse separato" con tutte le conseguenze del caso, soprattutto quella di poter agire con un buon margine di arbitrio. Il Mossad in particolare ebbe per statuto il compito di proteggere non solo lo stato sionista e i suoi cittadini, ma anche le comunità ebraiche nel mondo. Alcune operazioni finite in altrettanti disastri convinsero il Mossad a non reclutare per quanto possibile ebrei locali per operazioni all'estero, senza che questo minasse la fiducia nelle potenzialità delle operazioni speciali. Bergman specifica che lo stato sionista usa incessantemente i servizi di intelligence, per mettere a segno attacchi delle forze speciali in paesi potenzialmente ostili con l'intento di non arrivare a scontri frontali. Il capitolo si chiude con la narrazione di come, nel 1954, il capo del Mossad Isser Harel abbia reclutato veterani della Lehi e dello Irgun banditi da Ben gurion per formare la Mifratz, la prima squadra d'assalto del Mossad.
In Ufficio appuntamenti con Dio Bergman tratta della guerriglia condotta dai fedayn dopo il 1949 e di come lo stato sionista li contrastò con il non sempre accurato lavoro di intelligence della Unità 504, formata da personale cresciuto in Palestina e ottimo conoscitore della lingua e degli usi locali, e con il non sempre letale lavoro di eliminazione della Unità 188, specializzata in esplosivi. L'A. sottolinea come la carriera di Ariel Scheinerman -meglio noto come Ariel Sharon- sia iniziata in queste circostanze nel 1953 col tentativo di eliminare il capo feday Mustafa Samweli. Un fallimento da cui nacque il corpo di élite Unità 101. Come capo della 101 Sharon, in accordo col capo dello stato maggiore generale Moshe Dayan, iniziò ritorsioni contro villaggi e infrastrutture arabe anziché colpire fedayn di spicco: a tutt'oggi -scrive Bergman- non è dato sapere quanti raid della 101 fossero punitivi e quanti pure provocazioni. Nel caso specifico di Qibya la Unità 101 vendicò tre morti facendo saltare in aria un intero villaggio arabo e uccidendo almeno sessantanove persone, per lo più donne e bambini: le menzogne che Ben Gurion diffuse per coprire l'esistenza stessa della 101 vennero ripetute anche dall'ambasciatore sionista al Consiglio di sicurezza dell'ONU. Bergman scrive che l'Unità 101 venne fusa con la brigata dei paracadutisti e che anche così inquadrati gli uomini di Sharon facevano di loro iniziativa quello che il primo ministro in carica, il moderato Moshe Sharett, tendeva a non condividere. Specie in materia di rappresaglie. Bergman specifica che i vertici dello stato sionista erano consapevoli di essere protagonisti di una iniziativa coloniale e che consideravano ogni aspetto della vita civile subordinato alle esigenze della sicurezza e della sopravvivenza. Nel 1956 fu emesso contro due ufficiali egiziani che organizzavano i fedayn il primo ordine operativo scritto per un omicidio mirato, cui provvide l'Unità 504 dello Aman con due libri riempiti di esplosivo.
Il quarto capitolo inizia illustrando l'operazione Rooster con cui l'Unità 8200 dell'Aman specializzata in segnalazioni operò perché l'aviazione sionista potesse attaccare e distruggere l'aereo che nell'imminenza della crisi di Suez stava riportando da Damasco al Cairo lo stato maggiore dell'esercito egiziano. L'andamento della crisi, col ritiro di Francia e Inghilterra, fece tuttavia dell'Egitto il paese che si era opposto al colonialismo occidentale e del suo presidente Nasser il leader di fatto del mondo arabo. La campagna del Sinai -considera l'autore- aveva in ogni caso chiarito agli stati arabi che sarebbe stato molto difficile distruggere lo stato sionista, che ebbe undici anni di "libertà dal conflitto su vasta scala" usati per equipaggiare e addestrare Tsahal e per destinare risorse enormi allo Aman. L'alleanza segreta con la CIA viene fatta risalire da Bergman allo stesso 1956, anno in cui il Mossad fece avere agli statunitensi una copia del discorso segreto in cui Chruščëv aveva denunciato i crimini di Stalin al XX congresso del PCUS. Nonostante la sconfitta politica a Suez lo stato sionista riuscì negli stessi mesi a tessere una rete di contatti segreti in stati e organizzazioni appena fuori dall'anello ostile circostante; il risultato fu un'alleanza con i servizi iraniani e turchi che ottenne fondi dalla CIA. Il libro descrive quindi l'operazione con cui nel 1960 il Mossad rapì Adolf Eichmann in Argentina consolidando la propria fama di agenzia spetata e capace.
Il Mossad fu colto invece impreparato dai missili balistici che l'Egitto sviluppò due anni dopo avvalendosi di scienziati tedeschi e dovette ricorrere alla propria rete europea per reperire informazioni che si rivelarono molto preoccupanti. Il quinto capitolo prosegue descrivendo come l'Istituto sia riuscito a rapire in Germania uno dei responsabili del programma missilistico egiziano, a portarlo nello stato sionista, a interrogarlo e ad eliminarlo facendone poi sparire il corpo. Bergman descrive come negli anni successivi una Unità 188 dell'Aman voluta da Ben Gurion per inviare militari sionisti sotto copertura in paesi nemici finisse col competere col Mossad quanto a numero di tedeschi uccisi, senza tacere i malfunzionamenti e i tragici errori delle lettere bomba spesso scelte per questo tipo di iniziative. L'A. nota che i tedeschi strapagati dall'Egitto erano interessati al denaro facile più che alla distruzione dello stato sionista, e che nonostante questo il direttore del Mossad Isser Harel orientò i mass media imponendo al Comitato degli Editori (che esiste solo nello stato sionista) di sostenere il contrario. Ne risultò una campagna stampa forsennatamente antitedesca che contrariò Ben Gurion e finì per costare il posto a entrambi. Il nuovo direttore Meir Amit continuò senza molti risultati una rischiosa campagna di raccolta informazioni in Europa; l'A. descrive estesamente come il Mossad abbia contattato in questo contesto l'ex Obersturmbannführer delle SS Otto Skorzeny, che in cambio di denaro, passaporto e immunità (con buona pace di Shimon Wiesenthal) contattò personaggi di spicco del programma missilistico egiziano ospitandoli in Spagna, dove organizzava feste in cui il Mossad "pagava il cibo, le bevande e la registrazione delle loro conversazioni". Il programma missilistico egiziano fu così distrutto dall'interno indebolendo l'apporto di scienziati, tecnici e mano d'opera tedesca convinti a rientrare o a rimanere in Germania. Non sempre con le buone.
Il sesto capitolo espone le modifiche introdotte da Amit all'organizzazione del Mossad -che sotto la sua guida accorpò nella divisione Caesarea tutte le unità che si occupavano di sabotaggi, omicidi mirati e spionaggio nei paesi arabi- e il successo dell'Istituto nella raccolta di informazioni agl incontri della Lega Araba tenutisi in Marocco nel 1965 grazie alla complicità con re Hassan II. Un successo offuscato dalle disastrose conseguenze della scoperta di due agenti in Egitto e in Siria, dal "near miss" dell'esecuzione extragiudiziale del nazionalsocialista lettone Herbert Cukurs a Montevideo, e dalla maldestra parecipazione a Parigi all'assassinio dell'oppositore marocchino Mehdi Ben Barka, che diede il via a una guerra intestina a base di dossier e gettò un'ombra a tutt'oggi presente sui rapporti diplomatici tra Francia e Marocco. Vi si espone poi la riorganizzazione della Caesarea effettuata da Michael Harari all'insegna di standard operativi molto alti e di una disciplina rigidissima.
Nel settimo capitolo Bergman contestualizza alcuni cenni biografici su Khalil al Wazir e Yasser Arafat e tratta della fondazione del Movimento di Liberazione Nazionale della Palestina -dai principi base bellicosamente perentori- che lo stato sionista ignorò per quasi cinque anni prima di iniziare a interessarsi dei suoi crescenti proseliti in Europa; Bergman presenta testimonianze che rivelano come la possibilità di eliminare immediatamente il direttivo di Al Fatah in Europa sia stata scartata nel 1965 da un Mossad ancora sotto shock per i precedenti fallimenti, e di come il susseguirsi di attacchi in territorio sionista e di rappresaglie negli stati arabi avesse portato nel 1967 alla guerra dei Sei Giorni, cui lo stato sionista arrivò sicuro delle proprie potenzialità al punto da prevenire gli avversari e da assicurarsi una vittoria senza precedenti. In queste circostanze lo stesso Aman consigliò -inascoltato- moderazione e la fondazione di uno "stato palestinese indipendente" in cambio di un trattato di pace definitivo. Bergman riferisce come il crollo del prestigio dei leader arabi aprì spazi che al Fatah sfruttò a proprio vantaggio lanciando un'ondata di attacchi senza precedenti e assumendo gradatamente il controllo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina fondata dai paesi arabi nel 1964; lo stato sionista intraprese di conseguenza molti tentativi per uccidere un Arafat che aveva ormai raggiunto lo status di leader politico. Ai tentativi infruttuosi e a volte pazzeschi, ricorda l'A., se ne affiancarono di controproducenti: nel 1968 lo scontro di Karameh rafforzò l'OLP e costrinse lo stato sionista ad ammettere l'esistenza di una nazione palestinese di cui Arafat era capo indiscusso.
Bergman espone le conseguenze della vittoria sul campo: Tsahal dovette presidiare territori ostili, lo Shin Bet espandersi e avvalersi soprattutto a Gaza di Tsahal (e del comando di Ariel Sharon) per arresti e omicidi mirati. A quanto sembra, praticati con una larghezza e una noncuranza per la vita dei vinti che valse ai militari aspre critiche da parte delle autorità civili di occupazione. L'ottavo capitolo dedica in proposito varie pagine alla biografia e all'aneddotica su Meir Dagan e sulle iniziative di Sharon in materia di repressione, che entro il 1972 stroncarono ogni resistenza. Secondo l'A. l'unità di Dagan operò senza rendere conto a nessuno segnando l'inizio di un "sistema legale extragiudiziale parallelo al diritto penale, che si sviluppò nel silenzio e nel segreto più assoluti". Questa politica consentì allo stato sionista di usare i palestinesi come manodopera a basso costo, di creare un mercato per le proprie merci stante l'impossibilità di esportare in paesi vicini ostili, e di costruire insediamenti nei territori occupati.
Il libro descrive nel nono capitolo la nascita e le azioni -dirottamenti aerei in particolare- del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, che fecero uscire la questione palestinese dai territori occupati, e la violenta reazione di re Hussein di Giordania alla minaccia che l'OLP rappresentava per la sua carica; ai massacri indiscriminati e alla cacciata dalla Giordania nel settembre nero del 1970 l'OLP avrebbe reagito dal Libano con una feroce ondata di attacchi contro imprese e personalità sioniste e giordane. L'A. nota che le reazioni non sempre ottennero gli effetti sperati: la distruzione di aerei civili a Beirut levò ancora una volta le ire della Francia, i tentativi di eliminare i vertici del Fronte Popolare fallirono a ripetizione e l'internazionalizzarsi delle sedi e dell'azione dell'OLP richiese un'amplificazione dell'operatività fuori dal Medio Oriente. Bergman descrive poi l'attacco della Settembre Nero al villaggio olimpico di Monaco del 1972, la cui preparazione in Libia sfuggì completamente ai servizi dello stato sionista e la cui gestione da parte tedesca fu per lo meno dilettantesca. L'A. conclude ricordando che in queste circostanze il governo sionista guidato da Golda Meir cambiò regole di ingaggio e decise che avrebbe agito contro obiettivi all'estero anche senza notificare preventivamente alcunché alle autorità locali.
Gli sviluppi di questa politica sono illustrati nel decimo capitolo con l'esposizione dell'operato della Kidon, squadra omicida del Mossad in azione in Europa al comando di Nehemia Meiri. A decenni di distanza dai fatti, a fronte di omicidi mirati discutibili come quello di Wael Zuaiter, i responsabili dichiareranno di aver considerato l'OLP come un tutt'uno senza aver "mai accettato la distinzione fra chi si occupava di politica e chi di terrore"; una mentalità a tutt'oggi corrente nei sevizi dello stato sionista. Bergman descrive dettagliatamente l'operazione "fonte della giovinezza" con cui una missione congiunta della Caesarea e dell'esercito sionista si infiltrò a Beirut dal mare e il 9 aprile 1973 uccise tre alti dirigenti dell'OLP a Beirut insieme con una cinquantina di altri militanti, lasciandosi dietro le macerie di quattro edifici e impossessandosi di documenti sufficienti a distruggere la rete dell'OLP nei territori occupati. Grazie a questa operazione "il mito che il Mossad potesse colpire ovunque e in qualsiasi momento guadagnò credibilità nel mondo arabo".
L'undicesimo capitolo enumera vari omicidi mirati di componenti di al Fatah e del FPLP compiuti dalla Kidon nei successivi mesi del 1973. Una serie di successi che infuse nella divisione Caesarea la sensazione che non esistesse individuo impossibile da raggiungere. Bergman descrive lo sbaglio di persona che il 21 luglio del 1973 in Norvegia infranse questa certezza -ai piani alti dell'Istituto venne interpretato come "un errrore, non un fallimento" anche davanti all'evidenza- e che portò all'arresto di vari operativi, alla scoperta di molte informazioni sulla rete del Mossad in Europa e alla fine alla rifondazione della Kidon.
Il successivo capitolo espone le conseguenze della hybris dovuta al perdurante senso di onnipotenza. Ad oltre quarant'anni dai fatti lo Ehud Barak che aveva comandato l'assalto di Beirut considerava che questo clima organizzativo era nato dalla errata convinzione che le competenze del Mossad fossero proprie di tutto l'apparato militare sionista e che le conseguenze per il paese nel suo complesso erano state disastrose. Bergman descrive come l'aver trascurato su queste premesse l'attività diplomatica e l'adozione di cautele nei confronti dei paesi confinanti avesse portato in pochi mesi alla guerra del Kippur. Ribaltare la situazione sul campo ebbe stavolta costi pesanti, in un conflitto si sarebbe potuto prevenire con i negoziati e che costò la poltrona a Golda Meir. La contemporanea irruzione palestinese alla scuola di Netiv Meir di Ma'alot e i dissensi con l'altrettanto dimissionario Dayan sulla sua gestione (disastrosa) le resero ancora più amara la conclusione della carriera politica. Bergman sostiene anche che i servizi dello stato sionista non interpretarono correttamente le reazioni dell'OLP ai fatti di Beirut, la fine delle operazioni della Settembre Nero e degli attacchi in Europa, che significarono in realtà un intensificarsi delle operazioni condotte, a volte in modo clamoroso, sul territorio controllato dallo stato sionista. Spesso "iniziativa, elemento sopresa e pianificazione erano dall'altra parte", avrebbe notato per l'A. un componente della squadra speciale Sayeret Matkel. Bergman illustra poi come il FPLP non avesse cambiato obiettivi e avesse continuato a operare in Europa e altrove, anche in collaborazione con il KGB sovietico e con le formazioni armate dell'estrema sinistra europea, prima per un fallito attentato a un aereo della ElAl a Nairobi e poi col dirottamento di un altro a Entebbe. Al termine della descrizione del raid che portò alla liberazione degli ostaggi in Uganda, l'A. specifica che l'operazione è diventata un modello per i casi analoghi: gesti straordinari, non negoziati o compromessi.
La fine dei governi laburisti nel 1977 e le prime mosse del nuovo primo ministro Menachem Begin sono all'inizio del capitolo seguente. Nonostante non avesse sostituito i vertici dell'Istituto e di Tsahal, Begin considerava Arafat l'incarnazione del Male e il capo di "una spregevole organizzazione di assassini" guidati da null'altro che dall'antisemitismo. Bergman nota che da anni Arafat agiva per accreditarsi come credibile interlocutore politico, che aveva compartimentato l'OLP in modo da non essere accostato alle attività militari e che i servizi dello stato sionista erano preoccupati di un eventuale riavvicinamento fra l'OLP e gli USA. La sua dimensione politica convinse i vertici del Mossad a non eliminarlo, e a concentrare i propri sforzi sul dirigente del FPLP Wadie Hadad-avvelenato lentamente e morto in Germania Orientale nel marzo 1978- e sull'ideatore dell'attacco a Monaco Hassan Salameh, ucciso a Beirut con una bomba insieme ad altre otto persone nonostante i suoi ottimi rapporti con la CIA.
L'11 marzo 1978 un'azione di al Fatah in parte improvvisata (e per questo poco prevedibile) portò al "massacro della strada costiera", a sua volta casus belli per l'invasione del Libano del sud chiamata Operazione Litani che distrusse le basi dell'OLP al confine con lo stato sionista, servì a creare una milizia collaborazionista cristiana e a consentire il dislocamento di una forza di interposizione dell'ONU. Il quattordicesimo capitolo del libro tratta poi della figura di Rafael Eitan, comandante del corpo speciale Flottiglia 13 e privo di qualsiasi scrupolo, e dei raid da essa condotti in Libano. In questo caso come in vari altri, Bergman nota che i servizi e le forze armate sioniste non abbiano mai ecceduto coi riguardi quando le "perdite collaterali" erano presumibilmente arabe, specie in Libano dove le incursioni erano considerate guerra a tutti gli effetti. Bergman cita in proposito anche la "brutalità straordinaria" della Falange libanese che si muoveva col "solido sostegno" di Tel Aviv, e descritta da Uzi Dayan -al tempo comandante della Sayeret Matkal- come "una banda corrotta di assassini" che gli ricordava "un branco di cani selvatici". Con la creazione della Regione del Libano del Sud sotto il comando di Meir Dagan, Eitan poté dispiegare squadre di operativi del posto che agivano nell'ombra creando il caos tra i palestinesi e i siriani in Libano senza che nulla trasparisse a livello ufficiale. Bergman descrive la fabbricazione di ordigni in kibbutzim compiacenti e il loro uso in territorio libanese per una campagna sotto copertura e priva di qualsiasi approvazione, con relativo peggiorare dei rapporti con l'Aman. L'A. racconta di come Menachem Begin avesse chiuso una riunione chiarificatrice accontentandosi della parola d'onore dei protagonisti ("un generale dell'esercito non mente") e di come l'Aman avesse deciso di lasciar correre fino a quando le attività clandestine, che colpivano operativi di basso livello (quando non colpivano civili) non avessero causato danni sul piano politico. Il testo procede con l'esposizione delle iniziative di Ariel Sharon, diventato ministro della difesa nel 1981; dopo il ritiro dal Sinai in contemporanea con l'espansione degli insediamenti a Gaza e in Cisgiordania, Sharon incaricò Dagan di creare un casus belli in Libano. Dagan inventò un "Fronte per la liberazione del Libano dagli stranieri" che provvide a una sanguinosa serie di autobombe e di attentati -senza che il casus belli si materializzasse- e portò avanti un piano per eliminare Arafat (inserito di nuovo da Sharon nella lista dei bersagli) facendo saltare un intero stadio a Beirut prima che Begin lo fermasse su indicazione dell'Aman.
Il quindicesimo capitolo descrive l'invasione del Libano nel 1982, dopo il casus belli finalmente provocato dalla formazione dissidente palestinese di Abu Nidal e dal suo tentativo di assassinare l'ambasciatore sionista nel Regno Unito per conto dell'Iraq. Bergman descrive il piano pace in Galilea ideato da Sharon, che prevedeva la conquista di Beirut, la distruzione dell'OLP, la sconfitta delle unità siriane e l'insediamento del leader della Falange Bashir Gemayel alla presidenza del paese. I palestinesi sarebbero stati espulsi in Giordania, dove avrebbero creato un proprio stato consentendo allo stato sionista di annettere definitivamente i territori occupati. Bergman rileva come Sharon avesse cercato di accordarsi con la Falange per distruggere l'OLP a Beirut occupando la città, nonostante per mesi avesse asserito in ogni sede che l'occupazione della città non era in agenda, e come il Mossad avesse seminato i mass media di storie menzognere sulle intenzioni dell'OLP ottenendo solo di orientare l'opinione pubblica mondiale in senso contrario a quello desiderato. L'A. ripercorre anche i contemporanei tentativi di uccidere Arafat portati avanti da Dagan ed Eitan, mai riusciti per l'astuzia e la fortuna dimostrate dal bersaglio e per la contrarietà di Uzi Dayan all'alto numero di "vittime collaterali" che l'iniziativa avrebbe provocato, oltre che -in ultimo, alla resa dell'OLP a Beirut il 30 agosto 1982- per il no di un Begin interessato a non contrariare gli statunitensi. Insistere, nota Bergman, fece sì che Arafat venisse percepito fuori dallo stato sionista come il leader braccato di una nazione di rifugiati che la macchina bellica sionista stava calpestando.
Gli eventi successivi all'abbandono di Beirut da parte dei vertici dell'OLP sono riassunti ne sedicesimo capitolo, che tratta di come Sharon e Begin autorizzarono la Falange libanese ad eliminare i militanti dell'OLP dai campi profughi di Sabra e Shatila dopo che i servizi siriani ebbero ucciso Gemayel. A massacro ultimato Sharon sostenne di non aver potuto prevedere i fatti, negando l'evidenza a fronte dei docunmenti di Tsahal e del Mossad che dimostravano come i comportamenti della Falange fossero noti da tempo e servendosi del precedente di Tell el Zaatar per contrastare le obiezioni degli avversari. Tsahal e Mossad, sottolinea Bergman, riprovarono il comportamento delle milizie cristiane ma suggerirono anche la condotta da tenere nei rapporti coi mass media in modo da ridurre i danni; la crisi personale di Menachem Begin consentì poi nei mesi successivi a Sharon di fare con le forze armate esattamente quello che voleva. Con un primo ministro a dir poco assente, Sharon avrebbe capeggiato lo stato sionista, in modo incostituzionale e senza restrizioni. In quella veste ordinò almeno cinque tentativi di abbattere aerei che potevano avere Arafat a bordo, e in almeno un caso solo le informazioni trasmesse dal Mossad all'ultimo momento evitarono errori disastrosi da ogni punto di vista. Più in generale la macchina militare dello stato sionista mise vari ostacoli a iniziative del genere, in nome di un principio fondante che prescrive di non obbedire a ordini manifestamente illegali. Sharon fu fermato solo dal suo sollevamento dall'incarico nel 1983, dopo che una commissione di inchiesta sui massacri in Libano gli ebbe addossato la gran parte del biasimo per l'accaduto.
Nel diciassettesimo capitolo Bergman descrive lo stato sionista nel 1984, con lo stillicidio delle vittime dal fronte libanese e le continue incursioni della guerriglia palestinese, e la figura di Avraham Shalom, "forte, brutale , intelligente, testardo, intransigente" e temuto capo dello Shin Bet noto per la sua predilezione per le esecuzioni extragiudiziali, che dopo il 1973 avevano perso il loro carattere di eccezionalità fino a diventare una procedura tollerata per la quale lo Shin Bet disponeva anche di procedure definite. L'A. descrive anche come una di queste esecuzioni, propriamente un linciaggio ordinato da Shalom in persona, finì per attirare l'attenzione della stampa e per provocare l'istituzione di una commissione di inchiesta che lo Shin Bet non si fece problemi a pilotare in modo che addossasse ogni colpa a un ufficiale di Tsahal, avviando poi una campagna di denigrazione contro tre propri appartenenti non intenzionati a partecipare all'insabbiamento. Bergman segue l'andamento delle inchieste e dei processi, in cui Shalom si difese a colpi di dossier e di chiamate in correità (sostanzialmente ricattando militari, politici e ministri) fino a ottenere il perdono presidenziale per tutti gli inquisiti.
Il capitolo seguente descrive come col trasferimento a Tunisi del proprio quartier generale l'OLP avesse ripreso ad operare in Europa e come di conseguenza la riorganizzata Kidon avesse ripreso gli omicidi mirati; un'operazione in grande stile con cui l'OLP avrebbe dovuto occupare il quartier generale di Tsahal venne sventata solo per le informazioni accurate raccolte all'Aman. Bergman indica nell'impatto devastante che l'attacco avrebbe avuto il motivo che spinse lo stato sionista a inviare la propria aeronautica contro il quartier generale dell'OLP a Tunisi il 1 ottobre 1985. Senza che l'attacco eliminasse alcuna delle figure apicali dell'OLP. Bergman descrive a questo punto le condizioni dei palestinesi: Cisgiordania e Gaza tolleravano da quasi vent'anni le palesi ingiustizie dell'occupazione ed erano in procinto di esplodere senza che lo Shin Bet si interessasse alla cosa. Vi si era sviluppata inoltre una generazione di attivisti staccata dall'OLP, le cui iniziative venivano percepite come sempre meno rilevanti a fronte dei problemi quotidiani. In questo contesto l'esplodere della prima intifada nel dicembre 1987 colse di sorpresa tanto Arafat quanto lo Shin Bet. Le grosse proteste di piazza vennero represse con le armi causando centinaia di morti, cosa che causò al prestigio e all'immagine dello stato sionista molti più danni di quanti gliene avesse mai inflitti l'OLP. Bergman descrive a questo punto l'operazione della Caesarea che portò nel 1988 all'uccisione di Abu jihad in Tunisia, notando che l'intifada non ne uscì affatto indebolita, al contrario del prestigio internazionale dello stato sionista.
Nel diciannovestimo capitolo Bergman esamina il fenomeno dell'intifada, una costellazione di proteste popolari e di attacchi ai danni di militari e coloni dello stato sionista. Lo Shin Bet rispose con la creazione della Duvdevan, una unità composta da personale di élite indistinguibile dalla popolazione araba incaricata di operazioni repressive di ogni tipo, soprattutto di compiere catture di sospettati o eliminazioni fisiche "usando una firma a bassa visibilità". L'A. assicura che unità di questo tipo hanno eseguito centinaia di missioni; "venditori ambulanti, pastori, taxisti, donne a piedi per strada, qualsiasi tipo di persona si potesse incontrare all’epoca in una città o in un villaggio arabo avrebbe potuto essere un soldato della Duvdevan ed estrarre all’improvviso un’arma nascosta". I successi contro le formazioni militari irregolari non fecero che mettere in rilievo il fallimento strategico della repressione nel suo complesso: la distruzione delle abitazioni e le deportazioni di massa finivano regolarmente sui media irritando anche l'amministrazione statunitense. Il libro tratta poi del medio quadro dell'OLP Adnan Yassin, che dal 1990 fu per il Mossad una fonte inesauribile di informazioni (convinto com'era di star passando dati a personale della Repubblica Islamica dell'Iran) e riferisce che a peggiorare le condizioni dell'organizzazione ci fu l'errore strategico di Arafat, schieratosi con l'Iraq durante la guerra in Kuwait. Le monarchie del golfo, già dubbiose sulla destinazione dei fondi erogati a un OLP sulla cui amministrazione chiunque avrebbe trovato da eccepire, smisero di finanziarlo. Bergman chiude constatando come quattro anni di intifada finirono per costare il posto a Yitzhak Shamir, che nel 1992 perse le elezioni a favore di Yitzhak Rabin; messo all'angolo dagli eventi, Arafat salvò la propria posizione invitando il nuovo primo ministro a una trattativa che fu portata avanti tramite contatti non ufficiali e soprattutto tenendone all'oscuro sia i servizi che l'esercito. Che ne vennero informati solo perché il Mossad spiava Abu Mazen.
Bergman espone poi le operazioni del Mossad e della Caesarea contro i piani nucleari iracheni, portati avanti col coinvolgimento francese in un periodo storico in cui la Francia aveva forti interessi in Iraq ed era invece in rapporti per lo meno freddi con lo stato sionista. La definizione di Saddam Hussein al Tikriti riportata nel testo è quella di "macellaio fuori di senno con la pluriennale ambizione di diventare il nuovo Saladino", e Bergman nota che lo stato sionista addestrava e armava curdi iracheni dal 1969 e dallo stesso anno il Mossad elaborava piani (mai autorizzati) per ucciderlo. Bergman racconta di come il Mossad abbia prima sabotato in Francia la componentistica destinata all'Iraq, e poi come abbia iniziato a uccidere gli scienziati del programma prima che l'aeronautica mettesse fine a tutto attaccando il reattore iracheno di Osirak. A missione compiuta l'Iraq venne relegato in fondo alla lista delle minacce; secondo l'A. il Mossad non sapeva nulla del nuovo programma nucleare iracheno che fu interrotto solo dalla prima guerra del Golfo, anche se continuò a elaborare piani per eliminare Saddam Hussein fino al 1992, quando vari militari morirono in una simulazione finita in un disastro.
Nel ventunesimo capitolo lo shah Reza Pahlavi viene sobriamente definito come "il sovrano onnipotente dell'Iran, un despota spietato e megalomane intenzionato a trasformare il suo paese in una terra 'più sviluppata della Francia'"; lo scritto prosegue raccontando come, fra il 1978 e il 1979, il paese che era il più fedele alleato dello stato sionista divenne il peggiore dei suoi avversari. Il Mossad, ricorda Bergman, era riluttante a eliminare capi politici, e non aiutò lo shah a eliminare Khomeini nonostante richieste esplicite in questo senso da parte della sua polizia segreta. Nel 1982 la nuova Repubblica Islamica dell'Iran strinse un'alleanza con la Repubblica Araba di Siria e Ali Akbar Mohtashamipur -religioso sciita caro a Khomeini ufficialmente ambasciatore a Damasco- fondò in Libano la milizia sciita del Partito di Dio che nel sud del paese avrebbe finito col colmare il vuoto lasciato dall'OLP. Bergman ricorda le prime azioni di Hezbollah e del Jihad Islamico, fino a ripercorrere la storia dei primi devastanti attentati suicidi come quelli che nel 1983 devastarono rappresentanze diplomatiche e installazioni militari statunitensi, francesi e sioniste a Beirut e a Tiro. Il Mossad cercò di uccidere Mohtashamipur con un libro esplosivo, ma riuscì solo a mutilarlo e a farne un martire. Questo non dissuase lo stato sionista dal cercare di risolvere il problema del Libano del sud tramite omicidi mirati, che in quel contesto, affidati a intermediari locali in aperto contrasto con la prassi del Mossad, diventarono spesso vere e proprie stragi.
L'epoca dei droni è iniziata nello stato sionista nel 1982 con i primi utilizzi pionieristici. Il ventiduesimo capitolo espone le vicende che hanno portato ai successivi sviluppi di questa tecnologia e al suo impatto sulle operazioni militari e di intelligence. Bergman descrive nei dettagli il rapidissimo processo decisionale e l'esecuzione dell'operazione con cui nel 1992 lo stato sionista uccise a mezzo missili Hellfire il segretario generale di Hezbollah Hussein Abbas al Mussawi insieme ad altre cinque persone. Senza curarsi gran che delle possibili conseguenze.
Il ventitreesimo capitolo introduce la figura del successore di Musssawi Sayyid Hassan Nasrallah, e tratta delle conseguenze su accennate. Il braccio militare di Hezbollah comandato da Imad Mughniyeh reagì nell'immediato lanciando missili contro lo stato sionista, poi con una serie di attentati in Turchia e in Argentina realizzati attivando cellule dormienti, infine migliorando di molto efficacia ed efficienza degli armamenti, delle contromisure e degli attacchi contro Tsahal in Libano e contro i collaborazionisti dell'esercito del Libano del sud. Bergman descrive come, dopo un raid sionista contro un campo di addestramento, Hezbollah colpì di nuovo (e più gravemente) in Argentina facendo sì che il Mossad si impegnasse per la eliminazione del suo capo militare. Nel descrivere una serie di attentati suicidi che investì lo stato sionista nel 1993, il ventiquattresimo capitolo presenta il devoto insegnante Ahmed Yassin, una personalità per decenni apprezzata dallo Shin Bet, soprattutto rispetto a quella di Arafat. L'allora capo dello Shin Bet Ami Ayalon ha confermato a Bergman che i servizi sionisti incoraggiarono l'Islam, convinti che fosse privo di un elemento nazionalista, "per creare un contrappasso al movimento nazionale palestinese dell'OLP". A cambiare drasticamente le cose, ricorda l'A., sarebbe stato il successo della rivoluzione islamica in Iran. Il gruppo che Yassin stava organizzando sottraendo armi agli arsenali sionisti venne scoperto nel 1984; Bergman sottolinea come il capo dello Shin Bet ne avessee definito gli esponenti come tzileigerim, "incapaci", e come dopo una breve detenzione Yassin fosse tornato a organizzare il suo Movimento Islamico di Resistenza noto come Hamas. L'A. descrive come nel 1992 lo Shin Bet abbia cercato di stroncare Hamas deportandone gli esponenti in Libano, col risultato di far solidarizzare molti libanesi -e segnatamente Hezbollah- con i deportati accampati alla frontiera e di assestare un ulteriore colpo al prestigio internazionale dello stato sionista. Al loro rientro a Gaza gli attivisti di Hamas si sarebbero serviti degli insegnamenti ricevuti per vendicare le vittime della strage di Hebron con una ondata di attentati suicidi. In questo, precisa Bergman, trovò immediatamente imitatori.
Il clima di terrore diffuso nello stato sionista, si legge nel venticinquesimo capitolo, fu sfruttato da Ariel Sharon e da Benjamin Netanyahu per levare le piazze contro l'esecutivo di Yitzhak Rabin intanto che gli "accordi di Oslo" trovavano parzialissima e incompleta applicazione. Al contempo una unità speciale di Tsahal chiamata Egoz iniziò in Libano una campagna di eliminazione dei medi quadri di Hezbollah, agendo di solito con l'avallo della gerarchia militare ma non con quella dell'esecutivo. Bergman raconta come nello stesso 1995 Rabin maturò la consapevolezza che le formazioni palestinesi costituivano ancora una minaccia strategica, dati gli attentati suicidi del Jihad Islamico. Il libro descrive l'assassinio a Malta del leader del Jihad Islamico Fathi Shaqaqi, e come i tentativi di uccidere Yahya Ayyash di Hamas furono interrotti dall'uccisione di Rabin da parte di Yigal Amir. Lo Shin Bet, scrive Bergman, in quel caso aveva fallito due volte: la prima perché nulla sapeva della cellula di Amir, la seconda perché gli aveva consentito di avvicinarsi armato a Rabin. Prima di dimettersi il capo del servizio Carmi Gillon riuscì a far uccidere Ayyash con un telefono cellulare esplosivo. L'idea di Gillon era di fare in modo che il suo mandato non potesse essere considerato "un fallimento su tutta la linea"; la morte di Ayyash segnò invece l'inizio di una campagna di reclutamento per attentatori suicidi di una tale ampiezza che Hamas avrebbe asserito che con essa "si erano aperte le porte dell'inferno".
A differenza di altri leader di Hamas che organizzavano imboscate contro militari nei territori occupati, Ayyash aveva organizzato attentati suicidi contro civili nello stato sionista. Un modus operandi che gli sopravvisse, come si legge nel ventiseiesimo capitolo. In dieci giorni tra febbraio e marzo del 1996, prima che Arafat e la neonata autorità nazionale palestinese agissero contro Hamas, le brigate al Qassam comandate da Mohammed Deif uccisero sessanta civili e ne ferirono altre centinaia in quattro diversi attentati. Sul piano politico gli attacchi minarono la fiducia nel laburista Shimon Peres e aprirono la strada a Netanyahu: lo scopo di "far deragliare il processo di pace" era stato raggiunto. Il proseguire degli attacchi, scrive Bergman, provocò una divisione nei servizi dello stato sionista. Lo Shin Bet considerava Arafat ininfluente, l'Aman consapevole e colpevole della situazione, cui collaborava con la sapiente liberazione di attivisti di Hamas. Bergman descrive come Netanyahu avesse adottato contromisure molto aggressive contro Hamas dopo l'ennesimo attentato, puntando ai leader del movimento e imponendo alla Caesarea di eliminarli, agendo in Giordania senza lasciare "impronte digitali" sulle esecuzioni. Obbediente, la Kidon fece un tentativo di uccidere Khaled Mashal con il levofentanyl. L'iniziativa finì con la cattura degli operativi e obbligò la Caesarea a somministrare un antidoto a Mashal per evitare a loro di finire al muro e allo stato sionista di perdere i rapporti diplomatici con la Giordania. Per chiudere l'incidente Netanyahu fu costretto a liberare Yassin e molti altri prigionieri palestinesi. Il fallimento ovviamente portò alla luce metodi e coperture che richiero un imponente lavoro di ripristino e lunghe ricuciture istituzionali sia all'interno che all'estero.
Il ventisettesimo capitolo si apre con la descrizione di un altro costoso fallimento verificatosi nel 1997. Il doppio gioco di alcuni agenti in Libano e alcuni errori operativi portarono all'uccisione di dodici commandos inviati in località Ansariyeh per eliminare Haldoun Haidar -un medio quadro di Hezbollah- con ordigni a bordo strada. Bergman nota che nel settembre 1997 lo Shin Bet si trovava sotto accusa per non essere riuscito né a proteggere Rabin né a impedire gli attacchi suicidi, il Mossad per gli insuccessi all'estero e l'Aman per non essere riuscita a infiltrare Hezbollah. Il tutto mentre gli avversari si presentavano innovativi e determinati come mai in precedenza. L'A. descrive l'ampia introduzione dell'informatica e della telematica nello Shin Bet, e l'utilizzo delle nuove tecnologie per l'uccisione dell'esperto di esplosivi di Hamas Mohi al Dinh Sharif e per l'eliminazione dei fratelli Adel e Imad Awadallah, avvenuta solo dopo aver appurato che l'archivio del braccio armato di Hamas era nella loro disponibilità. E quell'archivio ssarebbe servito per portare l'infrastruttura militare di Hamas sull'orlo del collasso. Bergman specifica come Shin Bet, Aman e Tsahal avessero realizzato una joint war room per il coordinamento delle iniziative e la concentrazione di tutte le fonti di informazione possibili.
I negoziati -infruttuosi- tenuti negli USA tra il neoeletto Ehud Barak e Yasser Arafat occupano le prime pagine del capitolo ventotto, che descrive poi come Ariel Sharon abbia innescato una situazione già esplosiva portando il 28 settembre del 2000 un gruppo di politici del Likud a manifestare sul Monte del Tempio, di cui le trattative ventilavano il passaggio alla sovranità palestinese. Negli scontri successivi -scrive Bergman- Amal e Tsahal considerarono Arafat un istigatore; lo Shin Bet continuò invece a pensare che si lasciasse trascinare dagli eventi finché il linciaggio di due riservisti di Tsahal a Ramallah e le circostanze in cui si era verificato non convinsero tutti a trattare l'autorità palestinese "come parte del problema". Barak pagò un prezzo politico molto alto per il bagno di sangue che ne conseguì: nelle elezioni del 2001 fu sconfitto da quello Ariel Sharon che con la sua provocazione aveva dato la stura alla seconda intifada, dopo essere stato un paria politico per quasi vent'anni. L'A. descrive una lunga serie di attentati suicidi verificatisi tra 2001 e 2002, e ricorda il forte impatto sulla vita quotidiana di azioni contro cui non esisteva soluzione "né in termini di dottrina di combattimento né in termini di armi"; non sapendo fare altro, lo Shin Bet continuò ad assassinare chi istigava e organizzava gli attentati, usando spesso missili lanciati da elicotteri dopo aver acquisito il bersaglio con i droni. L'A. nota che per tutto risultato il Fronte Popolare riprese le armi. A fronte della situazione, alla fine del 2001 Sharon accordo ad Avraham Dichter dello Shin Bet ampia licenza di uccidere.
Nel ventinovesimo capitolo Bergman constata come da quel momento il numero dei potenziali bersagli della JWR -che ebbe a disposizione droni e ordigni per ogni tipo di attacco, oltre a quantità di informazioni che venivano trasmesse alla massima velocità- incluse reclutatori, corrieri, procacciatori di armi, gestori di rifugi sicuri, contrabbandieri di valuta per Hamas o per il Jihad Islamico, uccisi rispettando un modello matematico ideato per abbassare drasticamente l'età dei candidati alle posizioni di vertice. Riepilogando le procedure diventate di routine e il ruolo delle agenzie e degli attori coinvolti, Bergman sottolinea che lo stato sionista è arrivato a disporre di un sistema in grado di eseguire contemporaneamente un numero elevato di omicidi: se al Mossad erano serviti mesi per progettare un attacco, con la JWR congiunta era possibile "eseguirne quattro o cinque al giorno", con l'unica differenza che non era plausibile negare la paternità dell'operato. A commento delle cifre (centinaia di vittime nel 2002 e nel 2003) e prima di illustrare la scoperta propaganda con cui lo stato sionista rivendicava ogni omicidio, Bergman riporta le parole di Dov Weissglas: "Bastava un ronzio nel cielo sopra Gaza, e si vedevano migliaia di persone correre in ogni direzione: non avevano mai un istante di pace. La popolazione di Gaza arrivò al punto di credere che qualsiasi cosa emettesse radiazioni elettroniche, dal telefono cellulare al tostapane, potesse attirare i missili. Il panico totale". Lo Shin Bet, attesta l'A., uccideva senza curarsi di altro e senza capire se un omicidio avrebbe soffocato un conflitto sul nascere (come era intenzione dichiarata) o se invece lo avrebbe alimentato. Bergman ricorda che nel tentativo di fornire legittimità a queste iniziative il capo di stato maggiore di Tsahal Shaul Mofaz richiese un parere legale a Menachem Finkelstein dell'avvocatura generale militare. Che nel gennaio 2001 lo rassicurò producendo un documento che avallava le esecuzioni extragiudiziali: qualsiasi iniziativa fosse attuata per salvare vite di cittadini o soldati dello stato sionista poggiava sulla base morale delle regole dell'autodifesa: "Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidi per primo". Bergman nota che nel documento furono introdotti alcuni correttivi, per lo più in nome del principio di proporzionalità, e che solo il primo ministro o il ministro della difesa avrebbero potuto autorizzare gli omicidi; questo non servì ad ammorbidire le critiche a livello internazionale, che contestavano tanto il programma di omicidi mirati quanto l'aggressiva espansione degli insediamenti nei territori occupati, ma Sharon riuscì comunque a non contrariare gli USA. Con la cui presidenza Bush instaurò anzi ottimi rapporti, ottenendone il sostegno nella campagna di omicidi mirati in cambio di un rallentamento nell'espansione degli insediamenti. Gli USA ricorsero abitualmente al veto all'ONU per bloccare ogni tentativo di condanna contro lo stato sionista. Bergman racconta come dopo gli attacchi contro gli USA dell'11 settembre 2001 gli stessi sistemi condannati fino al giorno prima diventarono modeli da imitare: la guerra dello stato sionista aveva ricevuto legittimità internazionale.
Il trentesimo capitolo si apre con la descrizione dell'omicidio di Salah Shehade, in gioventù oggetto di un tentativo di reclutamento da parte dello Shin Bet ed entrato in Hamas fin dal 1984. Shehade era considerato l'ideatore di tecniche di combattimento e il pianificatore di attentati che nel 2001-2002 avevano ucciso oltre quattrocento persone. Bergman ripercorre i molti rinvii dell'esecuzione decisi dallo Shin Bet per evitare vittime fra i civili, e l'annientamento del bersaglio con un ordigno da una tonnellata lanciato da un aereo. Che rase al suolo un quartiere di baracche facendo quattordici morti e centocinquanta feriti. Le polemiche che ne seguirono, spiega l'A., misero lo stato sionista davanti a una realtà in cui le esecuzioni extragiudiziali non erano più affare segreto che coinvolgeva poche persone. La "macchina per uccidere ad ampio raggio" di utilizzo ormai abituale prevedeva la complicità di migliaia di persone. Il Likud dovette prendere atto che a protestare non erano refusnik che arrivavano al centro di addestramento "con gli orecchini e i capelli verdi", ma veterani di armi di élite che per lo stato sionista avevano compiuto le azioni più audaci.
Il capitolo 31 tratta della Unità 8200 di Tsahal, specializzata nel vaglio delle informazioni. Bergman riferisce le pesantissime responsabilità dei NIO, i network intelligence officer in organico, in materia di definizione degli obiettivi. Nonostante l'esistenza di una lunga catena di comando, i politici "si limitavano ad avallare le raccomandazioni della comunità dell'intelligence, le quali erano per lo più concepite dai NIO", e questo avallo prescindeva spesso le effettive responsabilità dei bersagli da colpire: Bergman scrive che Sharon era convinto che l'Autorità Nazionale Palestinese fosse sempre colpevole a prescindere, e gli edifici civili della sua amministrazione venivano bombardati a più riprese per rappresaglia anche se abbandonati da tempo. Nel gennaio 2003 un NIO della Unità 8200 rifiutò di obbedire a un ordine percepito come illegale; fu sollevato dall'incarico ma il previsto attacco contro un edificio civile a Gaza a puro scopo di ritorsione non venne comunque portato a termine. L'Unità 8200 risolse la questione licenziando il colpevole senza incriminarlo: in questo modo i tribunali non dovettero stabilire se l'ordine di uccidere civili fosse stato legale o meno. Bergman afferma che ignorare i protocolli -che prevedevano l'eliminazione soltanto per gli individui direttamente connessi ad attività belliche, l'apertura di indagini in caso di vittime civili e la valutazione di alternative ragionevoli all'esecuzione extragiudiziale- era una pratica ricorrente. Gli ordini operativi del 2003, scrive l'autore, "indicano che l'aspettativa era l'assassinio dei ricercati nell'esatto istante in cui venivano identificati"; militari e servizi inventarono sempre nuovi modi per aggirare i protocolli ufficiali. I risultati, confortanti nell'immediato, con l'andare del tempo fecero concludere che le formazioni armate imparavano da ogni singola sconfitta e si adattavano diventando sempre più abili e pericolose. L'Aman decise quindi di considerare dei bersagli ogni leader di Hamas e del Jihad Islamico, anche se non coinvolto in azioni militari.
Nel trentaduesimo capitolo Bergman chiarisce che il senso della nuova campagna di omicidi era quello di far sapere agli esponenti di Hamas e del Jihad Islamico che "definirsi funzionari politici non rappresentava più una copertura", e descrive come il fallito tentativo di eliminare in un solo colpo gli alti gradi di Hamas suscitò un'altra ondata di attentati suicidi cui la JWR rispose cercando di uccidere Mahmoud al Zahar -uno dei fondatori di Hamas- fallendo anche in questo. L'uccisione di Ahmed Yassin il 22 marzo 2004, dopo che Hamas aveva iniziato a usare donne come attentatori suicidi, avvenne con l'avallo (di misura) del consiglio dei ministri e previe consultazioni con gli USA, dato il prestigio e la rilevanza di un personaggio che non aveva neppure mai fatto molto per nascondersi. Il suo successore Abd al Aziz Rantisi fu ucciso allo stesso modo -missili lanciati da elicotteri- dopo poche settimane. Bergman riporta che dopo aver perso altri capi in attacchi dello stesso genere Hamas accettò di mettere fine agli attentati suicidi. E che Sharon accettò di interrompere gli omicidi mirati così come accettò di fermare lo sviluppo di alcuni insediamenti per accreditarsi, alla fine della carriera, come "generale sfinito dalle battaglie e divenuto grande portatore di pace". Un obiettivo che non prevedeva la presenza di Arafat, oggetto di una campagna di delegittimazione fatta di illazioni di bassissima lega e al tempo stesso di ben circostanziate contestazioni sul suo coinvolgimento nei corpi armati che combattevano contro lo stato sionista. Bergman scrive che dopo due anni di vero e proprio assedio e fantasiosi quanto umilianti piani per toglierlo di mezzo, Arafat sarebbe morto per una misteriosa malattia intestinale nell'ospedale parigino dove Sharon aveva consentito fosse trasportato affinché non morisse in territorio sionista.
Bergman conclude che la morte di Arafat e il sistema per gli omicidi mirati consentirono allo stato sionista di sconfiggere gli avversari. Al prezzo delle moltissime "perdite collaterali" provocate dal considerare pratica comune quella che era nata come qualcosa cui ricorrere in casi eccezionali e dell'emarginazione sul piano internazionale. Anni dopo sarebbe diventato chiaro che con Arafat al potere e Yassin in vita la Repubblica Islamica dell'Iran avrebbe avuto meno agibilità e Hamas non avrebbe potuto fondare e tenere un proprio stato a Gaza.
Il capitolo 33 riepiloga la storia della Repubblica Araba di Siria fra il 1990, l'ascesa di Bashar al Assad e il suo allinearsi alla politica iraniana fornendo appoggio a Hezbollah. Bergman scrive che "l'alleanza fra un'organizzazione terroristica, una teocrazia di paria e uno Stato-nazione modernizzato consentiva a una tentacolare rete di guerriglieri, di rivoluzionari autoproclamati e di sgherri crliminali di operare con un insolitamente robusto livello di efficienza militare", sotto la guida di Qassem Suleimani dei Guardiani della Rivoluzione Islamica in Iran, di Imad Mughniyeh di Hezbollah e del generale siriano Muhammad Suleiman. Lo stato sionista si trovò circondato da un'unica forza coordinata che forniva inoltre armamenti a Hamas a Gaza, e che mise in luce l'inadeguatezza del Mossad. Sharon affidò l'Istituto alla inflessibile guida di Meir Dagan, che lo concentrò sul contrasto al piano nucleare iraniano e sulla lotta a quello che lo stato sionista chiama "Fronte radicale". Dagan riuscì a stringere collaborazioni sottobanco con molti paesi arabi ostili all'Iran, iniziò ad avvalersi di operativi dei paesi-bersaglio, fece migliorare il profilo tecnologico e informatico dell'Istituto e fece eseguire omicidi mirati in Libano e in Siria. Il Fronte radicale rispose dal 2006 stringendo ancora di più i rapporti tra Hamas e Tehran, e con una prassi già provata con successo dal 2000 in poi: il rapimento di militari di Tsahal che ogni volta obbligava lo stato sionista a umilianti scambi di prigionieri. Gilad Shalit è rimasto cinque anni prigioniero di Hamas senza che i servizi sionisti abbiano mai avuto idea di dove fosse detenuto.
Bergman mostra come un altro rapimento da parte di Hezbollah abbia rappresentato il casus belli per la guerra del 2006. Con Sharon costretto al ritiro da un ictus, Ehud Olmert che ne aveva preso il posto intraprese una breve campagna fallimentare contro i combattenti sciiti libanesi e cercò poi di rimediare tentando per tre volte di uccidere Nasrallah. L'anno successivo la rivolta di Hamas contro al Fatah peggiorò ulteriormente la situazione dello stato sionista.
Il trentaquattresimo capitolo racconta innanzitutto di come nel 2007 il Mossad sia venuto a sapere praticamente per caso dell'esistenza di un programma nucleare in Siria già attivo da sei anni, e di come Bashar al Assad fosse avesse preso contromisure radicali contro la curiosità sionista affidando le comunicazioni importanti alla carta e a corrieri in moto. Bergman descrive come lo stato sionista, a fronte del rifiuto statunitense di bombardare il sito del reattore siriano, abbia proceduto in proprio cogliendo di sorpresa le forze armate siriane e procurando a Dagan e al Mossad molto prestigio ed altrettanti finanziamenti. La collaborazione con gli statunitensi consentì all'Istituto di intraprendere una lunghissima preparazione e finalmente di assassinare a Damasco Imad Mughniyeh, che gli era sfuggito per trent'anni. In meno di sei mesi, scrive Bergman, lo stato sionista era riuscito a privare il Fronte radicale di un impianto nucleare e di un combattente che si rivelò insostituibile: poi ad agosto 2008 Tsahal uccise ricorrendo a due cecchini il generale Suleiman nella sua villa di Tartus. Primo (e non ultimo) caso in cui lo stato sionista prese di mira un ufficiale di un governo legittimo.
Dagan, racconta quindi Bergman, si è quindi dedicato a contrastare il programma nucleare della Repubblica Islamica dell'Iran in collaborazione con gli statunitensi: sanzioni economiche, pressioni diplomatiche, sostegno a minoranze e gruppi di opposizione per sovvertire le istituzioni della Repubblica Islamica, ostacoli alle forniture di materiali strategici e operazioni sotto copertura con sabotaggi e uccisioni mirate. In questo, il Mossad ha colpito personale governativo di uno stato sovrano non coinvolto in attività militari.
L'ultimo capitolo è intitolato Un impressionante successo tattico, un disastroso fallimento strategico. Il riferimento immediato è all'assassinio dell'operativo di Hamas Mahmoud al Mabhouh, perpetrato dal Mossad a Dubai nel gennaio 2010 -dopo vari tentativi rischiosi e infruttuosi- con una iniezione di succinilcolina. Il successo tattico aveva comportato l'infiltrazione negli EAU di quasi trenta operativi; il disastro strategico era consistito nella perfetta ricostruzione dell'operazione che la polizia locale poté fare grazie alle tracce elettroniche e documentali lasciate dal Mossad, e che rivelò con il massimo della pubblicità. Questo non fece crollare la popolarità del Mossad in patria (anzi) e non fermò le operazioni contro l'Iran, che portarono alla pianificazione e alla preparazione di un attacco militare in grande stile costate -da sole- due miliardi di dollari. Bergman scrive che l'iniziativa, voluta da Netanyahu, fu considerata da Dagan avventata e controproducente e che la rottura fra i due fu insanabile. Col successore di Dagan gli omicidi mirati e gli attentati in Iran ripresero, compiuti da esponenti delle minoranze e dei movimenti di opposizione. Attacchi militari in Sudan ostacolarono il flusso di armi diretto a Gaza. Bergman è sicuro che se i negoziati segreti in Oman con gli USA fossero iniziati nel 2014 invece che nel 2012 la Repubblica Islamica dell'Iran vi sarebbe arrivata molto più indebolita sotto ogni punto di vista.
In conclusione, Bergman ricorda che Meir Dagan, Sharon e buona parte dello establishment sionista sono stati convinti per molti anni che la forza potesse risolvere tutto; gli stessi successi del Mossad hanno indotto i sionisti a pensare che le azioni sotto copertura potessero avere valore strategico e che le si potesse impiegare al posto della diplomazia. Solo alla fine della loro vita Dagan e lo stesso Sharon avevano capito che Netanyahu avrebbe portato a uno "stato binazionale" percorso da tensioni interne e repressione continua, infrangendo l'idea sionista di "uno stato ebraico democratico a larga maggioranza ebraica", e che il rischio di boicottaggi internazionali era concreto. La testi di fondo del libro è che a settant'anni dalla fondazione lo stato sionista avesse conseguito successi tattici fuori dall'ordinario, cui corrispondeva un disastro strategico dalla portata altrettanto vasta.


Ronen Bergman - Uccidi per primo. La storia segreta degli omicidi mirati di Israele. Milano, Mondadori 2018. 768pp.