Le ossa dei Caprotti riguarda le vicende personali, familiari e professionali di uno degli esponenti di una famiglia di industriali lombardi a tutt'oggi padrona di una ramificata catena di supermercati.
Giuseppe Caprotti apre il suo racconto con Il testamento, un primo capitolo in cui spiega come la morte di suo nonno Giuseppe -in un incidente d'auto nel 1952- avesse lasciato orfani Bernardo, Guido e Claudio. L'A. mette immediatamente in evidenza il "carattere litigioso" di Bernardo e il "potere dispotico" da lui esercitato in casa e in azienda, avvertendo il lettore delle brutte conseguenze di tutto questo per le dinamiche familiari. La storia della famiglia, documentata almeno dalla fine del XVII secolo e punteggiata dal XIX in poi di commercianti, avventurieri e soprattutto litigiosi imprenditori tessili, viene trattata in un lungo excursus ricco di dettagli non sempre edificanti; a togliere la cotoniera Manifattura Caprotti dalle incertezze dovute a una gestione spesso poco razionale sarebbe stato solo il citato Giuseppe nel 1949, usando una altolocata parentela statunitense per ottenere fondi dal Piano Marshall. Per testamento Giuseppe Caprotti aveva escluso Bernardo dal retaggio dei beni di famiglia più prestigiosi lasciandogli invece la direzione della manifattura; nonostante questo, scrive L'A., i tre fratelli riuscirono ad affrontare gli anni successivi senza troppi contrasti fino alla comparsa di Nelson Aldrich Rockefeller.
In l'arrivo dei Marines L'A. riepiloga le vicende che portarono i tre fratelli ad aprire il primo supermercato milanese nel 1957, iniziando con l'introduzione delle figure di James Hugh Angleton -capo fin dal 1933 della NCR a Milano- e del figlio James Jesus, capo della CIA nella penisola italiana. J.H. Angleton sarebbe stato il tramite con gli interessi dei Rockefeller e servendosi di contatti reperiti nel mercato delle opere d'arte avrebbe approntato una cordata locale con Mario Brunelli, i fratelli Crespi, all'epoca editori del Corriere della Sera, e i Caprotti (per una quota di assoluta minoranza); "Tutti eredi di solide dinastie di industriali cotonieri". L'A. specifica che i Rockefeller avevano già all'epoca esportato il loro modello in Venezuela, a Porto Rico e in Perù: sul piano politico l'intento era quello di dimostrare le potenzialità dell'iniziativa privata, di qui l'interesse della CIA. L'A. spiega che la IBEC dei Rockefeller nella penisola italiana si trovò davanti alla burocrazia ostile, ai dettaglianti inferociti e soprattutto a un'evasione fiscale endemica e formalizzata dall'uso di una contabilità multipla: una per l'impresa in sé, una per i soci da ingannare, e una per il fisco. La pretesa della IBEC di rinunciare a questa prassi, scrive, non facilitò i rapporti con gli investitori locali. L'attivo dei conti richiese due anni, dopo i quali -prima di lasciare tutto agli azionisti locali- la IBEC iniziò a impiantare una catena di approvvigionamento propria per varie derrate. I soci di minoranza accettarono le condizioni della IBEC e vollero che i punti vendita fossero repliche esatte di supermercati statunitensi, condotti da management statunitense. L'A. rileva che questo apparente dettaglio serve a confutare il "mito distorto" familiare per cui Esselunga sarebbe stata una creazione di Bernardo Caprotti, che invece vi entrò operativamente soltanto nel 1965 e fu investito solo di riflesso dall'impronta statunitense conferita all'impresa dal suo primo management, capeggiato da Richard Bogaart. L'abbandono degli statunitensi nel 1960, sottolinea il figlio di Bernardo, avrebbe sconvolto i rapporti tra i soci lombardi spezzando amicizie di una vita e rompendo nel corso degli anni anche legami di sangue.
La lotta per il controllo, scrive G. Caprotti, si protrasse per dieci anni. Guido Caprotti e Marco Brunelli fondarono nel 1960 un'altra catena di supermercati a Roma, dove IBEC non aveva interessi. L'A. mette nuovamente in luce la "tendenza alla prevaricazione" di Bernardo Caprotti, che troncò ogni rapporto con un Brunelli che avrebbe dovuto rilevare parte delle quote della IBEC per ritrovarsi comunque in minoranza. L'A. descrive come i Caprotti avrebbero rilevato il 51% dagli statunitensi con denaro del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e soprattutto con denaro ottenuto dalle attività di famiglia, più una ingentissima somma -mai restituita, a quanto risulta- versata dalla madre. Nel 1971 i Caprotti avrebbero completato l'acquisto delle quote rilevando la partecipazione da una società detenuta da Michele Sindona.
Il Made in Brianza del terzo capitolo introduce a una descrizione della vita familiare negli anni dopo il 1960; alla definitiva uscita degli statunitensi Bernardo Caprotti va a dirigere da Pioltello la Esselunga milanese, Claudio si occupa di quella fiorentina, Guido della Manifattura di Albiate. Di rilevante, in una trattazione ricorrente nella memorialistica degli straricchi, la nota secondo cui Bernardo Caprotti avrebbe sempre manifestato "una latente insofferenza" nei confronti di Claudio e una generica tendenza al soverchio esercizio delle proprie ragioni cementata dalla frequente propensione a condotte anaffettive, al passaggio a vie di fatto, dalla ricerca del denaro come mezzo per l'esercizio del potere e -da un certo punto in avanti- anche da una ricorrente ideazione a contenuto persecutorio. L'A. ascrive a ragioni deteriori l'approfondirsi dell'ostilità fra Bernardo, Guido e Claudio, e asserisce che Bernardo approfittò della situazione venutasi a creare per emarginare Claudio -lasciato solo formalmente in consiglio di amministrazione- e poi per rilevare le quote di Esselunga da Guido, cui lasciò la Manifattura. Esselunga distribuirà dividendi sempre più alti di cui Bernardo avrebbe nascosto l'esistenza, per usarli poi per diventarne unico padrone fidando nell'assenza di rapporti tra i fratelli. La crisi del tessile porterà alla fine della Manifattura, rilevata diversi anni dopo dalla stessa Esselunga "per un valore pari a zero" e tornata con sorprendente rapidità fra le migliori industrie del settore. L'A. descrive infine l'arbitrato che nel 1981 portò risarcimenti multimiliardari ai fratelli minori di Bernardo Caprotti, e approfondisce gli aspetti interpersonali e familiari meno riferibili di tutta la vicenda a tutto disdoro del principale protagonista. Il titolo del libro viene dalla cappella mortuaria di Albiate, sul cui restauro Bernardo informò tutti i familiari per iscritto documentando con puntiglio le condizioni dei singoli feretri.
In La scuola di Chicago Giuseppe Caprotti non affronta temi economici in prospettiva liberista. Si limita a ripercorrere le vicende che dopo la laurea in storia lo hanno portato dal 1986 a lavorare in Esselunga, previo un apprendistato statunitense (a Chicago, appunto) presso i supermercati Dominick's nel corso del quale percorse provvisoriamente molte tappe della carriera. Dopo aver enumerato i pregi e le competenze del padre in materia di organizzazione e di gestione industriale, l'A. ne denuncia i limiti di un accentratore cui è aliena la categoria mentale della mediazione e "quasi infastidito dalle idee altrui", di cui non manca all'occasione di appropriarsi senza ringraziarne la fonte. I successivi anni l'A. afferma di averli trascorsi da limogé, riuscendo solo con molta difficoltà a superare i fedelissimi del padre -descritti nei loro comportamenti e nella loro sorte, non sempre delle più augurabili- quando si trattava di correggere o di ribaltare "tanti meccanismi consolidati e in parte arrugginiti". Su Bernardo Caprotti e sui suoi comportamenti frequentemente sopra le righe, il capitolo fornisce altra aneddotica abbondante.
La battaglia per il rinnovamento va faticosamente avanti per tutto il decennio successivo con l'estensione dell'offerta "non food" e la razionalizzazione di quella propriamente alimentare, l'introduzione della contabilità industriale, l'apertura di un ufficio marketing, l'adozione delle "carte fedeltà" fino alla differenziazione della gamma con gli alimenti biologici, all'apertura di un ufficio stampa, all'introduzione dello e-commerce e alla valorizzazione del lavoro di squadra, fino alla costruzione di una centrale acquisti e alla sistematica ridefinizione dei contratti con i fornitori. Più interessato all'architettura dei punti vendita che agli aspetti commerciali -cui delega il figlio, prima di nominarlo amministratore delegato- Caprotti senior sarebbe stato comunque fra i più solerti finanziatori della campagna elettorale che avrebbe portato all'esecutivo Berlusconi del 2001, e tenta una silenziosa scalata a un gruppo concorrente in cui si ritrova in minoranza, senza ottenere né un dividendo né tanto meno un posto in consiglio di amministrazione. Pare che nello stato che occupa la penisola italiana le minoranze in una società non quotata non abbiano praticamente alcun diritto; un'esperienza di cui l'A. avrà modo di servirsi. Il testo presenta una ricostruzione delle complicate operazioni, descritte sommariamente previa richiesta di firme e sottoscrizioni teoricamente formali, con cui Bernardo Caprotti metterà in una situazione analoga l'A. e la sorella Violetta, a tutto vantaggio della seconda moglie e della ultimogenita. Al pari dei capitoli precedenti, gli aneddoti sul modo per lo meno estroso di rapportarsi con gli altri da parte di B.C. e sulla sua rara capacità di negare l'evidenza circa la bontà delle altrui idee, sono diffusi e numerosi. L'A. sottolinea ad esempio come lo scontro commerciale (e fiscale, con tanto di dossier portati in Unione Europea) con la Lega delle Cooperative sia stato da lui intrapreso fin dal 1999 nell'indifferenza ostile di Bernardo Caprotti, che solo nel 2007 avrebbe pubblicato il Falce e carrello in cui si presentava come imprenditore liberale in lotta contro la connivenza fra politica e cooperative considerate "rosse".
Montenapoleone in periferia si apre con la descrizione di una Esselunga in concreta ascesa. L'A. scrive che la sua amministrazione e il nuovo management hanno trasformato un'azienda solida e ben gestita in un'azienda solida, ben gestita e moderna, con considerevolissimi risultati non solo sul fatturato ma anche sugli utili. Sul cui bilancio 2003 si abbattono i risultati di una serie di opinabili operazioni immobiliari che Caprotti senior ha organizzato con Luigi Zunino e grosse perdite su contratti derivati; l'A. ne incolpa il padre, di cui mette in evidenza la propensione a scaricare responsabilità sui collaboratori -non importa quanto stretti e fedeli- "pur di uscirne pulito e preservare la sua immagine di imprenditore infallibile" e introduce le personaggi e provvedimenti che prepareranno la sua estromissione l'anno successivo.
Nel capitolo che segue Giuseppe Caprotti descrive nei dettagli tutti i sintomi di un clima aziendale che a fine 2003 è diventato tossico in ogni suo aspetto e in cui Caprotti senior gli fornisce ogni giorno e con ogni pretesto esempi dei meno sopportabili fra i comportamenti ritratti in precedenza. Fino a colpirlo col teatrale licenziamento di tre manager della sua divisione con accuse tra l'irrilevante e l'inventato, emarginandolo esplicitamente dal resto dell'organizzazione e spingendolo a condurre varie indagini in proprio per cercare di arrivare a capire i motivi di un simile trattamento. Da uno psicologo del lavoro ben addentro alla realtà aziendale -e che molti anni prima lo aveva sottoposto a un test di Rorschach che gli era stato fatto credere di routine- l'A. ottiene un documento in cui si ipotizzano in un "Signor X" di facile identificazione comportamenti denotanti una interpretazione delirante del reale, probabilmente dovuti a una senescenza patologica su base organica.
Secondo Giuseppe C. l'avversione per l'on line manifestata dal padre in ogni sede e in ogni occasione -al punto di negare tranquillamente l'evidenza sulla redditività di iniziative di questo genere- sarebbe stata non solo parte della campagna denigratoria avviata nei suoi confronti e arrivata anche nelle note integrative dei bilanci aziendali, ma anche uno dei motivi del ritardo con cui le imprese della GDO della penisola italiana hanno considerato il settore, fidandosi dell'autorevolezza di chi la professava e restando bruciate da Amazon.
Nell'ottavo capitolo l'A. inizia a descrivere le puntigliose e tutt'altro che desiderate attenzioni di cui viene fatto oggetto negli anni successivi al suo allontanamento da Esselunga, avvenuto di fatto nel 2004. Episodi di estesa denigrazione mediatica (in un caso l'A. venne accostato a ricche statunitensi estromesse dall'asse ereditario per la loro condotta vergognosa), convocazioni derisorie e provocazioni belle e buone che tra le altre cose lo avrebbero immesso in un vicolo cieco professionale da cui gli sarebbe risultato impossibile uscire.
Il nono capitolo è dedicato a gli anni del declino in cui un Bernardo Caprotti che ormai vede complotti ovunque -su tutti quello che vorrebbe i "comunisti" (risate in sottofondo) della Coop in procinto di acquistare la sua impresa- tronca ogni rapporto con professionisti con cui aveva collaborato praticamente da sempre, e arricchisce in più occasioni la spiazzante aneddotica da decenni associata alla sua persona. L'A. nota che nel 2007 il libro Falce e carrello fa sì che le gazzette descrivano Bernardo Caprotti "come un mito, l’uomo che denuncia il modo malavitoso con cui la concorrente Coop conduce i suoi affari. Pochi sottolineano che la prossimità descritta nel libro fra la Coop e alcune alcune amministrazioni locali, in particolare in Emilia-Romagna, in Liguria, in Toscana, è identica a quella di Esselunga in Lombardia [...], dove mio padre ha finanziato per anni i partiti al potere". Nella metodica negazione, cancellazione o appropriazione indebita dell'operato del figlio, B.C. si sarebbe invece dimostrato capacissimo di tutto, anche di rovinare fornitori che non collaboravano in questo senso, e purtroppo per lui anche di abboccare all'amo di alcuni fra i più alacri gazzettieri della "libera informazione" peninsulare, che in una delle "vicende più meste e censurabili" dei suoi ultimi anni lo porteranno a essere condannato a sei mesi per diffamazione.
Nel decimo capitolo Giuseppe Caprotti continua descrivendo come alla campagna denigratoria nei suoi confronti portata avanti dall'ormai ottantacinquenne Bernardo attorno al 2011 fossero andati ad aggiungersi episodi vandalici, pedinamenti e intimidazioni più o meno gravi, di cui gli sarebbe stato lungo ma non difficile rintracciare la commmittenza e che andarono a colpire anche parenti e collaboratori. L'A. scrive che nel corso degli anni, dopo infiniti dubbi e a prezzo di ricerche faticose e costose, sarebbe riuscito ad appurare che al di là delle apparenze il padre aveva ripartito le quote sociali di Esselunga servendosi di una fiduciaria di cui aveva il pieno controllo, potendo quindi revocarle o modificarne l'assetto in ogni momento. Cosa che sarebbe avvenuta senza preavviso proprio nel 2011 dando il via a una serie di cause civili che avrebbero visto Giuseppe Caprotti sempre sconfitto contro un padre che rincarerà la dose servendosi dell'amplissimo credito di cui gode nella "libera informazione".
Nel 2016, l'addio descritto nell'ultimo capitolo, in cui l'A. si sofferma a lungo sulle vicende del testamento del padre e dei relativi lasciti, che B.C. avrebbe avuto cura di disporre in modo che costituissero un'ultima attestazione di disistima nei confronti del figlio e un'ultima attestazione di arroganza nei confronti di chi aveva avuto il torto di contraddirlo.


Giuseppe Caprotti, Le ossa dei Caprotti. Una storia italiana. Milano, Feltrinelli 2023. 400 pp.