Il saggio di Ilan Pappé -ebreo e cittadino dello stato sionista- è dichiaratamente non neutrale e il suo autore è convinto che l'impegno politico non pregiudichi l'eccellenza nella ricerca accademica. Il libro intende servire come introduzione alla conoscenza dei dieci miti ricorrenti nella comunicazione politica e nella propaganda. Il sionismo politico sosterrebbe la propria legittimità con una narrazione storica che mette in discussione il diritto morale dei palestinesi alla loro terra, e i mass media e la classe politica occidentale accoglierebbero questa narrazione come un dato di fatto. L'intento del libro è quello di esaminare e confutare in ordine cronologico i più familiari capisaldi di questa narrazione.
Il mito postula la Palestina di fine XIX secolo come una terra vuota e arida che i primi coloni sionisti avrebbero resa abitabile. L'A. ritiene invece che la realtà fosse quella di un corpo sociale vivo, alle prese con la modernità. Il mito postula il "ritorno" della diaspora nella propria terra. In realtà gli ebrei della Palestina romana rimasero su quella stessa terra e furono in un primo momento convertiti al cristianesimo e in seguito all'Islam. Il mito equipara sionismo ed ebraismo: una equivalenza che Pappé cerca di confutare. L'A. identifica un quarto mito che rifiuta di considerare il sionismo come un movimento colonialista: confutare questo assunto permette di considerare la resistenza palestinese come resistenza al colonialismo anziché come terrorismo puro e semplice. Quinto punto, nel 1948 i palestinesi sarebbero fuggiti volontariamente dal territorio dello stato sionista: un'idea smantellata dagli storici. Pappé contesta anche l'idea che il conflitto del 1967 fosse una guerra senza alternative, e la ritiene invece parte integrante del piano sionista per completare la conquista della Palestina. Settimo è l'assunto per cui lo stato sionista sarebbe una democrazia: Pappé intende disconfermarlo esaminando lo status dei palestinesi che vivono sia nello stato sionista che nei territori occupati, e che nel loro insieme compongono metà della popolazione. Scrivendo a venticinque anni dagli accordi di Oslo, l'A. avanza il dubbio che essi siano il risultato di un piano per protrarre l'occupazione prima di presentare una propria interpretazione sulla situazione di Gaza, in cui la miseria degli abitanti viene ascritta per intero alla natura terroristica di Hamas. In ultimo, L'A. confuta anche l'idea che la "soluzione dei due stati" sia l'unica possibile.
Nella prefazione all'edizione tradotta, datata ottobre 2021, Pappé nota che dopo l'"accordo del secolo" di Donald Trump si sarebbe affermata una nuova strategia di legittimazione nella propaganda dello stato sionista, dal carattere apertamente nazionalista e altrettanto apertamente disinteressata nei confronti dei palestinesi. La questione palestinese verrebbe ridotta a un problema umanitario ed economico, da risolvere con finanziamenti arabi benedetti dalla presidenza degli USA. Si completerebbe in questo modo la legittimazione del sionismo come movimento coloniale di insediamento, dopo decenni in cui la riconosciuta illegittimità dei comportamenti dello stato sionista non si era comunque mai tradotta in una loro dissuasione. Dopo il 2009 l'aggressività sionista avrebbe quindi ricevuto esplicito appoggio anche dagli USA, che hanno riconosciuto Gerusalemme come sua capitale, vi hanno trasferito la propria ambasciata, hanno riconosciuto l'annessione del Golan e la legalità degli insediamenti in Cisgiordania praticamente garantendo l'immunità a qualsiasi politica sionista all'interno della Palestina storica, con particolare riferimento all'uso della forza e all'imposizione sul campo di una realtà irreversibile. Nel 2018 lo stato sionista avrebbe adottato una "legge fondamentale" sulla nazionalità in cui gli ebrei vengono riconosciuti come l'unico gruppo nazionale detentore del diritto all'autodeterminazione. Lo stato sionista inoltre avrebbe reagito alla progressiva erosione della propria popolarità in Occidente con pesanti interventi propagandistici, ivi compresa la chiusura degli archivi in cui si trova documentazione sulla Nakba del 1948, volti a rendere difficoltosa la divulgazione di prove su una condotta che per quella che pretende di essere "l'unica democrazia del Medio Oriente" appare per lo meno poco coerente. Secondo Pappé la volontà politica dello stato sionista è sempre stata quella di dearabizzare la Palestina. Un intento che avrebbe "alimentato le note congiunture violente nella storia moderna del paese: la pulizia etnica del 1948; l'imposizione dell’amministrazione militare su vari gruppi della popolazione palestinese negli ultimi settant’anni; l’assalto all'OLP in Libano nel 1982; le operazioni in Cisgiordania nel 2002; l'assedio di Gaza; i piani di giudaizzazione ovunque all’interno della Palestina storica" fino agli ultimi tentativi di annessione della valle del Giordano e alla divisione in due parti del territorio restante, ormai dissezionato in piccoli bantustan. Anche con la presidenza Biden negli USA e con il ritorno del monocorde richiamo alla "soluzione dei due stati" sarebbe sempre e solo lo stato sionista ad avere dei diritti.
Una prefazione curata da Federica Stagni rileva come "la colonizzazione sionista, sponsorizzata dalla élite cristiana che fin dalla fine del ’700 ne ha sostenuto le aspirazioni, sia stata e continui a essere motivata da un'ideologia razzista. I palestinesi erano e sono sacrificabili in quanto arabi, appartenenti a una razza inferiore non degna di sviluppare aspirazioni nazionali e identitarie come tutti gli altri popoli". La popolazione dello stato sionista invece, con particolare riferimento alla élite aschenazita, apparterrebbe a una società meritevole di ogni tutela in nome degli interessi strategici occidentali. Per una valutazione oggettiva della questione palestinese sarebbe quindi necessario decostruire le false credenze storiche che rafforzano la legittimità di uno stato sionista nei cui confronti la condiscendenza e il giustificazionismo delle élite occidentali non presentano più alcuna incrinatura sostanziale. Un esame della "libera informazione", con particolare riferimento al mainstream più fruito nella penisola italiana, farebbe propendere per una realtà in cui lo stato sionista può permettersi qualsiasi cosa mentre gli accademici e gli esperti che ne condannano le efferatezze devono costantemente giustificarsi. La prima parte del libro è dedicata agli inganni del passato.
Palestina, terra di nessuno? Ilan Pappé insiste sull'importanza del retaggio della legislazione ottomana tutt'ora presente nella legislazione dello stato sionista, e sul fatto che i registri ottomani del 1878 riportavano la presenza di quindicimila ebrei su oltre quattrocentocinquantamila residenti; nota anche lo stridente contrasto fra le risultanze dell'operato di storici e demografi e l'idea -radicata soprattutto negli USA- che la Palestina fosse un deserto sottosviluppato. L'idea di nazione vi sarebbe stata importata proprio da missionari statunitensi giunti all'inizio del XIX secolo, e fatta propria dalle stesse élite che a Istanbul erano invece propense a identificare ottomanesimo e identità turca. Nel contrasto con la capitale arabi e cristiani si riconobbero in una identità nazionale laica e a questa visione avrebbe partecipato anche la élite ebraica, se il sionismo in ascesa non le avesse invece richiesto "una lealtà incondizionata alla causa coloniale". La storiografia palestinese (Muhammad Muslih, Rashid Khalidi) indicherebbe che la modernizzazione, il crollo dell'impero ottomano e l'espansionismo europeo in Medio Oriente avrebbero contribuito alla nascita del nazionalismo palestinese prima degli accordi Sykes-Picot e prima della dichiarazione Balfour del 1917. Senza l'affermazione del sionismo la Palestina -scrive Pappé- "avrebbe probabilmente seguito la stessa parabola nazionale del Libano, della Giordania o della Siria". I confini della regione sanciti dai britannici dopo la fine della prima guerra mondiale avrebbero avuto il paradossale effetto di aiutare il movimento sionista a concettualizzare geograficamente quella "terra di Israele" dove solo gli ebrei avrebbero dovuto godere del diritto alla terra e alle sue risorse.
Alla Palestina come terra di nessuno si accompagna l'assunto per cui gli ebrei erano un popolo senza terra. Pappé ricorda lo sviluppo lungo secoli delle dottrine europee sul ritorno degli ebrei in Palestina, dapprincipio fondate su contenuti escatologici e successivamente sull'assunto che statuiva l'impossibilità di assimilarli. Il sionismo politico troverebbe quindi legittimazione in un antico e radicato antisemitismo. Durante il XIX secolo nel Regno Unito e negli USA si sarebbe sviluppato un movimento favorevole alla concreta colonizzazione di una Palestina da trasformare in un'entità cristiana, cui Lord Shaftesbury avrebbe fornito concretezza influenzando il Primo Ministro Palmerston affinché nominasse un viceconsole britannico a Gerusalemme: "Gli ebrei devono essere incoraggiati a tornare in numero ancora maggiore e diventare nuovamente gli agricoltori della Giudea e della Galilea… sebbene si tratti di un popolo di teste di legno dal cuore maligno, sprofondato nel degrado morale, nell’ostinazione e nell’ignoranza del Vangelo, [gli ebrei] non solo sono degni di salvezza, ma anche vitali per la speranza di salvezza del cristianesimo". Pappé spiega come una presenza ebraica in Palestina fosse utile ai britannici in funzione antiottomana, anche se agli stessi ottomani (1840) l'idea della presenza ebraica veniva presentata come utile contro il secessionismo dell'Egitto, nonché vantaggiosa per l'erario. Le radici del sionismo andrebbero quindi cercate nell'antisemitismo, nella teologia cristiana e nell'imperialismo britannico. L'A. indica in James Finn, console britannico a Gerusalemme fino al 1863, la figura che più si impegnò per rendere permanente la presenza occidentale a Gerusalemme organizzando l'acquisto di terre e proprietà da destinare a missionari, organizzazioni commerciali e enti governativi; Pappé nota che Finn non fece mai mistero di non apprezzare né l'Islam né la cultura araba. Negli stessi anni avrebbe operato in Palestina anche il movimento pietista tedesco, i cui esponenti erano convinti che la ricostruzione del tempio a Gerusalemme avesse un'importanza escatologica fondamentale. Dopo il 1882 il sionismo della prima e della seconda Aliyah avrebbe imitato le colonie e i metodi di insediamento dei pietisti, e i suoi esponenti si sarebbero stabiliti nelle città palestinesi dedicandosi solo in pochi casi a sviluppare terreni comprati da proprietari palestinesi o arabi assenti. Secondo Pappé si sarebbe verificata una convergenza fra gli interessi dell'imperialismo britannico, le credenze del millenarismo protestante e i nuovi obiettivi del sionismo politico, culminati con la dichiarazione Balfour del 1917. L'A. non prende netta posizione sulla più o meno opinabile discendenza dei sionisti contemporanei dagli ebrei biblici: "il problema sorge nel momento in cui la narrazione di tale genealogia porta a progetti politici che si realizzano attraverso genocidio, pulizia etnica e oppressione", e a sembrargli discutibile è piuttosto la pretesa dello stato sionista di rappresentare tutti gli ebrei del mondo, nel cui nome sarebbe lecita anche l'azione più spregevole.
Nel terzo capitolo L'A. affronta il tema delle origini del sionismo, da identificarsi in una Europa del XIX secolo in cui gli ebrei come gruppo erano discriminati o perseguitati come diversivo. Il sionismo come nazionalismo ebraico sarebbe nato e si sarebbe sviluppato di pari passo agli altri nazionalismi dopo l'affermazione dello "illuminismo ebraico" nel secolo precedente. Le idee di maggior successo -specie dopo i pogrom in Russia nel 1881- avrebbero riguardato la ridefinizione dell’ebraismo come movimento nazionale e la necessità di colonizzare la Palestina: un tema che toccava corde profonde in un gruppo cui nell'Europa centro orientale era vietato possedere terre. In questo clima centinaia di giovani ebrei avrebbero iniziato col movimento degli Amanti di Sion a fondare colonie in Palestina; negli stessi anni Theodor Herzl avrebbe iniziato a sostenere l'idea che solo uno stato nazionale avrebbe potuto rappresentare la soluzione del "problema ebraico". Pappé scrive che nell'ebraismo dell'epoca dominavano due orientamenti opposti, rappresentati rispettivamente dall'arroccamento nello stile di vita isolato e da un orientamento laico che prevedeva una condotta poco diversa da quella della popolazione generale. Il secondo atteggiamento sarebbe stato alla base del "movimento di riforma" che avrebbe cercato di metabolizzare la modernità e che avrebbe rifiutato in blocco il sionismo -ritorno a Eretz Israel compreso- fino al 1948. Lo stesso avrebbero fatto gli ebrei liberali, cui il sionismo sarebbe apparso un movimento stravagante cui contrapporre anzi una esplicita e completa lealtà nei confronti dei rispettivi paesi di nascita. Nonostante questo e nonostante la disattenzione del mondo politico in generale il sionismo avrebbe guadagnato proseliti grazie alla dedizione di Herzl, che nel 1897 poté organizzare una conferenza da cui sarebbero nati un congresso mondiale e un movimento colonizzatore organizzato. L'opposizione al sionismo si sarebbe affermata nella borghesia ebraica delle potenze industriali e si sarebbe concretizzata in Russia nel Bund socialista; con l'affermarsi dell'autoritarismo dopo la prima guerra mondiale avrebbe accusato il sionismo di aver peggiorato le condizioni generali degli ebrei mettendo in dubbio la loro fedeltà verso i rispettivi paesi di origine. L'ortodossia ebraica invece avrebbe considerato il sionismo un tentativo di intromissione nei disegni divini su un esilio destinato a finire solo con la venuta del Messia; la sostituzione di secoli di saggezza e di legge ebraica "con un panno, dei terreni e una canzone".
Pappé cita comunque la minoranza di figure autorevoli che gettò le basi per l'ala nazional-religiosa del sionismo esortando gli ebrei affinché lasciassero l'Europa, considerando la colonizzazione della Palestina un dovere tanto religioso quanto nazionale: "non sorprende che i nativi di quella terra non venissero minimamente considerati nelle loro riflessioni teologiche". La colonizzazione non sarebbe stata un'ingerenza nella volontà divina, ma un obbedire ad essa. Il sionismo sarebbe andato definendosi come un movimento che sperava di secolarizzare il popolo ebraico e che proponeva una nuova figura di ebreo europeo che, se non poteva vivere in Europa a causa dell'antisemitismo, poteva vivere come un europeo al di fuori dei confini del continente. In questo senso la Palestina non sarebbe stato l'unico territorio colonizzabile prospettato dai sionisti, Herzl per primo. Solo dopo la sua morte nel 1904 sarebbe iniziata una colonizzazione organizzata, con la Bibbia adottata come fonte di riprova del diritto divino degli ebrei su quella terra in un clima di forte influenza del sionismo cristiano nel Regno Unito e in Europa. Teologi e archeologi evangelici approvarono la colonizzazione, a riprova delle loro convinzioni escatologiche sul "ritorno degli ebrei" in Palestina, prodromo della loro conversione al cristianesimo o della loro definitiva perdizione. Pappé nota che il testo biblico sarebbe diventato il fondamento della legittimità dello stato sionista, in una narrazione in cui dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. il paese sarebbe rimasto spopolato fino al ritorno dei sionisti. Questa narrazione avrebbe permesso di sorvolare sulle espropriazioni e sulla pulizia etnica necessarie a insediarsi in una Palestina che spopolata non era affatto, e di galvanizzare i cristiani -gli evangelici in particolare- nei confronti di una colonizzazione presentata come adempimento di un piano divino cristiano.
La realtà in cui si imbatterono i primi coloni avrebbe rivelato anche ai più arroganti che la Palestina era tutt'altro che deserta e che era a tutti gli effetti un paese arabo. Accampare giustificazioni divine per il sionismo aiutò i socialisti -fittamente rappresentati anche fra i primi coloni- a conciliare solidarietà e uguaglianza col progetto coloniale; Pappé ricorda che nel sentire comune il periodo d'oro del sionismo è quello dei kibbutzim che attiravano giovani desiderosi di sperimentare il comunismo nella sua forma più pura, senza rendersi conto che la maggior parte dei kibbutzim sorgeva sulle rovine di paesini palestinesi distrutti. O meglio, liberati dalla loro popolazione nativa nel 1948, e ridenominati da "archeologi biblici". La presunta età dell'oro del sionismo socialista, ricorda l'A. citando Gershon Shafir e Zeev Sternhell, si fondava comunque su una pratica coloniale in cui i valori e le aspirazioni universali della sinistra occidentale vennero nazionalizzati, facendo oltretutto sì che il socialismo perdesse ogni attattiva agli occhi delle successive generazioni di coloni. Dopo il 1967 il ricorso ad accurate citazioni bibliche per giustificare l'appropriazione delle terre palestinesi e per considerarne gli abitanti come subumani e come nemici eterni sarebbe diventato pervasivo, avallando anche il fanatismo religioso del partito Mafdal e del movimento degli insediamenti Gush Emunim. Pappé ricorda il doppio sistema legale in vigore nei territori occupati, con i coloni soggetti alla legge civile e i palestinesi a quella militare di emergenza. Pappé chiude il capitolo con un esame della narrazione sionista e alla sua formulazione per la propaganda e per i programmi scolastici; Bibbia, distruzione degli ebrei d'Europa e guerra del 1948 vi vengono presentati come un capitolo storico monolitico.
Il quarto capitolo confuta l'assunto per cui il sionismo non è colonialismo. Secondo Pappé i primi coloni trovarono in Palestina una popolazione di cui non avevano previsto l'esistenza e iniziarono a percepirli come usurpatori. L'A. considera il sionismo un colonialismo di insediamento, del tipo in cui le colonie diventano autonome e si distaccano dalla nazione imperialista che ha fornito il sostegno iniziale e in cui l'obiettivo è quello di impadronirsi delle terre altrui per fondarvi una nuova patria accampando giustificazioni morali o di ordine divino. Secondo Patrick Wolfe il colonialismo di insediamento prevederebbe lo sviluppo di giustificazioni morali e la valutazione di mezzi pratici al fine di eliminare popolazioni native sottoposte innanzitutto a una logica di disumanizzazione atta a facilitare gli esiti finali. Legittimare il mito della Palestina come terra senza popolo in attesa di un popolo senza terra significherebbe togliere ai palestinesi ogni argomentazione e ridurre ogni loro sforzo per l'autodeterminazione ad atto violento ingiustificato. Pappé scrive che la narrazione ufficiale dello stato sionista non ha mai accordato alcun diritto morale alla resistenza palestinese, postulandone l'odio per gli ebrei nonostante i diari dei primi sionisti presentino aneddoti che attestano il contrario, indicando che la resistenza palestinese iniziò quando fu chiaro che i coloni non erano venuti per vivere a fianco dei palestinesi ma per sostituirli. Pappé riassume la nascita e lo sviluppo del nazionalismo arabo; nel 1919 era evidente ai paesi occidentali che "panarabi, patrioti locali o simpatizzanti della Grande Siria, i palestinesi erano uniti nella volontà di non far parte di uno stato ebraico". Pappé ricorda gli scontri del 1929 (i sionisti rifiutarono la prospettiva di una pari rappresentanza in un futuro stato con i palestinesi, perché contrastava con l'idea di uno stato interamente ebraico), quelli dovuti alla cacciata dei palestinesi da terreni che il Fondo nazionale ebraico aveva acquistato da proprietari assenti e notabili locali, e la nulla attenzione di britannici e sionisti verso le richieste delle rappresentative palestinesi. Secondo l'A., dopo che l'ONU preferì spartire la terra in uno stato arabo e in uno stato ebraico sarebbe diventato legittimo descrivere il sionismo come un progetto coloniale di insediamento e il movimento nazionale palestinese come un fenomeno di resistenza anticoloniale. Pappé ricorda a questo proposito il mufti di Gerusalemme Amin al Husseini, ridimensionando il ruolo di bestia nera accordatogli dalla propaganda sionista, e il fatto che la resistenza palestinese ricorse agli stessi mezzi di tutti i movimenti anticolonialisti dell'epoca. L'A. scrive che nel 1945 il sionismo aveva attirato oltre mezzo milione di coloni in un paese abitato da due milioni di persone in totale, e che era riuscito a costruire uno stato nello stato; tuttavia i coloni possedevano solo il sette per cento delle terre ed erano circa un terzo della popolazione in un paese in cui ambivano a essere gli unici abitanti. L'unico modo per raggiungere lo scopo sarebbe stato espandere la presa sulle terre e cacciarne i palestinesi.
I palestinesi lasciarono volontariamente la loro terra nel 1948; a questo proposito Pappé indaga su due questioni: se esistesse una volontà politica dietro l'espulsione dei palestinesi, e se fosse vero che alla vigilia della guerra del 1948 i palestinesi sarebbero stati esortati a lasciare volontariamente le loro case. Secondo Pappé gli ideologi del sionismo politico -primi fra tutti Berl Katznelson e Ben Gurion già nel 1937- avrebbero espresso chiaramente la loro propensione al trasferimento forzato o all'espulsione della popolazione non ebraica, iniziando preparativi in tal senso e indicando nella Siria la destinazione prescelta. L'espulsione dei palestinesi farebbe dunque parte del fondamento sionista del moderno stato ebraico fin da allora, anche se non trovò una applicazione procedurale organizzata. Nel 1948 sarebbe stato comunque ideato un Piano D pere l'espulsione di massa dei palestinesi entro il mese di marzo. Secondo l'A. la narrazione sionista sarebbe rimasta solida nel tempo, e continuerebbe a sostenere che i palestinesi divennero rifugiati perché leader locali e di paesi arabi dissero loro "di lasciare la Palestina prima che gli eserciti arabi invadessero e cacciassero gli ebrei, e che avrebbero potuto farvi ritorno dopo". Una versione dei fatti priva di riscontri, e anche priva di verifiche dato il breve processo di pace del 1949. Solo la presidenza Kennedy avrebbe riaperto la questione con le autorità di Tel Aviv per mezzo dell'ONU nel 1961, terrorizzando un Ben Gurion che avrebbe consentito al giovane ricercatore Ronni Gabai di consultare documentazione riservata sull'accaduto a riprova della versione ufficiale. Gabai "giunse alla conclusione che furono le espulsioni, la paura e le intimidazioni le principali cause dell’esodo palestinese" e pubblicò una dissertazione a riguardo che a detta di Pappé venne boicottata in alte sfere, soddisfatte invece dal molto più condiscendente operato di Uri Lubrani e Moshe Maoz. Solo alla fine degli anni '80 l'A. e Benny Morris hanno potuto confermare le conclusioni di Gabai: Morris accusandone l'inizio dei combattimenti il 15 maggio 1948, Pappé ritenendo che il problema dei rifugiati già esistesse, e che la guerra fosse stata iniziata dallo stato sionista proprio per assicurarsi l'opportunità storica di espellere i palestinesi.
Pappé nota che la narrazione sionista afferma che i primi da incolpare per la loro sorte sarebbero i palestinesi stessi, colpevoli di aver rifiutato il piano di partizione dell'ONU del 1947. Questa accusa non considera la natura coloniale del movimento sionista; l'A. nota che l'accaduto non può essere legittimato come "punizione" per aver rifiutato un piano ideato senza la consultazione degli interessati. Il David sionista -ricorda Pappé- non batté alcun Golia arabo nel 1948: i contingenti arabi erano meno numerosi, peggio equipaggiati e sarebbero stati inviati in Palestina non in risposta alla nascita dello stato sionista ma in risposta alle operazioni già iniziate nel febbraio 1948 con particolare riferimento al massacro di Deir Yassin. Nei mesi e negli anni successivi, come avrebbe scritto Avi Shlaim, lo stato sionista avrebbe costantemente respinto ogni offerta di pace, mantenendo lo stesso atteggiamento in più occasioni nel corso dei decenni successivi. Per confutare l'immagine di uno stato ebraico che combatte ogni avversità offrendo soccorso ai palestinesi, incoraggiandoli a rimanere e proponendo la pace solo per rendersi conto che non esiste "alcun interlocutore" dall'altra parte, Pappé esamina nel dettaglio gli eventi degli anni compresi fra il 1946 e il 1949, sottolineando come l'influenza del movimento sionista nelle decisioni dell'ONU poté confidare anche nella prospettiva che sarebbero stati i dati di fatto sul campo ad avere l'ultima parola. Il libro cita le prime pressioni della lobby ebraica statunitense affinché l'amministrazione Truman non chiedesse moratorie alla spartizione, l'intervento sovietico tramite il Partito Comunista Palestinese per la fornitura di armi -tramite la Cecoslovacchia- a uno stato sionista ritenuto antioccidentale perché antibritannico, e l'espulsione della popolazione araba da Haifa, Giaffa, Safad, Beisan, Acri e Gerusalemme Ovest immediatamente dopo il ritiro britannico. Secondo Pappé l'implicazione di tutto questo sta nel fatto che lo stato sionista sarebbe l'unico colpevole del problema dei rifugiati, previsto e compreso in un costante atteggiamento favorevole a una deliberata pulizia etnica.
L'ultimo inganno del passato di cui Pappé tratta è quello per cui la guerra del 1967 sarebbe stata "senza alternative". Dopo il 1948 la élite politica e militare dello stato sionista -Ben Gurion per primo- avrebbe sempre considerato un'occasione mancata aver consentito che la Giordania annettesse le zone palestinesi al di qua del Giordano, e avrebbe più volte elaborato piani per annettere la Cisgiordania. Secondo Pappé l'annessione della Cisgiordania e di Gaza avrebbe fatto parte del progetto sionista dal 1948 e il 1967 avrebbe rappresentato un'occasione favorevole per procedere. Secondo l'A. la "ossessione demografica" di Ben Gurion dissuase lo stato sionista da occupare la Cisgiordania fino a quando egli rimase in politica, ma questo non fermò i preparativi per l'occupazione, compresi quelli per la classificazione e il trattamento giuridico della popolazione palestinese. Pappé ricorda il tentativo francobritannico di rovesciare Nasser con l'appoggio sionista nel 1956, l'ondata progressista e radicale che nel 1958 coinvolse il Medio Oriente -Egitto e Iraq per primi- preoccupando gli USA, la nascita della Repubblica Araba Unita di Siria ed Egitto e i progetti dello stato sionista per il "condotto idrico nazionale" che allarmarono la Siria. Nel 1966 la tensione fra Siria e stato sionista sarebbe salita al massimo; dopo l'attacco sionista dell'aprile successivo Nasser avrebbe corso il "rischio calcolato" di spostare truppe nel Sinai e l'esecutivo sionista colse l'occasione per rimediare all'errore del 1948. L'importanza di quella congiuntura storica per lo stato sionista sarebbe stato evidente dal modo in cui esso ha poi resistito a tutte le pressioni internazionali che chiedevano il ritiro dai territori occupati, forte del consenso sul piano interno. Nei decenni successivi lo stato sionista avrebbe perseguito l'obiettivo di controllare più terre possibile con meno palestinesi possibile, e i suoi governi sarebbero stati perfettamente consapevoli del fatto che negare cittadinanza da un lato e indipendenza dall'altro avrebbe portato gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania a un'esistenza priva di diritti umani e civili fondamentali. Anzi, gli esecutivi si sarebbero mostrati sempre più condiscendenti verso le pressioni dei coloni del Gush Emunim, al dato di fatto degli insediamenti e allo stanziamento di coloni ebrei nel cuore di alcuni quartieri palestinesi. Il mondo tollererebbe questa situazione perché lo stato sionista la presenterebbe come una situazione temporanea "da mantenersi solo fino alla comparsa di un interlocutore palestinese veramente disposto a dialogare per la pace. Non sorprende che un tale partner non sia mai stato trovato", chiude Pappé. Lo stato sionista compie espropri, limita severamente la libertà di circolazione e impone una esasperante burocrazia d'occupazione: i timori demografici di Ben Gurion sarebbero stati cinicamente superati rinchiudendo la popolazione palestinese dei territori occupati in una prigione di non cittadinanza.
La seconda parte del libro è dedicata alla confutazione degli inganni del presente, primo fra tutti quello per cui lo stato sionista sarebbe l'unica democrazia del Medio Oriente. L'"unica democrazia del Medio Oriente" avrebbe fin dalla fondazione "assoggettato un quinto dei suoi cittadini a un regime militare basato su norme d’emergenza draconiane risalenti al dominio britannico" che in sostanza permetteva all'ultimo soldato sionista ogni arbitrio su qualsiasi palestinese, detenzione arbitraria e distruzione delle abitazioni compresi. Secondo Pappé lo stato sionista ha sempre guardato con favore all'annessione di territori, ma ha sempre cercato modi per limitarvi la presenza palestinese ricorrendo anche alla strage pur di intimorire la popolazione come nel caso di Kafr Qasim nel 1956, i cui responsabili furono solo blandamente sanzionati. Pappé riporta vari casi tratti dagli scritti di Nathan Alterman su altrettanti episodi in cui negli stessi anni le forze armate dello stato sionista hanno compiuto esecuzioni extragiudiziali o altri atti di assoluto arbitrio. "Se la cartina di tornasole di ogni democrazia è il livello di tolleranza verso le proprie minoranze", continua poi, lo stato sionista sarebbe "ben lungi dal poter essere considerato uno stato democratico". Esempi in questo senso sarebbero la legislazione sulla cittadinanza, sulla proprietà fondiaria e soprattutto la legge sul ritorno che concede automaticamente la cittadinanza a qualsiasi ebreo del mondo. Una legge cui si accompagna il rifiuto categorico di riconoscere lo stesso diritto ai palestinesi. Al netto della propaganda fondata sulle pretese bibliche, lo stato sionista impedirebbe ai palestinesi di tornare nel loro paese, ma vi ammetterebbe persone che non hanno alcun legame con la stessa terra. La legge dello stato sionista tenderebbe inoltre ad associare diritti democratici e doveri militari, cosa che discrimina pesantemente i cittadini che non prestano servizio nell'esercito. Pappé sostiene che vi siano pesanti ripercussioni sull'accesso alle abitazioni e sulle possibilità di impiego, dato che il settanta per cento del comparto industriale sionista viene considerato "sensibile" sul piano della sicurezza e precluso dunque a questi cittadini di seconda categoria nonostante in ottant'anni punteggiati di guerre la popolazione palestinese non abbia mai formato quinte colonne e non sia mai insorta contro l'autorità sionista. Pappé continua riportando come ad oggi oltre il novanta per cento delle terre siano di proprietà del Fondo Nazionale ebraico e come molto difficilmente sia concesso edificare a non ebrei, i quali inoltre vengono esclusi, con molti sistemi più o meno legali, dagli insediamenti ebraici. L'A. si chiede come possa conciliarsi una realtà del genere con la nozione di democrazia, e si tratta ancora della situazione dei cittadini non ebrei dello stato sionista, non di quella di chi vive nei territori occupati nei cui confronti l'unica democrazia del Medio Oriente si comporterebbe "come una dittatura della peggiore specie". Qualsiasi cosa dica la propaganda, secondo Pappé lo stato sionista ha sempre trattato Cisgiordania e Gaza come parte naturale del proprio territorio; a livello accademico il contrasto sarebbe stato se mai su come raggiungere questo obiettivo, non certo sulla sua legittimità. In concreto nei territori occupati la popolazione palestinese è confinata in enclavi disconnesse, senza spazi verdi e senza possibilità di espansione urbana, ad opera di una rete pervasiva di insediamenti dove l'estremismo ebraico coverebbe incontrollato. Pappé ricorda anche come la demolizione delle abitazioni a scopo puntivo sia stata una pratica britannica prima ancora che sionista e come centinaia di abitazioni e di edifici pubblici siano stati distrutti ogni anno nei territori occupati con i pretesti più vari. Nell'area metropolitana di Gerusalemme o nel territorio sionista vero e proprio le demolizioni sono state la sanzione "per l’ampliamento senza licenza di abitazioni già esistenti o per il mancato pagamento delle bollette". L'A. fa presente che nei territori occupati i coloni possono formare bande armate che si impegnano quotidianamente a rendere impossibile la vita dei palestinesi sradicando alberi, distruggendo raccolti e intimidendo la popolazione. In altre parole le possibilità per i palestinesi sotto occupazione sarebbero soltanto due: "accettare la realtà dell’incarcerazione permanente in una mega-prigione per un tempo indefinito ma sicuramente molto lungo, o scontrarsi con la potenza dell’esercito più forte del Medio Oriente". E ad ogni atto di resistenza l'intera popolazione verrebbe trattata come unità di un esercito ostile. L'A. riferisce una lunga serie di attestazioni sul comportamento dell'esercito e dello stato sionista, e sottolinea come anni e anni di arresti arbitrari, di case demolite, di uccisione e ferimento di innocenti, di drenaggio dei pozzi siano una realtà in cui non è serio pensare che "decidere di non resistere possa davvero assicurare una minore oppressione". Questa situazione ha portato anche personalità dello stato sionista a non includerlo fra le democrazie: il geografo Oren Yiftachel avrebbe usato il vocabolo etnocrazia, uno "stato etnico misto con una preferenza legale e formale per un gruppo etnico rispetto a tutti gli altri". Altri vi si rapporterebbero tranquillamente come con uno "stato di apartheid o uno stato coloniale".
Pappé considera gli accordi di Oslo come frutto di un'iniziativa che la élite politica sionista intraprese per stroncare sul nascere i tentativi statunitensi in questo senso, che avrebbero potuto portare all'imposizione di bloccare gli insediamenti nei territori occupati o addirittura di ritirare i coloni; Arafat avrebbe acoconsentito perché i rappresentanti palestinesi coinvolti nell'iniziativa statunitense rappresentavano una minaccia per la sua supremazia. Sugli accordi esisterebbero due miti intrecciati: il primo li considera un processo di pace vero e proprio; il secondo afferma che Arafat lo avrebbe sabotato di proposito con la seconda Intifada. Pappé nota che con gli accordi Arafat sarebbe stato tenuto ad attenersi a condizioni e termini impossibili da rispettare; ad esempio l'Autorità Nazionale Palestinese avrebbe dovuto agire come subappaltatrice del controllo sionista e assicurare la fine della resistenza, e lo stato palestinese avrebbe ottenuto una certa autonomia solo su alcuni aspetti interni. Il diritto al ritorno dei profughi in particolare non sarebbe stato neppure incluso nelle trattative.L'A. nota anche come gli accordi si basassero su una spartizione del territorio; una idea esclusivamente sionista in voga dal 1937 e ribadita all'aumentare dell'influenza al punto da ottenere sempre maggiore sostegno globale ma percepita dai palestinesi come un perdurare delle ostilità con altri mezzi. Le parti palestinesi avrebbero accettato la spartizione solo per mancanza di alternative. Con Oslo, ripete Pappé, "i palestinesi sono stati costretti a cercare soluzioni che andavano contro i loro interessi e mettevano in pericolo la loro stessa esistenza". Per la "soluzione dei due stati" l'A. considera valide le stesse considerazioni, visto che sarebbe stato comunque lo stato sionista a decidere non solo quanto territorio concedere, ma anche quello che sarebbe accaduto nel territorio concesso. In pochi anni la realtà dei bantustan della Cisgiordania avrebbe rivelato l'aspetto farsesco della vicenda: la seconda Intifada del 2000 sarebbe nata dall'umiliazione e dalla disperazione derivanti da tutto questo. La seconda fase degli accordi poi, che avrebbe stabilito la situazione di Gerusalemme, quella dei rifugiati e quella dei coloni, non sarebbe mai stata messai in vigore a causa del "comportamento scorretto" di palestinesi chiamati ad agire per cinque anni come subappaltatori dei sionisti nei bantustan della Cisgiordania e a Gaza. Secondo Pappé l'insistenza sulla divisione del territorio e l'esclusione della questione dei rifugiati avrebbero fatto degli accordi di Oslo nient'altro che una riorganizzazione militare e un riassestamento del controllo sionista; la peggiore delle interpretazioni ritiene che essi abbiano reso la vita dei palestinesi assai più dura. In pochi anni lo stato sionista avrebbe ultimato sul campo la creazione di una realtà irreversibile, e la riluttanza palestinese altro non sarebbe stata che l'ovvia risposta a una farsa diplomatica. Pappé ricorda che nel 2000 la Cisgiordania era divisa in tre aree -una delle quali, grande la metà del terrritorio, sotto diretto controllo sionista- tra cui era quasi impossibile spostarsi e che a Gaza i coloni vivevano asserragliati dopo aver sequestrato la maggior parte delle risorse idriche. A Camp David nel 2000 ad Arafat sarebbe stato chiesto di avallare la situazione, con esclusive prospettive di peggioramento. La propaganda sionista gli avrebbe addossato la colpa del fallimento del vertice dopo che egli aveva osato invocare un rallentamento della colonizzazione e la fine della quotidiana brutalizzazione della vita dei palestinesi, in cui abbondavano "pesanti restrizioni di movimento, frequenti punizioni collettive, arresti senza processo e continue umiliazioni ai checkpoint". Pappé ricorda che dopo il vertice Ariel Sharon "fece la sua celebre passeggiata a Haram al Sharif, la spianata delle moschee" scatenando l'indignazione palestinese che si sarebbe espressa dapprima in modo non violento in manifestazioni immediatamente represse dallo stato sionista con la abituale brutalità. L'A. scrive che i mass media sionisti avrebbero evitato di proposito di pubblicare i resoconti che davano atto del carattere non violento delle manifestazioni e che una vittoria facile sui palestinesi sarebbe servita ai militari sionisti per rinforzare ranghi e credibilità dopo una sconfitta subita ad opera di Hezbollah. Dal 2002 i sionisti avrebbero usato massicciamente le armi pesanti contro i campi profughi e le città palestinesi. In seguito lo stato sionista avrebbe avallato l'assunto per cui "da parte palestinese non c'è nessuno con cui trattare" eliminando fisicamente chiunque potesse aspirare a un ruolo di una qualche preminenza.
In La mitologia di Gaza l'A. esamina vari assunti, a cominciare da quelli su Hamas. Pappé riassume la storia pluridecennale di un movimento che si è presto contrapposto a Fatah aspirando al "ritiro dello stato sionista da tutti i terrritori occupati con un armistizio di dieci anni da rispettare tassativamente prima di discutere qualsiasi soluzione futura. Hamas ha sfidato la linea pro-Oslo di Fatah, il suo disinteresse verso politiche sociali ed economiche in favore della popolazione e il suo fondamentale fallimento nel porre fine all’occupazione". Pappé ricorda la fortunata partecipazione di Hamas a varie consultazioni elettorali dal 2005 in poi, soprattutto le elezioni politiche in cui ottenne una larga maggioranza e il diritto di formare un governo. Lo scontro con Fatah e con lo stato sionista avrebbe portato alla sua estromissione dal potere ufficiale in Cisgiordania e alla presa del potere a Gaza. Contrariamente alla "libera informazione" che bolla Hamas come organizzazione terroristica, Pappé è convinto che si tratti di un legittimo movimento di liberazione nazionale. Il secondo mito che l'A. intende confutare è il fatto che il ritiro sionista da Gaza nel 2005 fosse stato un gesto di riconciliazione ricambiato da ostilità e violenza: si sarebbe trattato invece della trasformazione di Gaza in un gigantesco carcere facilmente controllabile dall'esterno. In ultimo, Pappé vuole contestare l'assunto per cui lo stato sionista dal 2006 in poi non avrebbe fatto altro he difendersi, e affermare invece che lo stato sionista si è impegnato in "un genocidio incrementale del popolo di Gaza".
Pappé nota che la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006 avrebbe contribuito alla demonizzazione dei palestinesi -promossi a musulmani fanatici da semplici arabi ripugnanti che già erano- e rileva che a differenza del governo sionista e di quelli occidentali i conoscitori più seri della materia avevano ampiamente previsto la vittoria elettorale democratica di un movimento che rappresentava "un complessa reazione locale alla dura realtà dell’occupazione e una risposta ai percorsi incoerenti offerti dalle altre forze palestinesi laiche e socialiste". Se Hamas acquistò importanza, nota Pappé argomentando con dettagliate citazioni, fu anche grazie alla politica sionista che incentivò la costruzione a Gaza di una infrastruttura educativa islamica che sarebbe dovuta servire come contraltare al movimento laico Fatah. La morte di un Arafat sempre delegittimato dallo stato sionista e dall'Occidente e l'immediata accettazione di cui avrebbe goduto Abu Mazen avrebbero ridotto drasticamente la popolarità dei movimenti laici nei campi profughi, nelle realtà marginali e soprattutto fra i giovani; la costruzione del Muro, i blocchi stradali e gli omicidi mirati con cui lo stato sionista combatté la seconda intifada li avrebbero ulteriormente indeboliti. Pappé ritiene che lo stato sionista abbia fatto il possibile per spingere i palestinesi verso l'unica formazione pronta a resistere a un'occupazione che Michael Chabon avrebbe descritto come "l'ingiustizia più grave mai vista nella mia vita". Lo establishment sionista avrebbe reagito all'ascesa di Hamas -che si è profondamente radicato nella società palestinese per il proprio operato sociale e assistenziale oltre che per il sostegno incondizionato al diritto al ritorno- limitandosi ad ascrivere i suoi simpatizzanti al lato irrazionale della storia.
Pappé ricorda che la posizione di Gaza sulla antica via Maris tra Egitto e Libano le aveva assicurato prosperità e stabilità fino al 1948. Lo stato sionista la avrebbe rapidamente trasformata in un campo profughi recintato, accordando alla popolazione limitatissimi diritti in cambio della sottomissione totale. Dagli accordi di Oslo lo stato sionista avrebbe usato il proprio controllo totale delle infrastrutture elettriche ed idriche della Striscia di Gaza per lo più a vantaggio dei propri coloni. Pappé descrive la guerra civile tra fazioni palestinesi dopo le elezioni del 2006, lotta che sarebbe stata in parte una lotta tra i politici di Hamas eletti democraticamente e quanti non intendevano accettare l'espressione del voto popolare agendo inoltre per procura degli USA e dello stato sionista. Pappé rileva come nello stesso periodo opinioni fino a quel momento marginali -se non folli- e incentrate sulla pulizia etnica e sul suprematismo razziale avrebbero iniziato a trovar consenso nel discorso pubblico sionista, diffuse da accademici come Benny Morris o Yuval Steinitz come verità assolute non negoziabili. Già nel 2004 quella dello stato sionista sarebbe stata "una società paranoica, determinata a porre fine al conflitto con la forza e la distruzione, a qualsiasi costo": la "road map" proposta dagli USA non avrebbe affatto influito su un piano a lungo termine che prevedeva muri a tutela e a isolamento, e popolazione palestinese stipata in enormi campi di prigionia a Gaza e in quanto rimaneva della Cisgiordania. In questo contesto l'allontanamento dei coloni da Gaza voluto da Ariel Sharon -nonostante la contrarietà del Gush Emunim- avrebbe facilitato le più efferate pratiche di ritorsione, anche se venne propagandato come iniziativa di pace. In ogni caso la società dello stato sionista -sottolinea Pappé- si mostrerebbe indifferente alla quesionte palestinese e avrebbe dato carta bianca ai vari esecutivi che hanno potuto agire senza timore di alcun rendiconto elettorale e con il pieno avallo occidentale e statunitense. L'uscita da Gaza comportò di fatto l'annessione della maggior parte degli insediamenti in Cisgiordania, con il placet degli USA il cui esecutivo era molto influenzato dai sionisti cristiani e dalle loro idee escatologiche.
Pappé afferma di aver iniziato a definire la politica sionista verso Gaza come genocidio incrementale dopo la guerra del 2009. In Cisgiordania lo stato sionista avrebbe posto le condizioni per annettere ufficialmente quasi metà del territorio attuando politiche di espulsione lente e striscianti contro la popolazione palestinese. A Gaza invece nell'estate del 2006 un lancio di razzi in territorio sionista senza vittime avrebbe suscitato una reazione di inaudita violenza, accolta a livello internazionale da una condanna tanto flebile che i vertici militari dello stato sionista la avrebbero interpretata come un eccellente risultato. L'intera popolazione di Gaza da allora in poi avrebbe rappresentato l'obiettivo principale delle operazioni, scomparsa ogni distinzione tra obiettivi militari e non. Pappé ricorda l'operazione piombo fuso del 2009, che avrebbe avuto come casus belli la scoperta di un tunnel e che sarebbe terminata con oltre millecinquecento vittime e la distruzione delle infrastrutture civili della Striscia di Gaza, e casi come la Pilastro di difesa del 2012 che mise fine a un'ondata di proteste per le cattive politiche del governo sionista; sembra che nulla come una guerra possa convincere i giovani sionisti "a smettere di protestare e andare a difendere la patria". "Aveva funzionato prima, funzionò anche questa volta", commenta L'A. Le incursioni a Gaza, ripetute più e più volte negli anni, vedrebbero l'esercito sionista agire in modo analogo a quello "di una forza di polizia che entra in un carcere di massima sicurezza che ha controllato principalmente dall’esterno, solo per trovarsi di fronte alla disperazione e alla resilienza dei prigionieri che sono stati sistematicamente affamati e messi alle strette". Secondo l'A. se il ritmo degli attacchi fosse proseguito la Striscia di Gaza sarebbe diventata inabitabile entro il 2020 non solo per effetto della distruzione delle infrastrutture e della base produttiva.
Nell'ultima parte del libro Pappé confuta innanzitutto il mito per cui la soluzione a due stati sarebbe l'unica possibile. La situazione sul terreno al massimo consentirebbe l'instaurazione di un bantustan palestinese senza sovranità e diviso in cantoni, senza mezzi per proteggersi o per sostenersi indipendentemente dallo stato sionista. Quella dei due stati sarebbe un'invenzione sionista per mantenere il controllo sulla Cisgiordania senza incorporarne gli abitanti, e si basa comunque sul presupposto che gli ebrei debbano vivere in Palestina e che ebraismo e stato sionista siano la stessa cosa. In questo modo lo stato sionista potrebbe accampare la difesa dell'ebraismo per qualsiasi iniziativa, e criticare lo stato sionista diventerebbe automaticamente una critica all'ebraismo. L'A. specifica comunque che la sostanziale annessione di metà della Cisgiordania, la ghettizazione dell'altra metà e di Gaza accompagnate dal regime di apartheid imposto ai cittadini palestinesi avrebbe già da tempo reso obsoleta qualsiasi ipotesi in questo senso.
Nella conclusione, Pappé parla dello stato sionista come uno stato coloniale del ventunesimo secolo, indicando le politiche sioniste col nome complessivo di colonialismo di insediamento e indicandovi scoperte ed esplicite analogie col sistema di apartheid sudafricano, in cui nei confronti della popolazione originaria sono state usate le logiche della eliminazione e della disumanizzazione. In questa prospettiva, "eventi quali l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, il processo di Oslo e il disimpegno da Gaza nel 2005 rientrano tutti nella stessa strategia israeliana che mira a occupare la maggior parte di terra palestinese con il minor numero di palestinesi possibile". Lo stato sionista inoltre godrebbe di un eccezionalismo che lo esenta da qualsiasi critica; un dato di fatto che rende difficile anche avanzare l'idea che quando uno stato viene creato sulla base dello spossessamento altrui, non importa quanto rimarchevoli siano stati i risultati, sarà sempre lecito metterne in dubbio la legittimità morale. Pappé conclude che i popoli colonizzati hanno -anche secondo la Carta delle Nazioni Unite- il diritto di lottare contro i colonizzatori, anche con mezzi militari; la conclusione positiva di questa lotta sta nell'arrivare alla creazione di uno stato democratico che includa tutti i suoi abitanti.
La postfazione di Chiara Cruciati aggiunge alcune considerazioni sull'Autorità Nazionale Palestinese nata dagli accordi di Oslo, e su come la sostituzione dell'OLP con una autorità non sovrana e da molti accusata di collusione con lo stato sionista avrebbe sancito nella società palestinese lo scollamento fra il vertice e la base.


Ilan Pappé - Dieci miti su Israele. Napoli, Tamu 2022. 285 pp.