Questo saggio di Norman G. Finkelstein è uscito la prima volta nel 2000 e costituisce anche a distanza di tanti anni una lettura costruttiva per chiunque intenda avere uno sguardo d'insieme su alcune fra le più ricorrenti tematiche della propaganda sionista. L'autore è convinto che la distruzione degli ebrei d'Europa sia stata consapevolmente utilizzata come arma ideologica da determinati ambienti e organizzazioni ebraiche statunitensi, per mantenere una posizione di vantaggio politico ed economico e per curare con logiche da lobby gli interessi dello stato sionista.
Nell'introduzione Finkelstein afferma di essersi interessato all'argomento per diversi motivi due motivi sostanziali: il saggio di Peter Novick intitolato The Holocaust in American Life -il cui autore sostiene che la costruzione della memoria sull'argomento sia stata elaborata rispettando precisi interessi- e le vicende di una vita personale in cui, pur da figlio di ex deportati, ha sempre considerato lo sterminio di cui pure aveva le prove tangibili come un passato cui non riusciva a saldare la normalità del proprio presente: le sofferenze patite non ricevevano pubblici riconoscimenti e l'argomento in generale non sembrava interessare a nessuno, eccezione fatta per una peraltro validissima produzione accademica.
Il profitto dell'Olocausto ricostruisce le vicende che hanno portato alla costruzione della memoria in modo funzionale agli interessi della borghesia ebraica statunitense e a quelli dello stato sionista. Finkelstein nota come per molti anni l'interesse per il tema negli USA fosse quasi inesistente per mancanza di un pubblico interessato. Secondo l'A., le élite ebraiche non facevano che conformarsi alle posizioni politiche ufficiali del paese con un atteggiamento che avrebbe favorito la loro assimilazione e il loro accesso al potere: la Repubblica Federale di Germania era un alleato contro l'URSS e tanto bastava per non comprometterne l'amicizia sollevando argomenti scomodi. Nel clima anticomunista dell'epoca le élite -tramite organizzazioni come l'American Jewish Committee, il Concgresso Mondiale Ebraico, la Anti Defamation League- collaborarono anzi facendo delazione verso gli ebrei di sinistra, che per giunta erano fra i pochi a sollevare l'argomento. Negli stessi anni le stesse élite guardarono preoccupate alla nascita dello stato sionista, la cui esistenza avrebbe potuto portare gli ebrei davanti ad accuse di "doppia fedeltà" come quelle sofferte ad opera dell'antisemitismo europeo e la cui politica era all'epoca guidata da est europei tradizionalmente progressisti. La situazione sarebbe cambiata, drasticamente, con la vittoria sionista nella Guerra dei Sei Giorni. Diventato "procuratore del potere statunitense in Medio Oriente", lo stato sionista vide affluire sostegno militare ed economico: gli ebrei erano in prima linea a difendere gli interessi occidentali. Puntati i cannoni "nella giusta direzione", da spauracchio della doppia fedeltà lo stato sionista diventò simbolo di superfedeltà, nota Finkelstein. Uno stato sionista che fosse "una specie di Sparta legata al potere statunitense" avrebbe consentito alla élite ebraica degli USA di presentarsi come portavoce delle ambizioni imperialistiche del paese. Finkelstein sostiene che ricordare lo sterminio sarebbe servito a proteggere questa posizione strategica. Finkelstein sostiene che la élite ebraica statunitese fino al 1967 aveva ricordato lo sterminio solo quando era politicamente conveniente farlo. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, con l'allineamento delle posizioni statunitensi a quelle dello stato sionista, l'argomento sarebbe servito per deviare qualsiasi critica; per Finkelstein, una "fiche dal valore incalcolabile in una partita a poker dove si gioca forte". Fino a quando lo stato sionista fu percepito come vulnerabile, rincara la dose l'A., l'interesse della politica statunitense e della stessa élite ebraica nei suoi confronti fu per lo meno tiepido. Salvo virare una volta che esso ebbe dimostrato la propria forza. Allo stesso modo, il generalizzato declinare dell'antisemitismo negli USA agevolò l'ascesa degli ebrei locali, che presero le distanze dagli "antichi alleati che contavano fra i non abbienti" di altre minoranze discriminate. Anzi, le élite avrebbero iniziato ad attivarsi con piglio aggressivo per difendere i propri interessi corporativi e di classe, tacciando di antisemitismo tutti coloro che eccepivano al loro nuovo corso conservatore. Rievocare le persecuzioni del passato sarebbe servito a respingere le critiche sul presente, specie postulando la totale irrazionalità dell'antisemitismo che le aveva scatenate e negando qualsiasi possibilità che alla sua base fosse mai esistito un reale conflitto di interessi.
In Truffatori, venditori e storia Finkelstein continua a sostenere che la memoria dello sterminio viene spesso utilizzata non per comprendere il passato, ma per manipolare il presente. Il suo utilizzo come arma propagandistica da parte dello stato sionista presume l'unicità storica di quanto accaduto e il suo aver segnato l'apice dell'antisemitismo; due affermazioni che l'A. considera successive al giugno 1967. Finkelstein attribuisce al carattere di unicità attribuito da allora allo sterminio un carattere assiomatico: "provarla è il compito assegnato, confutarla equivale a negare l'Olocausto stesso", che secondo Novick sarebbe stato oggetto di una "sacralizzazione" che farebbe di sopravvissuti come Elie Wiesel qualcosa di simile a dei (ben retribuiti) sacerdoti. Secondo Finkelstein mettere in pratica per questo argomento "le normali procedure comparative della ricerca scientifica" imporrebbe l'adozione di molte cautele per evitare di essere accusati di "banalizzare l'Olocausto". L'unicità dello sterminio autorizzerebbe chi vi rivendica il ruolo della vittima a porsi su un piano diverso, per non dire superiore, a quello degli altri, e ad accedere a un "capitale morale" cui ricorrere anche come alibi. Oltre a questo carattere di unicità, lo sterminio possiderebbe anche quello di rappresentare il vertice di una ostilità antisemita che si vorrebbe sempiterna. E questo secondo dogma dell'eterno odio contro gli ebrei è stato utile sia per giustificare la necessità di uno "stato ebraico" quanto per rendere conto della costante ostilità nei confronti di esso. Lo stato sionista avrebbe carta bianca: data la "ferrea determinazione dei gentili nell'uccidere gli ebrei", essi avrebbero ogni diritto di proteggersi come meglio credono; il trattamento inumano dei non ebrei ne viene giustificato a priori. L'unicità ebraica nella sofferenza, l'eterna colpevolezza dei non ebrei e la difesa incondizionata dello stato sionista sarebbero per Finkelstein i "dogmi chiave dell'Olocausto" al centro di una produzione letteraria capace di produrre assurdità e vere e proprie frodi. L'A. cita la vicenda editoriale de L'uccello dipinto di uno Jerzy Kosinski definito "abile truffatore letterario" e quella di Frantumi. Un'infanzia 1939-1948 del sedicente scampato allo sterminio Binjamin Wilkomirski, romanzi presuntamente (e mendacemente) autobiografici in cui ricorrono contenuti granguignoleschi e postulati sulla crudeltà metafisica degli antisemiti, accolti negli ambienti dove ci si appropria indebitamente della storia a fini ideologici con un entusiasmo che a volte non è venuto meno neppure a fronte di vere e proprie sbugiardature. Finkelstein cita altri casi simili notando che negli stessi ambienti si è soliti citare il Mufti di Gerusalemme Hajj Amin el-Husseini come responsabile dello sterminio -uno stato sionista convinto delle proprie ragioni lo avrebbe senz'altro trascinato in tribunale, e invece morì nel 1974 indisturbato- o avallare opere di nullo valore scientifico come I volenterosi carnefici di Hitler di Daniel Jonah Goldhagen, definito "un Frantumi con le note a piè di pagina" che il suo autore tentò di difendere facendo causa a chi lo criticava. La postulata unicità dell'Olocausto, ricorda l'A., è stata difesa da Wiesel e dagli altri interessati alla corrispettiva industria ostacolando attivamente la ricerca e la divulgazione su casi analoghi, primo fra tutti lo sterminio degli armeni. Il ricordo dello sterminio nel museo memoriale di Washington sarebbe secondo Finkelstein organizzato secondo criteri di convenienza politica: voluto da Carter per placare finanziatori e sostenitori ebrei irritati dalle sue affermazioni sui "legittimi diritti" dei palestinesi, nel suo allestimento metterebbe in secondo piano l'origine cristiana dell'antisemitismo europeo, minimizzerebbe i fenomeni di razzismo e di intolleranza negli Stati Uniti, ne esagererebbe il ruolo nella liberazione dei campi di concentramento e tacerebbe sul diffuso reclutamento di criminali di guerra nazionalsocialisti dopo la fine del conflitto. E soprattutto -a garanzia della unicità dell'Olocausto- farebbe degli ebrei le uniche vittime del nazionalsocialismo.
All'inizio de La duplice estorsione Finkelstein abbonda col sarcasmo ricordando che quando la Germania postbellica ha iniziato a pagare risarcimenti ai sopravvissuti (stimati in centomila persone) varie persone non hanno esitato a costruirsi un passato conforme ai criteri richiesti. Lo stesso Raul Hilberg che nel 1961 pubblicò La distruzione degli ebrei d'Europa era convinto che "un'alta percentuale di errori" da egli stesso scoperta nei suoi lavori poteva "essere attribuita ai testimoni". Il fatto che i sopravvissuti fossero "venerati come santi laici" avrebbe agevolato gli intenti in malafede sia sul piano individuale sia a livelli più alti. Secondo Finkelstein la maggior parte dei fondi che le organizzazioni ebraiche statunitensi ricevettero dalla Germania a titolo di risarcimento sarebbero poi stati usati non per compensare le singole vittime ma per beneficare le comunità, finanziare istituzioni culturali e organizzare iniziative di propaganda avvalendosi di professionisti tutt'altro che disposti a lavorare gratis. L'A. considera l'operato di queste organizzazioni come la duplice estorsione citata, diretta sia contro i paesi europei sia contro gli ebrei che avrebbero avuto pieno titolo di trarre beneficio dagli accordi. Finkelstein racconta di come nel 1995 la Svizzera si fosse scusata ufficialmente per aver negato asilo agli ebrei durante la guerra. In quelle circostanze il Congresso Mondiale Ebraico (a sentir lui, un'organizzazione "moribonda" fino alla sua campagna di denuncia di Kurt Waldheim come criminale di guerra) avrebbe postulato l'esistenza, nelle banche elvetiche, di ingentissimi fondi depositati da vittime dello sterminio. Una volta appurato che in Svizzera esisteva soltanto qualche centinaio di conti dormienti per poco più di trenta milioni di dollari, il Congresso avrebbe aizzato tramite la propria ricchissima dirigenza e i suoi referenti politici tutto lo establishment ebraico statunitense e tutti i media sensibili al tema contro i perfidi banchieri svizzeri rei di tenere in ostaggio da cinquant'anni i beni delle vittime delle camere a gas. Una campagna diffamatoria in cui l'intera Confederazione fu accusata di varie nefandezze e in cui si distinse la direzione del Centro Simon Wiesenthal, un'organizzazione non caritatevole che sarebbe nota per le mostre alla Disneyland sull'Olocausto e per "l'uso vincente di tattiche di terrore sensazionalistico per raccogliere fondi". Finkelstein scrive che in attesa che una commissione facesse luce sulla fondatezza delle pretese del Congresso Mondiale Ebraico, a una Svizzera sottoposta a class action miliardarie e al boicottagglio economico fu praticamente estorta l'istituzione di un fondo da duecento milioni per soddisfare i sopravvissuti più indigenti. Cui sarebbero giunte poche richieste, mettendo in pericolo la credibilità della macchinazione. I rapporti stilati dalla commissione di inchiesta avrebbero appurato l'infondatezza di quasi tutte le accuse, provato l'assenza di malafede e stimato in duecentosessanta milioni al massimo il valore di diecimila conti (su cinquantaquattromila probabilmente collegati alle vittime del nazionalsocialismo) su cui esistevano informazioni sufficienti. Una somma lontana dai trenta milioni dichiarati dalle banche, ma anche dalle astronomiche pretese avanzate dal Congresso Mondiale Ebraico. Nonostante questo, a metà agosto 1998 le banche svizzere avrebbero comunque capitolato accettando di pagare un miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari per le tre class action sui conti dormienti, sul rifiuto delle concessioni di asilo e sul beneficio ricavato dal lavoro degli internati ebrei. Finkelstein specifica che resta poco chiaro quali benefici trassero da tutto questo le "vittime bisognose dell'Olocausto", tra avvocati dalle parcelle milionarie e patrocinatori poco inclini al disinteresse. Finkelstein nota che conti dormienti di analoga origine erano presenti anche nelle banche statunitensi, dove la dottrina giuridica della "proprietà caduca" aveva consentito il loro incameramento da parte dello stato nella completa indifferenza del Congresso Mondiale Ebraico, e che si sarebbe potuta indagare anche la situazione nelle banche dello stato sionista; una eventualità scartata esplicitamente dalle organizzazioni che nel caso dei conti svizzeri avevano dato prova di infaticabile e costosissimo attivismo. L'A. descrive poi come quella che definisce la "industria dell'Olocausto", imbaldanzita dal successo, fosse immediatamente passata ad attaccare le grandi industrie private tedesche. Che "rendendosi conto dell'inesorabilità dell'infernale macchina dell'Olocausto" cedettero immediatamente accordandosi per una cifra considerevole, la cui destinazione avrebbe seguito le stesse dinamiche dei risarcimenti ottenuti dalla Svizzera.
L'A. nota che nelle loro iniziative le élite ebraiche statunitensi avrebbero oltremodo ingigantito il numero dei "sopravvissuti all'Olocausto" finendo col portare acqua alle tesi negazioniste.
Finkelstein descrive poi come quelle che considera vere e proprie estorsioni su larga scala abbiano interessato, lontano dal clamore mediatico, anche i paesi dell'Europa orientale. Dove vengono presentate come iniziative dirette al "rinnovamento della vita ebraica", portate avanti grazie al sostegno dei funzionari-chiave dell'esecutivo statunitense. L'A. specifica che nel caso della Polonia e soprattutto della Bielorussia le cose non sono andate come da copione, e che il risultato più rimarchevole del piglio ricattatorio profuso in paesi dal reddito pro capite bassissimo non sarebbe stato altro che quello di provocare sul serio la rinascita di un antisemitismo virulento. Con una perfida nota conclusiva, Finkelstein rileva come il denaro ricavato con questi sistemi abbia finito per nutrire burocrazie lussuose e per finanziare una lunga serie di iniziative egoriferite, discutibili tanto nelle intenzioni quanto nei risultati.
Nella Conclusione Finkelstein esamina l'impatto che lo sterminio ha avuto negli Stati Uniti rifacendosi alle osservazioni critiche di Peter Novick. Nel 2000 le ricerche accademiche su questo tema, citato per lo più a sproposito praticamente in tutte le cause politiche, sarebbero ammontate a oltre diecimila contribuendo senza dubbio a inserire l'Olocausto nella memoria statunitense, ma contribuendo anche ad additare crimini altrui alla deplorazione di chi non intende avere a che fare con i propri. Secondo Finkelstein la dottrina statunitense del "destino manifesto" avrebbe anticipato quasi tutti gli elementi dogmatici e programmatici della politica del Lebensraum, e non mancaherebbero esempi di pratiche analoghe (e precedenti) a quelle nazionalsocialiste nelle leggi sulle sterilizzazioni forzate e sulle discriminazioni razziali. La propaganda statunitense inoltre sarebbe solita tracciare analogie tra lo sterminio e l'operato di nemici designati, ritratti come invariabilmente propensi al genocidio. Un vocabolo di cui non tollera ovviamente l'utilizzo quando si tratta dell'operato di paesi amici. Il carattere estremo dello sterminio degli ebrei avrebbe reso la vicenda un paradigma di oppressione e di atrocità che è facile usare come randello ideologico invece che come bussola morale: l'ebraismo statunitense se ne sarebbe servito per sviare ogni critica dallo stato sionista e dalla sua politica moralmente indifendibile. Secondo Finkelstein l'ebraismo statunitense e lo stato sionista dipenderebbero entrambi dai loro rapporti con la élite del potere statunitense: se lo stato sionista uscisse dalle grazie del potere statunitense, scommette l'A., le stesse voci che lo difendono oggi manifesterebbero una coraggiosa disaffezione nei suoi confronti, e accuserebbero gli ebrei statunitensi di averne fatto un credo religioso. In chiusura, Finkelstein ha aggiunto al libro due appendici legate agli sviluppi successivi alla sua uscita.
La prima risale al novembre 2000. L'A. conferma la propria tesi per cui la "industria dell'Olocausto" avrebbe trovato due fonti di guadagno, da una parte i paesi europei e dall'altra i sopravvissuti di cui diceva di rappresentare gli interessi. Secondo L'A., degli aventi diritto ai nove miliardi di dollari di cui disponeva in quel momento il Congresso Mondiale Ebraico non era nemmeno noto il nunero, e nessuno aveva neppure consultato i sopravvissuti quelli veri circa la istituenda fondazione che avrebbe dovuto occuparsi di loro. Nel settembre del 2000 il pagamento e la distribuzione di quanto "ricavato" dalla conciliazione con le banche svizzere sarebbe stato oggetto di un piano meticoloso -centinaia di pagine con oltre mille note- che l'A. definisce piano Gribetz. Di questo piano Finkelstein evidenzia le storture, le incongruenze, i temporeggiamenti cavillosi, i maldestri tentativi di gonfiare i numeri degli aventi diritto e la loro speranza di vita, nonché il fatto che pochi sopravvissuti avrebbero finito per trarre beneficio dal denaro svizzero. "Con ogni probabilità, la maggior parte dei fondi svizzeri verrà distribuita solo quando non sarà rimasto altro che un esiguo gruppetto di sopravvissuti. Una volta venuti a mancare questi ultimi, il denaro si riverserà nei forzieri delle organizzazioni ebraiche. Non c'è dunque da meravigliarsi se il piano Gribetz è stato elogiato all'unanimità dall'industria dell'Olocausto".
La seconda appendice è stata aggiunta all'edizione del 2002. Finkelstein vi sostiene che il suo saggio si fonderebbe su due tesi. La prima, quella per cui secondo le élite ebraiche statunitensi solo i tedeschi dovrebbero assumersi la responsabilità di fare i conti col proprio passato. La seconda, quella per cui le stesse élite sfrutterebbero la distruzione degli ebrei d'Europa da parte del nazionalsocialismo per ottenere vantggi politici e finanziari. Gli eventi sarebbero stati strumentalizzati prima per proteggere lo stato sionista dalle critiche, e poi per ricattare vari paesi europei. L'accusa che Finkelstein respinge è quella di aver inventato una teoria della cospirazione nel tentativo di descrivere l'operato delle organizzazioni ebraiche attive negli Stati Uniti. Dopo l'uscita del saggio un conteggio su quasi seimila conti dormienti in Svizzera riconducibili a individui vittime dello sterminio aveva portato a una cifra attorno ai dieci milioni di dollari interessi compresi, convalidando le accuse mosse da Hilberg al Congresso Mondiale Ebraico e alle cifre folli che aveva preteso e in parte anche ottenuto. Nel frattempo il redditizio modus operandi usato contro la Svizzera e contro le imprese tedesche era stato replicato con le banche francesi in cui i conti dormienti risultavano assai più numerosi, ma con risultati assai più vicini alle cifre realmente giacenti. Finkelstein riporta quindi le conclusioni della commissione Volcker, istituita e generosamente finanziata per indagare sul sistema bancario svizzero. La commissione non avrebbe trovato prove di una sistematica negazione dell'accesso ai beni dell'epoca dello sterminio ai sopravvissuti e ai loro discendenti, e non ha confermato che le banche svizzere fossero consapevoli della provenienza dell'oro acquistato dalla Germania nazionalsocialista. Sarebbe fondata invece, per ammissione degli stessi superstiti, l'accusa mossa da Finkelstein al Congresso Mondiale Ebraico di aver gonfiato il numero di ex internati sopravvissuti. E fondata sarebbe anche l'accusa, mossa allo stesso CME e alle organizzazioni contigue, di aver incamerato per un motivo o per l'altro la maggior parte del denaro ottenuto al netto delle parcelle plurimilionarie dei molti avvocati interessati all'affare. A fronte di questo comportamento, sottolinea Finkelstein, nel 2001 ventimila sopravvissuti veri avrebbero reagito fondando una associazione propria e in aperta rottura.
Finkelstein torna quindi a inveire contro la letteratura prodotta con l'avallo della "industria dell'Olocausto", di un livello tale da "confermare i giudizi più severi". In Mai più - Una storia dell'Olocausto di Martin Gilbert l'enfasi sciovinista avrebbe portato l'autore a farne dei Rambowitz. In Ripensare l'Olocausto Yehuda Bauer riuscirebbe a sostenere una tesi e la tesi opposta su una quantità di argomenti. Guenter Lewy invece, maligna l'A., ha descritto La persecuzione nazista degli zingari in termini tali che se al vocabolo "zingari" si sostituisse il vocabolo "ebrei" si susciterebbero reazioni facili da immaginare. Richard Overy invece nel suo Interrogatori - Come gli Alleati hanno scoperto la terribile realtà del Terzo Reich avrebbe usato le fonti con tale contraddittoria sciatteria da fornire argomenti al negazionismo.
L'A. è convinto che la "industria dell'Olocausto" si comporti secondo alcune linee guida facili da identificare. Una consiste nel "dare la priorità alla lotta contro l'antisemitismo tranne nei casi in cui è più conveniente non farlo": si demonizza l'esecutivo austriaco con Jorg Haider ma negli stessi giorni si negozia tranquillamente a Vienna un accordo di risarcimento. Un'altra, nel non tollerare il confronto dell'Olocausto "con altri crimini tranne nei casi in cui il confronto è conveniente dal punto di vista politico"; così, dopo le radicali operazioni urbanistiche a New York dell'11 settembre 2001 il fondamentalismo islamico è diventato "un nemico più formidabile del nazismo". Un'altra ancora, nel ricordare il genocidio nazionalsocialista sorvolando su tutti gli altri a cominciare da quello degli armeni.


Norman G. Finkelstein, L'industria dell'Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei. Rizzoli, Milano, 2004. 368pp.