Spaziocidio dell'architetto Eyal Weizman è stato pubblicato per la prima volta nel 2002 e successivamente riedito con varie integrazioni, tutte comprese nell'edizione uscita per Mondadori nel 2022. Il saggio racconta la storia dell'occupazione in Palestina dal punto di vista dell'architettura e intende evidenziare l'esistenza di una relazione tra due tipi diversi di trasformazione, quella violenta che arriva nei mass media e quella altrettanto distruttiva rappresentata da edifici, strade, tunnel e muri. La peculiarità della colonizzazione sionista viene indicata fin dalla prefazione proprio nella profonda e costante trasformazione dello spazio.
L'introduzione affronta il tema della architettura di frontiera a partire dagli anni successivi al primo accordo di Oslo nel 1993, con cui vennero drasticamente ridotti i permessi ufficiali per la fondazione di nuovi insediamenti nella Cisgiordania occupata. I coloni avrebbero iniziato a ricorrere a espedienti sempre più raffinati per aiutare il governo sionista "a raggirare tanto le sue stesse leggi quanto gli accordi internazionali". Weizman presenta il caso dell'insediamento di Migron, nato dal nulla sotto un'antenna per telefoni cellulari valutata come strategica dall'esercito sionista. Una valutazione che avrebbe consentito di edificare su terreni privati palestinesi senza il permesso dei rispettivi proprietari. Protagonisti di questo genere di iniziative -volte ad assicurare al controllo dello stato sionista più terre e più punti strategici possibile- sarebbero stati in quegli anni i giovani delle colline, autonominatisi continuatori della tradizione pioniera dei sionisti della prima ora e pronti a cacciare con la violenza i contadini palestinesi e ad impossessarsi dei loro raccolti. I territori occupati, propone Weizman, potrebbero essere visti come "una realtà frammentata e mobile" difficile da censire tramite la normale cartografia. Una realtà in cui l'urbanistica e l'architettura diventano strumenti strategici e mezzi di espropriazione: il territorio in cui i palestinesi vivono verrebbe continuamente rimodellato senza preavviso "stringendosi attorno a loro come un cappio". L'organizzazione dello spazio geografico nei territori occupati non sarebbe prerogativa dell'esecutivo sionista, ma apparterrebbe a vari soggetti non tutti statali, che opererebbero in una sorta di "caos strutturato" in cui la selettiva e spesso deliberata assenza di interventi statali favorirebbe processi deregolamentati di espropriazione violenta. La geografia elastica dei territori presenterebbe frontiere amovibili, elastiche e provvisorie la cui traduzione operativa viene indicata con una quantità di perifrasi, da "blocco stradale" a "area sterile". Il percorso del Muro costruito in Cisgiordania a partire dal 2002 testimonierebbe schermaglie e battaglie politiche e legali che ne hanno accompagnato l'edificazione. Il risultato non è solo quello dell'azione dei colonizzatori: i colonizzati reagiscono con successo tendendosi saldamente ancorati al territorio e non solo con la violenza politica ma anche con -sia pure sporadici- successi diplomatici e con la mobiliazione internazionale. Lo stato sionista si avvantaggerebbe della situazione perché la fluidità del contesto crea condizioni tropo complesse e illogiche perché si possa pensare a una separazione territoriale definita e definitiva: molti insediamenti sarebbero stati costruiti proprio per creare una "geografia irrisolvibile". Incertezza e fluidità promosse anche a livello linguistico perché dopo il 1967 si è affermato l'uso di indicare gli insediamenti a Gaza e in Cisgiordania con una quantità di nomi diversi, ciascuno dei quali sarebbe espressione di un diverso codice morale. Dagli yeshuvim agricoli fondati dai governi laburisti agli hitnahlut costruiti di fianco a centri palestinesi già esistenti, dai sobborghi detti moshav ai nuovi quartieri di Gerusalemme come gli shhunot. Lo stesso Weizman attesta la distinzione tra insediamenti "legali" e avamposti "illegali", nonostante il fatto che "questi ultimi siano spesso il primo passo nello sviluppo dei primi, secondo una prassi che è illegale dall’inizio alla fine". Insediamenti suburbani sarebbero stati definiti arim, "città", prima del raggiungimento dei ventimila abitanti che nei confini dello stato sionista sono il minimo per avere questa definizione, in modo da avallare il dato di fatto della loro esistenza. Weizman considera le pratiche del colonialismo sionista una sorta di "laboratorio dell'estremo" risultato di almeno cento anni di un sionismo politico che avrebbe gradatamente affinato tecniche di insediamento, di occupazione e di amministrazione e ritiene che il ritiro dai territori occupati sia conditio sine qua non per qualsiasi processo di pace. Se vista in rapporto col clima politico mondiale l'architettura dell'occupazione potrebbe essere letta come un anticipatore o come un banco di prova per processi politici mondiali: negli anni Ottanta essa rifletteva la fuga dei borghesi statunitensi dietro muri e recinzioni, motivata dal desiderio di difendersi dalla povertà e dalla violenza che quegli stessi muri avevano provocato: dopo l'11 settembre 2001 le colonie fitte di check point e di videosorveglianze hanno rispecchiato la politica di paura e di controllo totale avallata dalla "guerra al terrore". In questa prospettiva il modello delle architetture repressive dello stato sionista sarebbe stato esportato anche in altre realtà, come l'Iraq aggredito dagli USA. Weizman intende presentare nel libro le tecnologie e le pratiche dello apartheid che hanno consentito allo stato sionista di annettere territorio senza annettere la relativa popolazione. I militari sionisti nei territori occupati sovrintenderebbero a un mosaico di duecento spazi sigillati che circoscrivono città e villaggi palestinesi, all'interno di uno spazio più ampio sotto diretto controllo militare; i pianificatori generali avrebbero mirato al controllo effettivo del territorio tramite la fondazione di insediamenti sulle cime dei rilievi e la loro unione a mezzo viadotti e sopraelevate in modo da lasciare ai palestinesi solo gli stretti passaggi sottostanti.
In Interludio - 1967 Weizman riassume gli esiti del "contrattacco preventivo" della guerra dei sei giorni. L'A. nota che ad eccezione dell'area attorno a Gerusalemme tutti i territori occupati in quelle circostanze non vennero annessi, e rimasero territori occupati in cui il potere esecutivo, legislativo e giudiziario era in mano all'esercito sionista. L'A. rileva come il sottosuolo della Cisgiordania sia ricco d'acqua, e come i politici sionisti la considerino una risorsa irrinunciabile. Nel corso degli anni lo stato sionista avrebbe eroso il principio della sovranità palestinese fino a sottrarle il controllo del sottosuolo e a lasciare ai palestinesi solo il 17% della disponibilità annuale di acqua della falda, ammettendo per i palestinesi solo il ricorso a pozzi poco profondi. Weizman ricorda che nel 2005 lo stato sionista, nella persona di un generale che era anche il leader dei coloni, accusò i palestinesi di inquinare la falda. Un'accusa che non teneva conto del fatto che le autorità sioniste non avevano mai costruito le fognature necessarie (come sarebbe stato loro obbligo, in quanto occupanti), che la segregazione dei palestinesi in città e villaggi isolati ha provocato la nascita di oltre trecento discariche abusive, e che le acque di rifiuto degli insediamenti sionisti in alta quota non fanno altro che seguire la gravità, prima unendosi a quelle palestinesi e poi procedendo verso il Mediterraneo attraverso quello che è territorio dello stato sionista a tutti gli effetti. "Nei punti in cui il Muro è così alto da creare l’illusione di una separazione totale, la linea sottile delle acque scure e schiumose che scorrono attraverso e sotto di esso rimane l’unica traccia di un ecosistema condiviso".
Gerusalemme: pietrificare la città santa inizia esaminando il piano urbanistico varato nel 1968 nella città occupata, esplicitamente redatto in modo "da prevenire la possibilità di ripartirla". Nei decenni successivi sarebbero stati realizzati dodici "quartieri" ebraici in modo da dividere la città dai circostanti quartieri e villaggi palestinesi, e si sarebbe giunti alla costruzione di una metropoli tentacolare che divide la Cisgiordania in due. I nuovi quartieri sarebbero stati realizzati secondo strutture, forme e stili atti a nascondere "la cruda realtà dell'occupazione" e avallare mire espansionistiche. Nuovo e antico avrebbero dovuto mescolarsi secondo la sensibilità del movimento Arts and Crafts, e uniformarsi grazie all'imposizione per ordinanza del ricorso alla "pietra di Gerusalemme" per muri esterni e rivestimenti. L'A. risale poi al 1918, quando un "piano di risanamento" voluto dal governatore britannico della città aveva posto le premesse per l'edificazione di "un piccolo Ulster ebraico in un mare di arabismo potenzialmente ostile" prevedendo parchi, risanamenti e il divieto di materiali diversi dalla pietra locale per i nuovi edifici. Il rispetto rigoroso di questo stile senza tanto badare ai costi -e con buona pace degli architetti modernisti- si sarebbe riflesso nell'operato di una serie di costruttori convinti che la pietra incarnasse non solo la natura fisica del luogo, ma anche un senso di spiritualità, se non di santità. Due caratteristiche che nel contesto hanno una valenza politca pesante: la pietra -oggi proveniente dai territori occupati più che da uno stato sionista che non incentiva questa produzione inquinante- contraddistingue gli edifici della Città Santa e alla sua tutela come tale attendono le autorità religiose dello stato sionista. Weizman sottolinea come il piano urbanistico del 1968 e il comitato di architetti, filosofi, critici e religiosi che lo redasse non abbiano mai messo in discussione l'aspetto politico del tema e men che meno il diritto dello stato sionista di colonizzare e unificare la città con i conseguenti espropri a danno dei palestinesi.
Weizman racconta dei primi interventi urbanistici del 1967: la distruzione del quartiere di Maghariba a ridosso del Muro del Pianto, la cacciata dei palestinesi dal quartiere ebraico e l'avvio di estese e interessate prospezioni archeologiche che avallassero il carattere esclusivamente ebraico della città e il conseguente diritto sionista su di essa. Lo stato sionista avrebbe dichiarato i siti archeologici dei territori occupati una "proprietà nazionale e culturale": le annessioni sarebbero iniziate dal sottosuolo. A Gerusalemme molte ricostruzioni ebbero come fondazioni resti attibuibili all'antichità biblica e gli architetti che se ne occuparono lo fecero in modo puramente professionale, senza curarsi del fatto che i loro progetti venivano realizzati su terra espropriata ai palestinesi. Il quartiere ebraico restaurato è per Weizman "un parco tematico a soggetto biblico" collegato da passaggi pedonali protetti al vicino quartiere musulmano in via di ebraicizzazione e guardato da una polizia di frontiera che consente l'accesso solo ai residenti ebrei, ai turisti e ai corpi armati dello stato sionista. Weizman chiude spiegando come nelle periferie un terzo dei territori annessi furono confiscati ai palestinesi col pretesto della "pubblica necessità" -laddove pubblico stava per "ebraico"- e come sulle terre confiscate siano stati edificati sobborghi ispirati dalla "sensibilità architettonica" dettata dal quartiere ebraico. Secondo Weizman agli abitanti palestinesi di Gerusalemme sono state lasciate "lugubri enclave", come per gli autoctoni di una qualsiasi città coloniale. Il "controllo del potenziale abitativo" permetterebbe di perseguire (finora senza successo) una politica demografica destinata a portare la popolazione a un rapporto di 72 a 28 fra ebrei e arabi: nei documenti con valore legale questo obiettivo politico in aperto contrasto col diritto internazionale viene mascherato con un linguaggio neutro, e attuata poi con la sapiente e legalissima negazione delle concessioni edilizie ai palestinesi -magari col lodevole pretesto della tutela monumentale o della conservazione delle forme architettoniche tradizionali- con la costruzione di sobborghi e insiediamenti realizzati in modo da interrompere le continuità urbane palestinesi, con la destinazione a "spazio pubblico" di ampie superfici il cui mutamento di destinazione va sempre a favore dell'espansione dei sobborghi ebraici, con l'imposizione di limiti di superficie e di altezza che fanno degli insediamenti palestinesi delle isole adatte alla altrui contemplazione da lontano. Questa politica avrebbe incentivato l'esodo dei palestinesi da Gerusalemme; in oltre cinquantamila avrebbero lasciato la città perdendo anche il peculiare status dei residenti che consente il libero accesso al territorio dello stato sionista e la fruizione dei suoi servizi sanitari.
In Fortificazioni: l'architettura di Ariel Sharon Weizman tratta della linea di difesa costruita dopo il 1967 lungo il canale di Suez. Vi si legge che con l'intento di creare una linea di confine difendibile -secondo uno informale piano Allon- lo stato sionista avrebbe distrutto i villaggi palestinesi lungo il Giordano a eccezione di Gerico, cacciato dal Sinai tutti i cittadini egiziani ad eccezione dei beduini, e distrutto città e villaggi siriani nel Golan. Vi furono impiantati insediamenti agricoli tipo kibbutz e moshaw e avamposti militari dei corpi Nahal, unità di colonizzazione dell'esercito, per dimostrare la volontà politica di annettere i territori. Lungo il canale di Suez la Linea Barl Lev affidata all'achitetto Avraham Adan sarebbe stata invece il contrappunto miliare del piano Allon: fortificazioni su modello di quelle del mitizzato Kibbutz Nirim, che nel 1948 aveva contrastato con successo l'assalto egiziano. In sei anni, scrive Weizman, i bulldozer costruirono un argine di sabbia alto venti metri punteggiato di roccaforti costruite con gabbioni. Un modello contestato (con ragione) da Ariel Sharon, che avrebbe preferito una difesa scaglionata in profondità. Secondo Weizman il pubblico avrebbe ascritto la difesa statica al fallimento laburista, e le idee di Sharon al successo della destra in ascesa, in cui Sharon avrebbe esportato al campo della pianificazione degli insediamenti -nella mitizzata "frontiera" dei territori occupati- i principi del campo di battaglia dinamico elaborati in guerra. Weizman ricorda che Sharon fin dal 1953 si era reso responsabile -come comandante della Unità 101- di azioni efferate contro la popolazione palestinese, condotte senza troppi riguardi per la disciplina, per la legge stessa e soprattutto per i confini. Dopo il 1970 Sharon -diventato capo di Stato maggiore- fece edificare installazioni militari in profondità nei territori occupati allo scopo di farle diventare l'ossatura della futura colonizzazione, nel contesto di una dottrina militare che prevedeva una rete difensiva in grado di colpire retrovie e logistica di un nemico convinto di star avanzando nel vuoto. Weizman scrive che negli stessi anni a Gaza le organizzazioni armate avevano sviluppato nell'intricato tessuto dei campi profughi una rete extraterritoriale di enclave armate. A Gaza Sharon organizzò squadroni della morte e usò i bulldozer militari per aprire strade ampie, illuminate e pavimentate nei campi profughi in modo da dividerli, "haussmanizzando" la situazione. "La risolutezza di Sharon come pianificatore militare fu messa in pratica senza alcuna mediazione, contrasto o adattamento, dando alla esecuzione dei suoi piani la chiarezza funzionale di un diagramma"; in sette mesi, seimila case abbattute e mille morti, oltre all'avvio di una colonizzazione che prevedeva cinque insediamenti ebraici che spezzavano il territorio palestinese e lo isolavano dall'Egitto. Weizman descrive la guerra dello Yom Kippur, che uno Sharon in servizio come comandante della divisione armata 143 ("Likud") usò a proprio vantaggio come se fosse una campagna elettorale, avventandosi al di là del canale di Suez senza rispondere a nessuno delle proprie iniziative e presentandosi al pubblico (e all'elettorato) come l'unica alternativa a un sistema politico stanco e fallimentare. Citando Gramsci, Weizman ritiene che gli eventi della "guerra manovrata" del 1973 e il fallimento della linea difensiva statica abbiano portato alla frammentazione dell'egemonia politica laburista e alla formazione di un panorama politico multipolare in cui si sarebbe sviluppato il movimento Gush Emunim, favorevole agli insediamenti nei territori occupati e animato da spirito mesianico, pionieristico e militarista e dal nazionalismo religioso. Nel sentire del Gush Emunim la Cisgiordania e il Sinai erano zone libere dall'influenza governativa, in cui combinare individualismo di frontiera e intolleranza verso leggi e governo con uno stile di vita pio e devoto. Nel 1977, in un clima politico profondamente cambiato e con la destra del Likud al governo, un comitato ministeriale per l'insediamento di cui faceva parte anche Sharon avrebbe presentato un primo piano per la realizzazione di insediamenti in tutta la Cisgiordania redatto in collaborazione con l'architetto Wachman. Il piano prevedeva colonie organizzate in blocchi autosufficienti formati da piccoli insediamenti rurali e da altri più grandi di tipo industriale e urbano; strade a scorrimento veloce avrebbero assicurato i collegamenti. Le colonie -costruite sulle alture- avrebbero avvolto da est e da ovest il territorio palestinese, frammentandolo con corridoi di comunicazione e con insediamenti collocati lungo le strade palestinesi, e si sarebbero sovrapposte agli abitati palestinesi esistenti paralizzandoli. Nel rispetto puramente formale degli accordi di Oslo, questa logica di distribuzione avrebbe permesso allo stato sionista di ritirarsi dalle zone palestinesi continuando di fatto a controllarle grazie al controllo a distanza esercitato su ogni movimento. Anche senza una ratifica ufficiale, scrive Weizman, "Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta cominciò una frenetica attività di costruzione che era indice della vicinanza di Sharon al potere esecutivo" e che sarebbe servita a mettere la politica davanti al fatto compiuto. Sharon viene ritratto da Weizman come un individuo che considerava la politica una guerra nella stessa misura in cui la guerra era politica: la roulotte prima e la casa unifamiliare poi avrebbro occupato colline, accerchiato il nemico, tagliato le sue linee di comunicazione. Architettura e pianificazione erano diventate la prosecuzione della guerra con altri mezzi.
Insediamenti: la battaglia per le colline espone la colonizzazione della Cisgiordania nella sua natura di progetto discontinuo e privo di una visione unitaria, frutto dell'operato di organizzazioni non governative e di varie personalità, e più volte finito all'attenzione dell'Alta corte di giustizia. Secondo lo storico dell'architettura Zvi Efrat dopo il 1967 nello stato sionista i politici, i generali e gli attivisti ideologici avrebbero presto il posto degli architetti e degli urbanisti. Weizman descrive come il Gush Emunim si comportasse come gruppo di pressione extraparlamentare e al tempo stesso come organizzatore di "ascensioni", cioè di occupazioni di località o edifici che avrebbero dato origine a un insediamento vero e proprio. Nel 1977 la pratica del Gush Emunim servì a Sharon per interferire con la politica estera dello stato sionista provocando la fine dei negoziati con l'Egitto; nel 1981 il governo sarebbe diventato tanto remissivo a fronte delle richieste del Gush Emunim che l'organizzazione considerò la possibilità di sciogliersi. Weizman descrive i diversi piani per la colonizzazione della Cisgiordania elaborati dopo il 1967; quello di Sharon avrebbe cercato di colonizzare la valle del Giordano secondo quanto previsto dal piano di Allon e la dorsale montuosa secondo quello di Dayan, prevedendo in più blocchi di insediamenti sul versante occidentale dei monti in modo da avvolgere completamente le aree abitabili palestinesi separandole fisicamente dalle città e dai villaggi in cui vivevano i cittadini palestinesi dello stato sionista. Weizman sottolinea che nessun piano fu mai adottato ufficialmente e che gli insediamenti servirono ai vari governi per raggiungere obiettivi ideologici senza assumersene la responsabilità. Alle critiche a livello internazionale, il goveno rispondeva addossando ogni colpa a pochi individui. Negli anni Settanta inoltre l'Alta corte di Giustizia si sarebbe espressa in tre distinti casi circa le espulsioni della popolazione, le distruzioni e le requisizioni, interpretando la "temporaneità" delle occupazioni e le "esigenze di sicurezza" che giustificavano i nuovi insediamenti nel senso più favorevole possibile agli autori delle iniziative. Gli insediamenti -avrebbe sostenuto l'Alta corte- controllano il territorio e possono informare le autorità di ogni movimento sospetto. Il problema a rigore di diritto, obietta Weizman, è che se gli insediamenti vengono usati per motivi di sicurezza, possono diventare anche obiettivi legittimi da attaccare. Affrontando questo aspetto Weizman nota che come le mitologie sioniste che celebravano il ruolo fondamentale dei primi insediamenti agricoli si fossero evolute in una serie di argomentazioni legali usate per creare o per giustificare a posteriori gli insediamenti suburbani contemporanei, e ricorda le raccomandazioni che fin dalla fondazione dello stato sionista il "Dipartimento per l'Insediamento" presso le forze armate curasse l'aspetto militare di ogni moshaw e di ogni kibbutz. Di fatto sia il perdurare dell'instabilità sia le iniziative di soluzione politica rafforzerebbero la "temporaneità" degli insediamenti sionisti. Weizman nota che l'Alta corte avrebbe adottato una distinzione tra "sicurezza" e "difesa", laddove per sicurezza si intende il contrasto ad un conflitto di durata ed estensione spaziale indefinite. In questo contesto sarebbe un processo ideologico e politico quello che porta a decidere sulla serietà delle minacce, e nello stato sionista la "sicurezza" è quella della capacità dello Stato di rimanere sovrano ed ebraico. In questo senso, conclude l'A., la crescita demografica dei palestinesi arabi può sempre essere presentata come un "problema di sicurezza", e nessuna sentenza dell'Alta corte -cui peraltro si rivolgevano i pochi che avevano i mezzi, le competenze e lo spirito di iniziativa per farlo- ha mai messo in discussione le requisizioni motivate in questo modo.
In Insediamenti: urbanizzazione ottica Weizman nota come il governo del Likud iniziò a trasformare in progetti statali elaborati quei tentativi di colonizzazione fino allora rimasti a livello di azioni improvvisate, e porta la costruzione di Ma’ale Adumim, coordinata dall'architetto Leitersdorf fra il 1978 e il 1982 come esempio di "città giardino" nei terrritori occupati sulla scia di quanto proposto sessant'anni prima da Patrick Geddes per i centri di Tel Aviv e Haifa. Il Likud regolarizzò anche l'accesso alle terre, dopo che nel 1979 l'Alta corte aveva stabilito che i "motivi di sicurezza" non erano più una motivazione ammissibile per la costruzione di insediamenti. Dopo un censimento delle terre rivendicabili Tutte le terre di cui i palestinesi non riuscirono a dimostrare lo status di proprietà privata o l'effettivo utilizzo al momento dell’indagine -ovvero tutte le terre pubbliche palestinesi– furono dichiarate "terra statale" e requisite dallo stato sionista. L'A. spiega che questo si tradusse nell'acquisizione di quasi il quaranta per cento del territorio della Cisgiordania, in lotti isolati e frammenti non contigui, di solito sopra una certa altitudine. La colonizzazione delle regioni montuose avrebbe provocato una separazione verticale tra due geografie etniche e nazionali parallele, sovrapposte e autoreferenziali. Weizman scrive che dopo l'inizio della seconda Intifada nel 2000 ai palestinesi non fu più consentito accedere agli insediamenti neppure per raggiungere i frutteti isolati. Che secondo la vecchia legge ottomana lasciata in vigore, dopo tre anni divennero res nullius e vennero legalissimamente incamerati dai consigli degli insediamenti più vicini. Allo stesso modo dopo il 1979 venne interrotta ogni politica di sostegno all'agricoltura palestinese, e la successiva graduale riduzione della fornitura idrica indebolì ulteriormente il settore costringendo i contadini palestinesi a cercare lavori a giornata nello stato sionista; questo ampliò la quantità delle terre incolte avallando ulteriori confische. Se i palestinesi reagirono intensificando l'uso agricolo dei terreni a rischio di requisizione, lo stato sionista controbatté piantando foreste di pini per rendere le terre inutilizzabili anche per il pascolo. Secondo Weizman dopo il 1980 un complesso sistema di leggi, regolamenti e ordinanze militari trasformò l'espropriazione delle terre in un progetto di annessione: negli insediamenti in altura sarebbe rimasta in vigore la legge civile dello stato sionista, nelle vallate quella militare, affidata a una Amministrazione civile dell'esercito. Per le costruzioni palestinesi l'Amministrazione civile avrebbe usato piani regionali elaborati cinquant'anni prima dal Mandato britannico che stimavano una popolazione molto meno numerosa, e imponendo il rispetto di "linee blu" a ridosso degli abitati oltre le quali ogni stabile era illegale e veniva demolito. Weizman ricorda come una spinta all'espansione delle colonie venne negli anni Ottanta dalla classe media dello stato sionista, attratta dai sobborghi di Gerusalemme che promettevano un'alta qualità della vita a costi contenuti, e da comunità ortodosse non sioniste. Il Likud avrebbe elaborato e generosamente finanziato corposi piani di incentivi per i trasferimenti. Weizman indica in oltre duecentocinquantamila i coloni presenti in Cisgiordania nel 2006, ospitati anche in "insediamenti comunitari", villaggi suburbani privati di tipo non agricolo, dove vigono regole tali da scoraggiare i cittadini palestinesi dello stato sionista dallo stabilirvisi. Lo stato sionista assicura l'esclusione dei palestinesi dall'assegnazione di terre confiscate destinando queste ultime ad organizzazioni non governative come l'Organizzazione Sionista Mondiale, che a loro volta le asseghnano alle cooperative che gestiscono gli insediamenti e ne selezionano gli abitanti. Weizman nota anche che i tetti rossi a falde di cui l'esercito ha raccomandato l'adozione -e che si sono diffusi in tutti i territori occupati- consentono di riconoscere gli insediamenti sionisti fin dal primo sguardo. Dopo il 1984 sarebbero state diffuse anche delle linee guida ministeriali per la realizzazione degli insediamenti d'altura, con le singole abitazioni disposte in cerchi concentrici in modo da assicurare il controllo visivo sulle campagne circostanti e la chiusura di un'area di vita comunitaria destinata a incentivare l'esistenza di comunità escludenti. In questo contesto l'A. rileva "una sfasatura fra ciò che esercito e governo vogliono far vedere ai coloni (siti di importanza strategica nazionale ed esseri umani soggetti al controllo statale), ciò che i coloni pensano di vedere (un paesaggio rurale biblico con i relativi personaggi) e ciò che i coloni vedono realmente: la vita quotidiana dei palestinesi e la loro povertà sotto l’occupazione". E le caratteristiche "bibliche" del paeseaggio, dalle abitazioni tradizionali agli oliveti, sono in genere prodotto del lavoro e della vita dei palestinesi. La stessa gente che i coloni vorrebbero scacciare.
Nel quinto capitolo su I posti di controllo: la sovranità spezzata e lo specchio unidirezionale Weizman esamina la situazione dei territori occupati dopo gli accordi di Oslo, iniziando dalla presenza, dall'architettura e dal significato dei terminal che separano i territori a parzialissima sovranità palestinese dal mondo esterno. Weizman li descrive come strutture nominalmente presidiate dall'Autorità Nazionale Palestinese, ma che consentono allo stato sionista di presiedere alla sicurezza di tutto il valico (personale palestinese compreso) tramite personale nascosto da specchi unidirezionali; una fedele rappresentazione dei rapporti di forza. Lo stato sionista avrebbe mantenuto il controllo dei palestinesi regolandone i movimenti, ma delegando all'ANP i compiti di potenza occupante; l'architettura dei terminal inganna i palestinesi facendo loro credere di essere sottoposti a un'autorità mentre sono sottoposti a un'altra. Weizman nota che il conetto sionista di sicurezza ha sempre previsto un apparato territoriale, istituzionale e architettonico realizato in modo da gestire la circolazione dei palestinesi nello spazio sionista; fino al 1967 il controllo era totale ma impercettibile, e volto a educare il comportamento collettivo di una popolazione che era anche mano d'opera a basso costo. In seguito la libertà di movimento avrebbe subito progressive restrizioni fino alla chiusura completa dei territori occupati ordinata per la prima volta nel 1991 e più volte ripetuta in anni in cui l'occupazione prese forma di posti di controllo e di blocchi stradali in grado di dirigere manodopera, beni di consumo, energia e rifiuti. L'Amministrazione civile organizzata dal 1981 entro l'esercito sionista si sarebbe avvalsa di strade a esclusivo uso dei coloni, dei militari e dei cittadini dello stato sionista e di procedure burocratiche improntate a gestire coloni e palestinesi come due sistemi territoriali sovrapposti ma sempre più isolati e autarchici. Weizman racconta di come nel 1995 il total quality management sia stato applicato ai rapporti fra esercito sionista e popolazione palestinese. Secondo i parametri del diritto internazionale la situazione era ancora quella di un'occupazione bellica, ma lo stato sionista tentò di depoliticizzarli facendo loro prendere l'aspetto di transazioni commerciali nel ben più presentabile contesto di una "economia dei servizi". Dopo l'inizio della seconda intifada lo stato sionista sarebbe ricorso a un "complesso e onnipresente sistema di chiusure e di restrizioni alla circolazione" di posti di controllo, blocchi stradali, inferriate e terrapieni che avrebbero seguito una serie di divieti e di limitazioni in continuo cambiamento. La Cisgiordania ne è uscita frammentata in duecento "cellule territoriali" separate e sigillate intorno ai "centri popolati" palestinesi, tra le quali è possibile muoversi solo previa domanda per uno degli oltre dieci tipi di permessi di viaggio esistenti. Resterebbero interdette ai palestinesi la valle del Giordano, Gerusalemme e le enclave comprese fra il Muro e la Linea Verde del confine del 1948. Il divieto di entrare nello stato sionista dai territori occupati viene applicato non solo in caso di allarme, ma anche nelle festività o per eventi sportivi importanti: meno palestinesi accedono a un spazio, più quello spazio sarebbe sicuro. Secondo Weizman le violenze e le umiliazioni inflitte ai palestinesi nei posti di controllo sono considerevoli: i ritardi nell'assistenza medica sono solo una delle evenienze di cui è responsabile quel controllo della circolazione che ha reso la vita quotidiana dei palestinesi una spossante lotta per la sopravvivenza, mentre i coloni "si muovono tranquillamente attraverso passaggi separati che portano a strade riservate solo a loro". Il libro racconta anche di come, nel 2005, Sharon abbia delegato il militare Baruch Spiegel di elaborare un piano per minimizzare i danni apportati dai controlli della circolazione al tessuto vitale palestinese ed evitare crisi umanitarie che avrebbero comportato compiti aggiuntivi all'esercito sionista. Intanto che il piano veniva pubblicato e pubblicizzato -prevedeva la realizzazione di terminal di tipo aeroportuale e la loro privatizzazione- il sistema dei posti di blocco sarebbe andato invece stabilizzandosi e consolidandosi, prestandosi anche all'introduzione di ulteriori strumenti vessatori come tornelli dalle dimensioni ridotte. Weizman presenta una descrizione del terminal di Qalandia realizzato secondo le indicazioni di Spiegel: gli è sembrato significativo che all'uscita sul lato sionista alcuni attivisti contrari all'occupazione abbiano corretto con Arbeit macht frei un cartellone di benvenuto. Allo stesso tempo l'esercito sionista avrebbe cercato di incorporare nelle proprie strategie le logiche seguite dalle organizzazioni per i diritti umani: ennesimo caso di occupante che cerca di giustificarsi con una retorica di miglioramento, civiltà e riforme. L'A. descrive anche il valico di Rafah e la supervisione elettronica che avviene da una sala nello stato sionista a chilometri di distanza, dalla quale vengono impartiti ordini alla polizia palestinese. Con l'adozione massiccia delle nuove tecnologie e la loro disponibilità per l'esportazione, le procedure di controllo adottate dallo stato sionista sono diventate un riferimento per ogni contesto. L'elevazione di muri e di colline artificiali sarebbe prassi abituale anche nello stato sionista: abbelliti da fiori e alberature, servono a nascondere sobborghi poco invitanti e a rimarcare la separazione fra ricchi e poveri in un clima in cui anche il venti per cento dei cittadini dello stato sionista appartenenti alla minoranza palestinese vengono considerati di seconda classe e descritti come un problema demografico. Secondo Weizman gli accordi di Oslo avrebbero consentito l'instaurazione di una autorità palestinese fittizia, utile allo stato sionista per esimersi dai doveri di potenza occupante definiti dalle convenzioni internazionali. All'atto pratico la pervasiva presenza dell'apparato securitario dello stato sionista avrebbe devastato economia e qualità della vita dei palestinesi e con esse qualsiasi possibilità di un governo locale effettivo, mentre gli aiuti internazionali sarebbero assorbiti per intero dalle ricorrenti "crisi umanitarie" provocate in modo più o meno deliberato, ma presentate come eventi naturali e inattesi. Secondo Weizman lo stato sionista può abitualmente distruggere strutture palestinesi indispensabili, sapendo che l'intervento internazionale e quindi il denaro di altri paesi servirà a riparare i danni. Consapevole di aver ridotto i territori occupati alla fame, lo stato sionista cercherebbe comunque di controllare il flusso di denaro e di aiuti in modo da evitarne il collasso totale, perché questo provocherebbe prima o poi un intervento internazionale. L'A. nota che gli accordi di Oslo non hanno fatto dei palestinesi un soggetto sovrano, ma un oggetto di assistenza umanitaria al punto che l'eliminazione dell'ANP presenterebbe il vantaggio di addossare allo stato sionista la piena responsabilità dell'occupazione.
Il Muro: gli arcipelaghi della barriera e l'impossibile politica della separazione tratta della barriera -costata miliardi di dollari- con cui lo stato sionista ha diviso il proprio territorio dai territori occupati. Weizman ha la squisitezza di riferire che nel 2004 Gideon Harlap, candidato all'epoca alla presidenza dell'associazione degli architetti dello stato sionista, ebbe a deplorare l'"aspetto sgradevole e grossolano" del manufatto, a sentir lui principale ragione della feroce opposizione internazionale. L'architettura del Muro alto otto metri, con recinzioni elettroniche, filo spinato, radar, telecamere, fossati, posti d’osservazione e strade di pattugliamento è comunque frutto dell'operato del dipartimento di pianificazione regionale e strategica dell'esercito sionista, controllato da decenni da Danny Tirza, un ufficiale della riserva e colono cisgiordano appartenente al partito nazionale religioso amico personale di Sharon. Weizman descrive dettagliatamente le vicende che hanno portato dal 2002 in poi alla costruzione del Muro, il cui percorso è diventato quello di un "sismografo politico impazzito" perché a prescindere all'ampio consenso di cui ha goduto presso l'opinione pubblica sionista esso ha risentito di "una molteplicità di conflitti tecnici, legali e politici su questioni di territorio, demografia, risorse idriche, archeologia e proprietà, oltre che su concetti politici quali sovranità, sicurezza e identità". Secondo Weizman, Ariel Sharon si sarebbe occupato personalmemte di definire un primo tracciato del Muro che avrebbe compreso praticamente mezza Cisgiordania per inglobare insediamenti di vario genere, desistendo solo dopo aver irritato oltremodo i pur eccezionalmente benevoli Stati Uniti. A limitare l'annessione di territorio della Cisgiordania sarebbero man mano intervenute alcune sentenze dell'Alta corte, ispirate al concetto di proporzionalità e utili allo stato sionista -che ha tarato su toni moralistici e legalisti la propria propaganda- per tenere a bada le reazioni internazionali. Tirza in ogni caso avrebbe pianificato il percorso accampando esigenze di sicurezza per giustificare ogni scostamento dalla Linea Verde, non importa quanto consistente, e i coloni avrebbero agito di concerto avallando questi scostamenti. Realizzati in genere tenendo conto della possibilità di espansione degli insediamenti, del tornaconto delle immobiliari e trattando i centri palestinesi e soprattutto i loro abitanti come se non esistessero neppure. L'A. cura a questo riguardo un'aneddotica compresa fra l'abietto e il colorito. Weizman è convinto che l'esistenza del Muro incarni alla perfezione il conetto di apartheid, anche se "neppure all'apice della sua barbarie" il Sud Africa ha tentato qualcosa di simile. Lo stato sionista avrebbe sempre fatto ricorso, anche sul piano legale, alla temporaneità delle misure man mano adottate: "per pacificare i territori bisogna usare misure di sicurezza temporanee, ma dal momento che i palestinesi si ribellano alle stesse misure di sicurezza (gli insediamenti) che sono state messe in atto per pacificarli, è necessario ricorrere a ulteriori misure temporanee (il Muro) per gestire la resistenza e le violenze che rischiano di radicalizzarsi, e così via. Quindi se si definiscono tutte le attività militari come risposte alle minacce alla sicurezza si continua a creare la condizione che giustifica la necessità di ricorrervi". Anche la ristrutturazione neoliberista della spesa pubblica imposta da Netanyahu col pretesto di far fronte alle spese per la "sicurezza" sarebbe stata presentata come "temporanea" ed emegenziale.
Weizman scrive che i ricorsi dei coloni hanno trasformato alcune sezioni del Muro in sezioni frammentate e discontinue attorno a certi insediamenti, interessati da "barriere di profondità" che fanno somigliare il territorio alle coste norvegesi dove fiordi, isole e laghi disegnano "una separazione irrisolta" fra terra e acqua. A Gerusalemme Sharon non ha voluto essere accusato di "dividere la città" per cui il Muro ha annesso allo stato sionista i quartieri palestinesi dell'area municipale. Nel resto della Cisgiordania un centinaio di insediamenti è stato circondato da recinzioni, ciascuna delle quali circondata da quattrocento metri di "zona sterile" su cui esercito e coloni armati sparano senza preavviso. Decine di villaggi palestinesi sarebbero invece rimasti intrappolati in enclave fra il Muro e la Linea Verde: gli abitanti hanno la condizione di "residenti temporanei", non possono muoversi senza permessi speciali. Lo stato sionista non ha mai mostrato volontà politica di smantellare insediamenti, per cui il Muro continuerà a tempo indefinito a presentare le caratteristiche di una frontiera coloniale mobile, nonostante la propaganda sionista tenti di minimizzarne gli aspetti prevaricatori e violenti.
Weizman esamina anche la questione della viabilità. Secondo un principio di separazione tridimensionale la Cisgiordania è percorsa da due reti stradali parallele prive di incroci non regolati, irte di tunnel e di viadotti e congegnate in modo da assicurare la chiusura delle aree palestinesi senza pregiudicare la libertà di movimento fra le colonie sioniste, unite da tratti sopraelevati che consentono ai coloni di non accorgersi neppure della presenza dei palestinesi. Nel settimo capitolo, Guerriglia urbana: passare attraverso i muri, Weizman cita il modo di manovrare dell'esercito sionista nella Nablus del 2002 per notare come gli scritti dei teorici che hanno elaborato la nozione di spazio (Deleuze, Guattari,Debord) facciano parte delle letture consigliate da alcune istituzioni militari... per quanto abbiano avuto sempre meno spazio "nella cultura capitalista di fine Novecento". All'inizio del millennio l'esercito sionista avrebbe usato la Cisgiordania come enorme laboratorio di guerriglia urbana, elaborando prassi e tattiche tramite uno Operational Theory Research Institute che avrebbe presentato poi i risultati anche all'esercito statunitense e a quello britannico che si accingevano ad aggredire l'Iraq. L'A. rileva comunque che i contendenti si adattano, imitano e imparano l'uno dall'altro, anche se la resistenza palestinese è frammentata in diverse organizzazioni che passano continuamente dalla collaborazione alla competizione e al conflitto violento, aumentando la complessità dell'interazione e con essa la capacità, l'efficienza e la resistenza collettiva. L'esercito sionista deve contrastare una resistenza diffusa e distribuita, organizzata secondo una "intelligenza di sciame" poco gerarchica e portata alle iniziative simultanee piuttosto che a quelle sequenziali. Per questo ne avrebbe mutuato l'assetto e l'organizzazione, secondo un atteggiamento di cui Ariel Sharon sarebbe stato precursore. Weizman descrive lo sciamare attraverso le abitazioni usato per la prima volta dall'esercito sionista del campo profughi di Balata durante un attacco compiuto nel 2002 -con la distruzione dei muri delle case palestinesi e la devastazione degli interni- e da allora diventato pratica abituale, immediatamente adottata anche dalle controparti. Nel successivo attacco a Nablus, sottolinea l'A., le formazioni sioniste comandate da Aviv Kochavi avrebbero massicciamente adottato queste tecniche e avrebbero seguito la direttiva impartita da Ariel Sharon di uccidere il maggior numero di palestinesi possibile, fermandosi solo per le pressioni internazionali. La guerra in ambiente urbano viene intesa come lettura e decostruzione concettuale dell'ambiente, anche prima dell'inizio delle operazioni. Nei casi in cui non è stato sufficiente, come a Jenin, l'esercito sionista ha usato bulldozer blindati per sventrare interi quartieri. Nella ricostruzione l'UNRWA avrebbe previsto strade più ampie per consentire il passaggio ai mezzi dell'esercito sionista -ignorando le proteste delle formazioni armate palestinesi- confermando il paradosso per cui gli aiuti umanitari possono finire per servire gli oppressori. Sei mesi dopo il primo attacco i blindati sionisti avrebbero effettivamente compiuto una nuova incursione: un soldato sionista avrebbe ucciso proprio il direttore britannico dell'UNRWA, ovviamente scambiato per un combattente. Weizman nota come le tecnologie contemporanee della termografia e dell'ecografia consentano di vedere attraverso molti ostacoli "togliendo spessore ai muri", come in certe manifestazioni artistiche degli anni Settanta cui l'esercito sionista ha fatto esplicito riferimento nella propria propaganda. Gli scritti e le opere di chi intendeva sovvertire il potere repressivo della città capitalista hanno ispirato l'esercito sionista per gli attacchi all'ambiente poco protetto dei palestinesi sotto assedio. Weizman ricorda l'ammonimento lanciato nel 1964 da Marcuse, per cui contraddizioni e critiche avrebbero pututo essere incorporate e rese operative come strumenti dell'egemonia al potere, per poi notare però come le tecniche usate dall'esercito sionista non costituiscano affatto delle novità assolute e siano coronate da successo soprattutto quando tecnologia, addestramento e forza si trovano nettamente a vantaggio di chi le impiega. La propaganda sionista, ricorda a questo proposito l'A., presenta attacchi contro guerriglieri poco armati e civili spaventati come se fossero imprese significative. Nel 2006 l'esercito sionista dovette affrontare Hezbollah, e per i "fanciulli prodigio" del 2002 Aviv Kochavi e Gal Hirsh gli esiti sul campo furono molto meno esaltanti.
Evacuazioni: decolonizzare l’architettura tratta dell'abbandono di Gaza nel 2005, che comportò la demolizione di oltre tremila edifici di cui lo stato sionista volle impedire un riutilizzo cui gli stessi palestinesi avevano opposto un rifiuto netto. Gli insediamenti erano stati circondati da mura alte anche dodici metri e collegati da una viabilità propria, secondo il miglior stile architettonico dello stato sionista; intollerabile da una parte l'idea che finissero in mano palestinese, spiega Weizman, intollerabile dall'altra la prospettiva di appropriarsi di architetture che erano strumenti diretti dell'occupazione e che oltretutto erano del tutto insufficienti rispetto alle necessità. L'A. presenta anche vari piani più o meno irrealistici (se non demenziali) avanzati da varie parti per la realizzazione di città turistiche o quartieri residenziali. Weizman sottolinea come la precarietà perenne dei campi profughi implichi un rifiuto di rinunciare al "diritto al ritorno", e come siano gli approcci controrivoluzionari a incoraggiare invece in questi casi le migliorie che fanno pensare alla stabilità. I progetti dello stato sionista più volte tentati per "superare" i campi profughi altro non sarebbero che tentativi in questa direzione. Non sempre l'architettura dell'occupazione mantiene la propria funzione con l'abbandono da parte della potenza occupante; il testo cita il diverso destino degli insediamenti sionisti nel Sinai, spesso diventati località turistiche, o delle basi britanniche in Palestina, ora convertite al proprio uso dall'esercito sionista, ora diventate centro di campi profughi; Weizman cita i tentativi in questo senso di adattare ad uso pubblico gli immobili lasciati dai coloni a Gaza prima che il governo sionista ordinasse la completa distruzione degli insediamenti e finanziasse munificamente il trasporto delle macerie a fare da frangionde per l'erigendo porto di Gaza. A tutt'oggi in attesa dei relativi permessi di costruzione.
Nell'ulitimo capitolo Omicidi mirati: l'occupazione aerea Weizman scrive come, dopo l'evacuazione sionista di Gaza, "le basi di terra delle forze occupanti furono trasferite nello spazio aereo al di sopra della Striscia, nelle acque territoriali presso la costa e nelle stazioni di frontiera lungo le recinzioni che la tagliavano fuori dal resto del mondo". Posizioni da cui perseguire una politica di esecuzioni extragiudiziali e di controllo del territorio con altri mezzi, laddove gli omicidi mirati erano diventati la forma d'attacco più comune. L'A. racconta di come anche lo stato sionista si sia convinto della possibilità di una "colonizzazione imposta dall'aria" la cui idea è vecchia quanto l'aviazione. I bulldozer sono stati sostituiti prima con gli elicotteri armati di missili Hellfire, che operavano di concerto con i servizi dello Shin Bet, e poi con i droni. "In ogni uccisione si trovano così sovrapposti diversi spazi e piani: una sala di controllo nel centro di Tel Aviv, dove giovani soldati pilotano droni e missili a distanza come in un videogioco reale, e i polverosi vicoli dei campi profughi, dove giovani palestinesi perdono la vita". Ogni uccisione, detta in codice Champagne, sarebbe festeggiata dallo Shin Bet proprio con un dozzinale vino frizzante. I mass media sionisti presenterebbero gli Champagne evitando di citare le altre vittime (è invalsa la prassi di considerare "combattenti" tutti i palestinesi maschi adulti) e di mostrare cadaveri, sangue e membra mutilate presentando l'assassinio non solo come necessario, ma anche come eseguito in modo etico. Gli attacchi della resistenza palestinese verrebbero invece documentati secondo criteri opposti. La giustificazione legale per gli omicidi mirati si sarebbe sviluppata seguendo gli eventi, finendo presto per avallare e sostenere una autentica politica dell'assassinio che gode di un forte sostegno popolare, che tende a non avere limiti e di cui Weizman riporta i casi più eclatanti. Un ulteriore paradosso presentato dall'A. è quello per cui la riduzione delle vittime civili e la "umanizzazione" della guerra finirebbe per rendere la guerra più facile da concepire e anche più frequente: i soldati sionisti credono che i proiettili (ricoperti) di gomma non siano letali e sarebbero portati a usarli in modo indiscriminato. In assenza di una soluzione politica o militare che sia, spiega Weizman, lo stato sionista avrebbe cercato di mantenere il conflitto a un livello tanto basso da consentire alla società sionista di convivere con esso.
La resistenza palestinese avrebbe reagito allo spostarsi nell'aria della forza distruttiva sionista spostandosi a sua volta nel sottosuolo; l'A. descrive come per Gaza e per la sua economia al collasso i tunnel che passano sotto Rafah -scavati e mantenuti con sistemi ingegnosi- e sbucano in Egitto siano di importanza fondamentale, come la resistenza palestinese li abbia utilizzati (come al confine libanese) per azioni eclatanti e come l'esercito sionista conduca contro di essi una lotta senza quartiere almeno dal 2004.
Nel post scriptum -prima di lunghi e dettagliati ringraziamenti- Weizman si chiede retoricamente cosa possa mai imparare a Gaza una ricerca architettonica creativa intenzionata ad operare a Londra, e mette in guardia contro interventi diretti mal organizzati. Per quanto animati da buone intenzioni potrebbero cadere nel già descritto "paradosso umanitario" finendo col favorire gli scopi dell'occupante, anche solo addossandosi compiti che spetterebbero all'esercito sionista. Combinare il ruolo del professionista esperto e del testimone -come farebbe lo Icahd, un'organizzazione contraria alle demolizioni di cui l'A. è un attivista e di cui illustra alcune iniziative- consentirebbe invece di unire aiuto umanitario, pratica investigativa e azione di denuncia; se necessario anche ricorrendo alle stesse tecniche dell'avversario, perseguendo finalità opposte.


Eyal Weizman - Spaziocidio. Israele e l'architettura come strumento di controllo. Mondadori, Milano 2022. 360 pp.