Il lungo esodo ricostruisce i radicali e per certi versi inediti mutamenti demografici innescati al confine orientale della penisola italiana dagli avvenimenti storici e politici del ventesimo secolo, con particolare riferimento a quelli della seconda guerra mondiale e degli anni immediatamente successivi. Al momento della pubblicazione (2005) il testo costituiva uno dei primi e più organici tentativi di ricostruzione oggettiva degli avvenimenti in un settore molto influenzato dai localismi e dalla litigiosità connessa alla politicizzazione degli argomenti trattati; Pupo afferma che il tema consentiva di "analizzare a fondo alcuni dei processi più caratteristici e devastanti della contemporaneità nell’area centro-europea", che nella regione interessata si sarebbero prodotti "su scala ridotta ma con grande intensità".
Il primo capitolo inquadra l'esodo dei giuliano-dalmati nella storia della penisola italiana quantificandone immediatamente gli interessati. A dover abbandonare Zadar, Rijeka, le isole del Kvarner e l'Istra sarebbero state oltre duecentocinquantamila persone: "un popolo intero, con le sue articolazioni sociali, le tradizioni e i suoi affetti" costretto a trasferirsi a Trst e Gorica, nella penisola italiana o anche negli USA o in Australia. L'A. nota che non si trattò di un'ondata di grandi dimensioni -cosa che avrebbe facilitato il reinserimento dei profughi- ma che a essere rilevante fu la scomparsa di una intera "componente nazionale" dalle zone interessate, dove il paesaggio antropico sarebbe regredito di secoli in pochi anni prima che i vuoti creatisi fossero riempiti da un'immigrazione massiccia e organizzata e da una "invenzione della tradizione" esplicitamente rivolta a cancellare ogni retaggio del passato. Pupo nota che grosse oscillazioni demografiche avrebbero segnato la storia della regione fin dal tardo medioevo, senza però che vi intervenissero -fino al XX secolo- i fattori dovuti al nazionalismo. Nella regione, la fine dell'impero austroungarico avrebbe trasformato i contrasti tra nazionalità diverse da lotta per il potere locale a lotta per l'inserimento in uno stato nazionale esclusivista; una dinamica che avrebbe agito in un senso dopo il 1918, nel senso opposto dopo il 1945.
Secondo Pupo la storiografia e l'opinione pubblica avrebbero mostrato pochissimo interesse per gli argomenti trattati, almeno fino all'inizio del ventunesimo secolo. La cultura di sinistra non era intenzionata a dare spazio alle forze anticomuniste cui la politica di Josip Broz offriva abbondanti argomenti polemici, e men che meno a rilevare la condotta almeno ambigua del Partito Comunista specialmente sulla questione di Trst; questo non basterebbe a spiegare un silenzio generalizzato che l'A. attribuisce invece al profondo cambiamento avvenuto dopo il 1948 con la crisi tra Tito e Stalin e poi con la chiusura del contenzioso per Trst nel 1954. Da peggior nemico, il paese confinante divenne per il governo di Roma un "cuscinetto strategico di inestimabile valore" e un buon partner economico. Solo a Gorica e a Trst le "memorie dolenti" del secondo dopoguerra avrebbero sempre avuto un ruolo nella competizione politica. Il suicidio di un nazionalismo che per decenni aveva confuso l'amor di patria con la sopraffazione avrebbe tolto spazio, secondo l'A., a qualsiasi storiografia nazionalista. Il tema del confine orientale sarebbe così rimasto per decenni appannaggio della pubblicistica minore o di gruppi ristretti come quello degli esuli giuliani. Pupo nota anche la portata mitopoietica di questo campo di studi, rilevante tanto per il fascismo quanto per i suoi oppositori, sottolineando anche come gli stessi miti non reggano a indagini rigorose. Più che di "congiura del silenzio", l'A. preferisce parlare di "micidiale combinazione di rimozioni reciproche e selettive" accompagnate da un uso politico della storia che nella penisola italiana servì per qualche anno e soprattutto a livello locale a fini di legittimazione, per poi riprendere a livello centrale a decenni di distanza dai fatti ma per fini analoghi. Solo dopo il 2000 -con la promozione di commissioni di studio internazionali e il varo di iniziative istituzionali sull'argomento- lo studio della storia del confine orientale e la divulgazione dei suoi risultati avrebbero vista riconosciuta la loro importanza. Pupo mette in guardia contro i rischi della decontestualizzazione e contro quelli di un determinismo storico che postuli legami di causa ed effetto tra eventi succedutisi nel tempo. In questo senso, Pupo intende inquadrare il fenomeno dell'esodo e la riflessione sulle sue cause nel più generale contesto degli spostamenti di popoplazione nei due dopoguerra, notando anche come ancora negli anni Cinquanta fossero rintracciabili nuclei che non si sentivano rappresentati dalle identità nazionali prevalenti e preferivano ricollegarsi alla tradizione municipalista e autonomista della città di Trst.
Trattando de l'area giuliana fra le due guerre l'A. rileva come dopo il 1918 nelle province di Trst, Gorica e Rijeka la presenza non slava non avrebbe costituito altro che "un un velo di funzionari pubblici" attorno a una consistente presenza militare e che non avrebbe fatto in tempo a radicarsi nonostante i matrimoni misti, andando incontro a un "riflusso rapido e totale" dopo il 1945. Descrive poi la situazione in Istra, dove pur concordando con le dicotomie tra città e campagna e fra fascia costiera e retroterra ricorda anche l'esistenza di una borghesia slava nei centri urbani e -di contro- di un ceto di piccoli coltivatori diretti non slavi. Se in Dalmacija i nuclei non slavi parevano già destinati a soccombere -e non solo numericamente- a fronte di una società croata in forte espansione, nulla secondo Pupo pareva minacciare la vitalità e la numerosità degli equivalenti in Istra.
Pupo ricorda la vasta convergenza fra gli storici sulle difficoltà cui la società giuliana sarebbe andata incontro dopo l'inserimento in uno stato dove si sarebbe presto affermato un regime autoritario animato "da un feroce antislavismo". La marginalità economica dei territori, la brusca fine di un periodo di sostenuto sviluppo urbano e la per nulla oculata politica adottata verso le popolazioni slave non avrebbero prodotto trasformazioni sociali radicali, ma avrebbero approfondito le preesistenti fratture di ordine sociale e nazionale facendo crescere l'instabilità politica della regione. Pupo descrive la situazione di Trst rimasta priva dei tradizionali sbocchi mitteleuropei e che i nazionalisti più intransigenti avrebbero voluto veder regredire a "borgo di pescatori" piuttosto che dare agibilità alla borghesia slovena. La storiografia sull'Istra succintamente riassunta dall'A. invece presenterebbe da una parte la tendenza a magnificare la portata delle grandi opere volute dal fascismo per contrastare la mancanza d'acqua e di strade, e dall'altra quella di parlare di "governo del sottosviluppo".
La politica del fascismo nei confronti degli slavi viene esposta da Pupo con un incipit eloquente: la distruzione del Narodni Dom di Trst del 13 luglio 1920. L'A. ricorda che l'edificio, all'epoca modernissimo, testimoniava l'ascesa in città di una borghesia multinazionale di sloveni, croati, serbi e cechi che secondo la volontà imperiale avrebbe dovuto guidare l'economia e la cultura di una città cosmopolita, e ricorda che vari autori avrebbero ipotizzato una connivenza fra i fascisti, usati come massa d'urto, e le frange oltranziste delle autorità militari cittadine decise a influire sulle trattative che avrebbero portato al trattato di Rapallo. Il giorno seguente, ricorda Pupo, un analogo edificio a Pula sarebbe andato distrutto in modo analogo. Eventi connotati da somiglianze "a dir poco curiose". La violenza collusa con gli organi di stato avrebbe caratterizzato l'affermarsi di un "fascismo di confine" fortemente antislavo che sul piano interno avrebbe operato per la snazionalizzazione delle popolazioni slovene e croate secondo una politica connotata da radicalità dei propositi e virulenza repressiva. In vent'anni la componente slava della popolazione giuliana non sarebbe diminuita, ma il suo profilo sociale avrebbe risentito della decapitazione degli strati superiori e della dispersione dei ceti intellettuali. Il fascismo avrebbe perseguito la rapida e integrale nazionalizzazione dei territori annessi riavviando a forza il processo di assimilazione già in corso da due secoli -ma inceppatosi con l'ascesa dei nazionalismi- ricorrendo alla scuola, alle pressioni ambientali e agevolando tendenze di lungo periodo che avrebbero sottolineato la coincidenza tra cambio di nazionalità e promozione sociale. Pupo scrive che dopo il delitto Matteotti sarebbero state varate norme liberticide che avrebbero consentito di sciogliere ogni tipo di organizzazione e che la riforma Gentile avrebbe consentito di abolire l'insegnamento in lingue diverse da quella della maggioranza, cosa che avrebbe condannato gli scolari colpiti a un "doppio analfabetismo" appena calmierato da scuole clandestine aperte dai cattolici che suscitarono l'ira del potere. Roma avrebbe scompaginato la rete cooperativistica e creditizia slava; aumento delle tasse e stretta al credito avrebbero costretto i piccoli coltivatori sloveni e croati a svendere le loro piccole proprietà. Pupo sostiene che i piani per una loro sostituzione etnica proposti da personaggi come Italo Sauro sarebbero rimasti "pure esercitazioni cartacee" cui la storiografia avrebbe "attribuito eccessivo rilievo". Pupo ricorda anche gli sforzi fatti per cancellare ogni traccia visibile della presenza slava nelle terre di confine, col cambiamento prima dei toponimi, poi con quello dei cognomi e dei nomi di battesimo cui furono soggetti soprattutto i ceti culturalmente e politicamente deboli, non "gli Slataper, gli Stuparich, i Brunner, i Cosulich, i Suvich". L'A. nota che essendo l'operazione affidata a commissioni provinciali, uno stesso Sirk poteva diventare Serchi, Sirca o Sirtori. Non sarebbero sfuggiti alla risciacquatura in Arno nemmeno toponimi e cognomi friulani. L'A. riporta vari aneddoti sulle conseguenze anche gravi che poteva avere l'uso pubblico della lingua slovena o croata. Pupo non si sottrae al confronto tra l'esperienza fascista che avrebbe cercato di bonificare etnicamente un territorio senza riuscirvi, e quella comunista che ci sarebbe riuscita benissimo; ne rimanda la trattazione ai successivi capitoli prima di notare come al fascismo non mancarono "né la volontà, né la propensione a comportamenti violenti e odiosi, di cui anzi la propaganda fascista in più occasioni menò vanto. Mancò invece il tempo", mancarono le risorse e mancò anche la percezione della resistenza all'inculturazione forzata. L'A. ritiene che l'errore di fondo fosse nella convinzione diffusa che fosse possibile costringere una comunità di costituzione recente e superficiale a ripercorrere a ritroso un cammino di nazionalizzazione: si sarebbero postulati gli slavi come incolti e nazionalmente inconsapevoli ad eccezione di pochi sobillatori coincidenti con la classe dirigente e con gli esponenti della cultura. Di fatto il fascismo si sarebbe limitato a bloccare la tendenza all'espansione demografica e all'ascesa sociale, lasciando l'assimilazione delle campagne al tempo e alle spinte impresse dall'apparato del regime. Pupo scrive che in ogni caso avrebbero continuato a esistere molti ambiti da cui il fascismo rimaneva escluso e che avrebbero permesso di ammortizzarne le pressioni, favorendo la conservazione delle identità comunitarie.
Dopo l'annessione un complesso di motivazioni politiche ed economiche avrebbe spinto decine di migliaia di croati e di sloveni ad emigrare; secondo l'A. un confronto fra i dati dell'ultimo censimento austriaco del 1910 e quelli del censimento del 1921 farebbe pensare che nelle città la componente slava fosse collassata. Pupo cita il mancato ritorno dalle evacuazioni belliche in territori passati di mano, l'esodo di quasi tutta la comunità tedesca e del personale amministrativo e militare. Dopo l'annessione inoltre le nuove autorità avrebbero epurato interi settori chiave della pubblica amministrazione e perseguitato la classe dirigente slava, il mondo politico e gli intellettuali. Col trattato di Rapallo la tensione non si sarebbe attenuata: Pupo rileva come le persecuzioni fasciste avrebbero aggravato la crisi delle comunità slovene e croate con la cacciata degli insegnanti dalle scuole e con la ingegnosa estromissione dei professionisti dai rispettivi albi. Dalla fine del 1927 una circolare governativa avrebbe precisato che da Roma non si intendeva porre ostacoli all'emigrazione degli "allogeni", che si diressero per lo più in Argentina o nel regno confinante, che non disdegnò certo di servirsene per atti di ingegneria sociale in zone dove la popolazione slava era minoritaria e dove molti poterono mettere a profitto le competenze tecniche e professionali possedute almeno fino alla crisi degli anni Trenta, che inasprì ovunque i rapporti tra popolazione locale e nuovi venuti.
Pupo tratta delle associazioni degli emigranti sloveni e croati e di come dopo il 1928 una organizzazione degli emigranti jugoslavi fondata a Ljubljana politicizzò il movimento con un programma di lotta contro il fascismo e la sua politica di snazionalizzazione. Le pressioni da Roma indussero Beograd a sciogliere l'organizzazione, dominata da giovani di sinistra poco condiscendenti con lo establishment. L'A. cita anche il passaggio alla lotta armata di un certo numero di giovani slavi che si organizzarono a Gorica nel Trst, Istra, Gorica, Rijeka (TIGR) e a Trst nella Borba. I legami con la ORJUNA dei servizi segreti di Beograd avrebbero consentito agli attivisti -il TIGR avrebbe collaborato per qualche tempo anche con Giustizia e Libertà- di avviare una intensa campagna propagandistica e intimidatoria, con la diffusione di stampa clandestina e azioni distruttive contro asili, scuole e ricreatori considerati simbolo della snazionalizzazione. Il culmine della campagna sarebbe stato l'attentato al giornale fascista di Trst; la repressione avrebbe condannato a morte quattro attivisti, fucilati a Bazovica il 6 settembre 1930, e causato la fine della Borba e l'esilio della direzione del TIGR. Gli emigrati avrebbero dato vita a una nuova Zveza jugoslovanskíh emigrantov iz Julijske krajine, una Unione degli emigranti jugoslavi della Venezia Giulia dominata da conservatori irredentisti legati a Beograd fino a quando un periodo di distensione non indusse il governo a mettere la sordina alle sue attività, mentre Roma interrompeva quelle degli ustaša croati. Il TIGR in esilio, solo parzialmente coincidente con la Zveza, si sarebbe invece concentrato sulla collaborazione coi servizi segreti francesi e britannici, lanciando anche una serie di attentati e sabotaggi delle linee ferroviarie. Pupo descrive l'atteggiamento del PCI verso il TIGR, dapprima negativo perché la rivoluzione in entrambi i paesi doveva passare in primo piano rispetto a qualsiasi irredentismo, poi di segno opposto quando dall'URSS sarebbe arrivata la direttiva di favorire la costituzione di ampi fronti popolari. Negli anni della guerra tuttavia, a fronte dei successi del movimento partigiano jugoslavo, il tema del diritto all'autodeterminazione avrebbe non poco complicato i rapporti tra partiti comunisti e tra formazioni antifasciste.
Il venire meno dell'appoggio di Beograd sotto pressione da Roma e la repressione fascista avrebbero portato alla fine del TIGR e al secondo processo a Trst nel 1941. Le nuove formazioni armate che con l'attacco tedesco all'URSS avrebbero portato la guerriglia nei territori slavi occupati non avrebbero avuto nulla a che fare col TIGR, i cui pochi superstiti vennero tenuti da parte per i loro legami coi britannici e con Beograd e per la primogenitura che avrebbero potuto rivendicare nella lotta armata. Solo la storiografia slovena postcomunista avrebbe ampiamente rivalutato il ruolo di quella organizzazione. Nel processo del 1941 il tribunale speciale divise la sessantina di imputati in tre gruppi (intellettuali, comunisti e terroristi) con ciò intendendo trascinare in giudizio la resistenza al fascismo in tutte le sue accezioni.
Il terzo capitolo è incentrato sulle vicende del secondo conflitto mondiale, cui la società giuliana sarebbe arrivata indebolita da profonde lacerazioni cui avrebbero contribuito le leggi razziali del 1938. Pupo nota che la popolazione avrebbe piuttosto assistito agli eventi con il "nessun entusiasmo, nessuna ansia, nessuna impazienza patriottica" analoghi a quelli prevalenti nella penisola, almeno finché il conflitto si mantenne lontano nello spazio. Solo nel 1941 l'aggressione contro Beograd avrebbe fatto sussultare l'opinione pubblica, che avrebbe percepito gli slavi come un nemico reale "con il quale saldare il conto una volta per tutte". Pupo nota che l'effimero consenso all'aggressione avrebbe approfondito la crisi di una società già spaccata e avrebbe lasciato il posto al timore di un'"onda di ritorno" slava capace di travolgere la regione. Onda che si sarebbe a tutti gli effetti annunciata con le prime azioni partigiane. L'A. riassume eventi e cause della violenta dissoluzione dello stato slavo e della conseguente guerra civile cui il confine orientale non sarebbe rimasto estraneo, specie dopo l'istituzione della provincia di Ljubljana; ricorda le rappresaglie sui civili e i campi di internamento a Gonars e a Rab prima di concludere ricordando che fin dal 1942 le azioni partigiane avrebbero comunque massicciamente investito le province di Rijeka, Gorica e Trst provocando tra l'altro le prime fughe fra gli elementi non slavi insediatisi nelle zone rurali nei venti anni precedenti, e togliendo sostanzialmente alle autorità di Roma il controllo del territorio. L'A. scrive che la minaccia indusse le autorità a costituire corpi antiguerriglia come l'Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, detto Banda Collotti e noto per le scelleratezze commesse. In Istra invece i comunisti croati -rappresentati da esuli slavi ritornati nei luoghi di origine- avrebbero preferito evitare scontri diretti, costruendo invece una fitta trama clandestina per la propaganda, il proselitismo, la raccolta di informazioni e rifornimenti che avrebbe preparato il terreno a iniziative di portata assai più ampia. Pupo identifica il fatto politico centrale della costruzione del movimento clandestino in Istra nella saldatura tra "rivoluzionari di professione" e narodnjaki, esponenti del nazionalismo tradizionale croato. I quadri comunisti croati avrebbero fatto equivalere la costruzione del socialismo alla distruzione delle basi materiali della popolazione non slava, e l'edificazione della società socialista "avrebbe assunto i connotati di una conquista delle città da parte della campagna". La fine del governo fascista il 25 luglio 1943 avrebbe tolto ogni riferimento immediato alle realtà che percepivano come prioritaria la difesa di una identità nazionale scopertamente minacciata anche dalle dichiarazioni sovietiche sul futuro della regione, e che si adoperarono per trovare un altro tutore per la propria causa. Nel frattempo i giovani croati desiderosi di unirsi all'esercito popolare di liberazione sarebbero diventati tanto numerosi da mettere in crisi la logistica del movimento clandestino in Istra, che stante l'assenza di risposte dal partito comunista croato si sarebbe risolto a una serie di azioni dimostrative che nel collasso delle istituzioni non alimentarono alcun sentore di emergenza incombente. Dopo l'8 settembre la presa del controllo del territorio e la forte carica di violenza sprigionatasi nell'operazione da parte del movimento clandestino sarebbero sembrate ai più inspiegabili; lo stesso movimento avrebbe proclamato a Pazin il 13 settembre l'annessione dell'Istra con una deliberazione rapidamente fatta propria dallo AVNOJ, il consiglio antifascista popolare di liberazione della Jugoslavia. Un'altra assemblea popolare avrebbe adottato una deliberazione analoga a Ajdovščina per confermare l'annessione della Primorska alla Slovenia. L'A. ricorda che almeno dal 1941 il fronte di liberazione sloveno aveva adottato la definizione di "territorio etnico" elaborata dal nazionalismo ottocentesco, considerandolo esteso fino a dove la popolazione rurale slovena non veniva del tutto sostituita da insediamenti compatti di altra nazionalità. I centri urbani vi figuravano come "isole nel mare" destinate a essere sommerse, Trst compresa; in sostanza sarebbe stato sloveno tutto l'est del fiume Soča, come avrebbero imparato a proprie spese i negoziatori della resistenza. Il riconoscimento dello AVNOJ avrebbe fatto considerare le annessioni un dato compiuto che croati e sloveni avrebbero dovuto difendere con le armi e con la diplomazia, e gli organi del movimento di liberazione gli unici legittimi detentori del potere in Istra, a Rijeka e nella Primorska, cui formazioni politiche e armate di ogni ascendenza etnica avrebbero dovuto sottostare. Pupo sottolinea che il consolidamento dell'annessione sarebbe stato perseguito agendo sul piano del controllo del territorio (con gli antifascisti non slavi come comprimari non autonomi) e sul piano diplomatico, volto a ottenere il riconoscimento internazionale di quanto deciso dallo AVNOJ prima che il conflitto si concludesse. In Istra, il problema della mobilitazione controllata e del consenso delle masse sarebbe stato risolto incorporando le strutture politiche e militari comuniste non slave all'interno di quelle croate. Pupo scrive che lo AVNOJ sarebbe stato mosso anche dal timore che lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe potuto riacquistare concretezza dopo la guerra, e magari riuscire a imporre plebisciti sotto controllo internazionale secondo una prassi tutt'altro che rivoluzionaria. La leadership comunista non avrebbe avuto alcuna intenzione di mettere a rischio i risultati ottenuti sul campo; dalla tarda estate del 1944 il riconoscimento da parte di URSS e Regno Unito del ruolo conquistato da Tito sulla scena politica la avrebbe indotta a perseguire esplicitamente il conseguimento del fatto compiuto, chiudendo con i compromessi.
Pupo indica valuta fra cinquecento e settecento le vittime finite nelle foibe dell'Istra dall'autunno del 1943 e ricorda che la storiografia -soprattutto slava- ha sempre negato qualsiasi progettualità in proposito, liquidando gli eventi come frutto di un "ribellismo, di una pressione a lungo accumulata che trova rapidamente una via di sfogo". La prassi fascista avrebbe reso per vent'anni indistinguibile il partito dallo stato, per cui la rabbia popolare si sarebbe rivolta contro "un ampio ventaglio di bersagli, che andava dai dirigenti del PNF, dai carabinieri e dalle guardie campestri, dai podestà e dai segretari comunali, fino ai maestri, ai farmacisti, ai postini", assumendo in alcune circostanze i tratti della lotta di classe. Pupo sostiene che i confini fra lo scontro politico e il regolamento di conti, la mobilitazione antifascista e l'aggressività nazionalista furono resi labili dal clima generale, ma che elementi di progettualità sono comunque facili da identificare tenendo presente il fatto che le autorità popolari appena costituite provvidero ad arresti a atappeto e alla concentrazione dei prigionieri in località specifiche come Pazin, in cui venne istituito un tribunale rivoluzionario che celebrò processi sommari e in cui vennero eseguite gran parte delle uccisioni di massa. Le fonti croate attestano chiaramente che i nuovi poteri in Istra avevano il compito di "ripulire il territorio dai nemici del popolo", una categoria indeterminata in cui poteva rientrare chiunque non collaborasse attivamente col movimento di liberazione, largamente destinati alla pena capitale. L'eliminazione di tutti i detenuti di Pazin nell'imminenza di una poderosa offensiva tedesca volta a riguadagnare il controllo della zona si collocherebbe per Pupo a metà fra la volontà di guerra totale e la criminalità politica: l'analisi storica deve tuttavia esaminare un quadro articolato in cui sembrano intrecciarsi diverse logiche. Giustizialismo sommario, nazionalismo, rivalse sociali e faide paisane sarebbero coesistite con un piano di sradicamento del potere non slavo attuato decimando e intimidendo la classe dirigente, per spianare la via a un contropotere partigiano che si presentasse innanzitutto come un vendicatore dei torti -individuali e storici- subiti dai croati in Istra. L'immagine patriarcale degli slavi come contadini sottomessi e innocui ne uscì comunque in pezzi: per i non slavi si sarebbe materializzato all'improvviso un "mondo alla rovescia" in cui ogni cosa diventava angosciosamente possibile. L'A. sottolinea che il trauma si sarebbe fissato nella memoria collettiva insieme alla spiegazione più semplice, che faceva degli slavi degli assassini. La propaganda della Repubblica Sociale e i duri scontri fra partigiani e nazifascisti del biennio successivo avrebbero dato origine a un processo di sedimentazione della paura alimentato dallo stillicidio di intimidazioni, scomparse e uccisioni del dopoguerra in cui secondo l'A. si sarebbe verificata "una sorta di condensazione della memoria" che avrebbe concentrato episodi lontani tra loro anche dieci anni, picchi di violenza di massa e routine di insofferenza e di terrore, nell'immagine di un unico disegno intenzionato a distruggere materialmente i non slavi della Venezia Giulia. Sia pure difficile da proporre in sede di ricostruzione critica, questa percezione avrebbe influito in modo determinante sull'avvio di "un processo di dissoluzione degli assetti e della capacità di reazione" delle comunità non slave in Istra, di cui l'esodo sarebbe stato la manifestazione ultima. L'A. inzia a trattare dei profughi indicando i primi in un certo numero di impiegati pubblici esuli dalle zone annesse della Dalmacija, in cui erano rimasti senza mezzi dopo l'instaurazione del potere ustaša. Fra il 1944 e il 1945 un flusso molto più nutrito avrebbe raggiunto Trst da Zadar, distrutta sistematicamente da una lunga serie di bombardamenti. Pupo nota che la convinzione -diffusasi già all'epoca e poi consolidatasi fra gli esuli- di una loro sollecitazione da parte slava conta su certe prove documentali, ma che non è chiaro se il processo decisionale degli alti comandi alleati ne fosse stato influenzato e in quale misura. Da Pula e dall'Istra in generale si sarebbero invece allontanati i "caporioni dello squadrismo" pi famigerati per brutalità e accanimento antislavo e gli alti quadri del fascismo e delle forze armate; sarebbero rimasti i quadri inferiori del partito e dell'apparato repressivo, destinati a essere immediatamente presi di mira dopo l'occupazione della Venezia Giulia. Pupo rileva che in nessun caso negli ultimi mesi di guerra si sarebbe avviato in quello che era diventato lo Adriatische Kustenland un massiccio trasferimento di popolazione; nessuna autorità avrebbe avuto né l'intenzione né la capacità di gestirne uno. Se a Roma si fidava nel fatto che a liberare la regione sarebbero stati gli alleati occidentali, a livello locale sarebbe esistito un nucleo circoscritto ma significativo -rappresentato dalla maggior parte della classe operaia- che nell'esercito popolare di liberazione avrebbe visto il portatore di prospettive di libertà e di riscatto sociale impensabili fino a poco tempo prima. L'A. rileva il diverso orientamento di fondo tra l'internazionalismo proprio del PCI e il nazionalismo dei comunisti sloveni e croati, alla base di una diversa concezione strategica per la diffusione del socialismo in Europa. Al tempo stesso, se il PCI sarebbe rimasto ancorato alla "grande alleanza" antinazista del CLN, i comunisti sloveni e croati avrebbero perseguito "una salda egemonia sulle altre componenti resistenziali", anticipando fin dall'estate del 1944 la logica dello scontro fra blocchi. Sarebbero stati i rimarchevoli successi sul campo dei comunisti slavi a indurre quadri e dirigenti del PCI a cambiare drammaticamente linea, almeno sul confine orientale. Pupo scrive che un faticoso accordo raggiunto a Milano sarebbe diventato presto lettera morta in virtù del riconoscimento del ruolo politico di Josip Broz Tito da parte degli alleati occidentali. Alla fine di agosto 1944 il partito comunista sloveno avrebbe rivendicato con intransigenza tutta la Primorska e avviato piani concreti per impadronirsi del potere a Ljubljana, Klagenfurt, Gorica e Trst. L'A. ricorda anche le vicende che avrebbero portato i comunisti giuliani ad accettare la linea annessionista slovena in nome della necessità di guadagnare posizioni in virtù del futuro confronto con le potenze capitaliste. Una prospettiva assai radicale che avrebbe incontrato sensibilità diffuse non solo fra la classe operaia giuliana, ma anche ai massimi livelli fra i comunisti della penisola italiana a prescindere dalla linea ufficiale del partito, allora al governo e interessato ad accreditarsi come difensore efficace dell'integrità territoriale. Pupo sostiene che la poca insistenza da parte di Mosca sull'avallo delle richieste jugoslave avrebbe lasciato al PCI la libertà di condannare nel maggio 1945 l'occupazione di Trst. A livello locale, reso acefalo dalla repressione, il PCI si sarebbe invece allineato alle posizioni slovene uscendo di fatto dal CLN giuliano; in queste circostanze, ricorda Pupo, si sarebbe consumato l'eccidio del comando della brigata Osoppo sospettato di collusione con la RSI da brigate comuniste costrette da una forte offensiva tedesca ad accettare le richieste slovene e a rompere di fatto i rapporti col CLN.
Pupo tratta quindi della crisi del maggio 1945 a Trst, dove il CLN -militarmente debole ma riferimento della parte non slava della cittadinanza- sarebbe riuscito a sventare i tentativi di cattura politica sia da parte dei collaborazionisti che da quella del fronte di liberazione; il IX Korpus non avrebbe incoraggiato l'insurrezione delle formazioni contigue, dando l'impressione di preferire una liberazione portata dall'esterno a una conquistata dai triestini, sia pure filojugoslavi. Da Ljublijana sarebbe arrivata comunque la direttiva di considerare "nemico e occupatore" l'intero apparato amministrativo e poliziesco della città. Il 29 aprile 1945 il CLN sarebbe insorto, seguito a ruota dalle formazioni filojugoslave della Unità Operaia; all'arrivo dell'armata popolare il 1 maggio 1945 il CLN sarebbe rientrato in clandestinità nascondendo le armi, non senza essere riuscito a dimostrare che la pretesa delle organizzazioni comuniste di rappresentare l'antifascismo nella sua interezza non era fondata e che i riferimenti a una ispirazione risorgimentale che poteva parere anacronistica poteva ancora sprigionare virtù civili, nel particolarissimo contesto della frontiera orientale.
L'A. scrive che quando fu chiaro che nell'autunno del 1944 gli alleati non sarebbero riusciti a superare l'Appennino, la IV armata jugoslava ebbe come obiettivo prioritario ultimare l'occupazione della Venezia Giulia anche a costo di qualche rischio. Per evitare dinamiche da guerra civile, gli alleati avrebbero inviato a raccogliere la resa dei reparti tedeschi la II divisione neozelandese, giunta in città solo il 2 maggio, con un'iniziativa che i comandi jugoslavi considerarono comunque come una intromissione indebita. Nella crisi diplomatica che ne conseguì e nel passaggio dalla guerra alla pace si sarebbe fissata sul terreno una situazione sostanzialmente non modificabile senza il ricorso alle armi. Se i grandi centri urbani a eccezione di Rijeka passarono sotto controllo alleato dopo un mese, nel restante territorio i poteri popolari creati dal movimento di liberazione jugoslavo avrebbero perseguito la criminalizzazione del CLN e l'annessione alla Jugoslavia; le forze che facevano capo al PCI avrebbero appoggiato queste istanze aprendo una frattura storica con gli organi nazionali del partito che avrebbe richiesto decenni per una ricomposizione. Pupo ricorda che per decenni la crisi del maggio 1945 sarebbe stata cosiderata il primo caso di confronto tra blocchi contrapposti, e che la storiografia più recente l'ha invece considerata un caso di cogestione del vuoto di potere lasciato dal crollo tedesco, che le parti coinvolte avrebbero gestito agendo tutte con prudenza per non scatenare una guerra civile che non avrebbe favorito gli interessi di nessuno. L'A. nota che da Mosca la Jugoslavia non ebbe l'auspicato appoggio al ruolo di avanguardia del socialismo che la sua dirigenza politica stava cercando di mettere in atto, anche con iniziative unilaterali; in pratica da Mosca si sottolineò che disponendo del controllo militare del territorio e di quello delle autorità civili, non sarebbe rimasto altro da fare che trattare con gli alleati per un compromesso che sanzionasse la situazione di fatto al meglio possibile. Che non doveva necessariamente corrispondere alle massime aspirazioni di Beograd. Pupo ritrae l'esecutivo jugoslavo del 1945 come animato da un estremismo ideologico maturato in una lotta per la liberazione nazionale che ambiva a trasformarsi da una parte in rivoluzione e dall'altra in politica di potenza, notando che in politica estera esso avrebbe potuto condurre il paese su posizioni troppo esposte e alla fin fine impossibili da sostenere. Dopo un mese di incertezza l'accordo di Beograd avrebbe portato alla istituzione in Venezia Giulia di una zona A affidata agli alleati -con Trst e la énclave di Pula- e di una zona B comprendente tutto il resto della regione, affidata all'amministrazione militare jugoslava. A differenza degli alleati -arrivati nella zona in base a valutazioni meramente militari- gli jugoslavi erano motivati da un insieme di istanze nazionaliste, totalitarie e rivoluzionarie; a differenza di quella del 1943, l'ondata di violenze del 1945 -che comportò alcune migliaia di vittime in buona parte non morte "nelle cavità carsiche, ma in circostanze diverse o durante la prigionia"- coinvolse soprattutto i centri urbani. A farne le spese centinaia di militari della RSI e tedeschi. Immediatamente dopo la fine delle ostilità non si sarebbero in generale verificate forme di violenza spontanea; dall'alto fu invece avviata, sia pure in un clima da resa dei conti, una terrorizzante campagna di arresti che nelle città avrebbe mirato non tanto alla punizione di responsabilità individuali, ma a mettere in condizione di non nuocere intere categorie percepite come pericolose per l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. In Istra le autorità jugoslave non si posero il problema di eliminare sic et simpliciter i non slavi, ma di togliere di mezzo tutti i soggetti che avrebbero potuto mettere in discussione la saldezza del nuovo dominio o incrinare l'immagine di compattezza della partecipazione popolare ad esso. Di qui la criminalizzazione del CLN e la diffidenza non solo verso gli alleati, ma anche verso i sovietici che avevano rilevato come il fatto compiuto e l'esercizio della forza non potevano sostituire per intero le soluzioni concordate. Pupo nota che i non slavi perseguiti e spesso "liquidati" furono molti di più degli sloveni e dei croati, per motivi che riguardavano il passato -le colpe del fascismo- il presente -l'opposizione alle rivendicazioni slovene e croate- e anche il futuro, data per scontata la permanenza nel mondo capitalista dello stato che occupa la penisola italiana; il gruppo nazionale non slavo prevalente sarebbe quindi stato considerato altamente sospetto se non decisamente nemico, a meno che i suoi membri non fossero stati in grado di dimostrare il contrario militando nel movimento di liberazione. Nel caso dei quadri inferiori cui di fatto era affidata la repressione, sottolinea l'A., "le distinzioni tendevano a sfumare pericolosamente".
Il quarto capitolo del libro tratta degli obiettivi jugoslavi e del trattato di pace. Pupo sottolinea come la violenza, seppure espressione più drammatica e immediatamente percepibile della presenza jugoslava, fosse solo un aspetto di una strategia che nel complesso avrebbe mirato a creare sul campo un rapporto di forze tale da rendere irreversibile il dominio acquisito, il consolidamento delle strutture politiche di base e l'avvio della trasformazione socialista della società. Gli aspetti nazionalisti e quelli della rivoluzione di classe sarebbero stati strettamente intrecciati nella lotta di liberazione slovena e croata. Pupo nota come il tema della "fratellanza" tra popoli diversi fosse rapidamente impallidito al pari di ogni altro argomento a fronte del tema del controllo del territorio e delle annessioni, ed evidenzia come l'atteggiamento da tenere nei confronti dei non slavi fosse stato oggetto di dibattito durante tutta la lotta di liberazione; un dibattito in cui non sempre le voci intransigenti coincidevano con quelle comuniste. Sulla espulsione dei non slavi Pupo non avrebbe rilevato nelle fonti l'assunzione di decisioni ufficiali ai massimi livelli del movimento di liberazione; la classe operaia di Trst e di Tržič sarebbe stata anzi percepita come affidabile e suscettibile di arricchire della propria competenza e della propria esperienza una Jugoslavia rivoluzionaria. Fra i non slavi, agli "onesti antifascisti" disposti a contribuire alla costruzione del socialismo il movimento di liberazione avrebbe contrapposto i "nemici del popolo" cui non sarebbe spettato alcuno dei diritti previsti per la tutela delle minoranze. L'A. nota che fra i primi sarebbero senz'altro rientrati i membri della classe operaia e gli intellettuali marxisti, tra i secondi gli strati più alti della società giuliana nonostante i tentativi di aggancio più volte intrapresi a Trst. I ceti che più avrebbero avuto da perdere dalla trasformazione socialista dell'economia sarebbero stati quelli della piccola e della media borghesia urbana, animati in blocco da una cultura politica fondata sull'amor di patria e sull'irredentismo e in cui si sarebbero riconosciuti anche quanti non avevano condiviso il fascismo; sarebbe stata più aperta invece la questione riguardante i contadini. Pupo sottolinea comunque il pesante ruolo della dimensione etnica, riferendo un censimento dell'ottobre 1945 che avrebbe molto sottodimensionato la popolazione non slava della regione, adottando come criterio di appartenenza non la lingua d'uso ma la lingua materna e sottraendo così al conteggio la (numerosa) componente frutto delle snazionalizzazioni dei decenni precedenti, oltre che quella insediatasi nella Venezia Giulia dopo il 1918. In concreto quest'ultima componente della popolazione non slava sarebbe stata considerata come formata da immigrati da rimpatriare, spesso a prescindere dal contributo dato alla lotta di liberazione. Secondo Pupo, in considerazione dei criteri di desiderabilità adottati dal movimento di liberazione, "esistevano in nuce le premesse per il disfacimento delle comunità [...] anche se non si può parlare della preesistenza di un progetto generale di espulsione".
L'esclusione di Trst, Gorica e Tržič dalla zona B avrebbe inoltre escluso dal controllo jugoslavo proprio le aree a maggiore concentrazione operaia.
Gli abitanti non slavi dell'Istra avrebbero accolto l'avvio delle trattative di pace nel 1946 rifiutando l'idea che città dove la presenza croata era modesta o nulla potessero venir annesse dalla Jugoslavia e presumendo un divario abissale fra la loro civiltà e la barbarie slava. Nella penisola italiana i partiti antifascisti avrebbero teso a sopravvalutare molto l'importanza della cobelligeranza, e a sottovalutare la reale portata della sconfitta in termini di ridimensionamento dello status del paese a livello internazionale. La determinazione delle condizioni di pace sarebbe avvenuta in ragione esclusiva degli equilibri fra potenze vincitrici: Pupo considera Parigi come l'ultimo atto dell'alleanza di guerra fra compagini antinaziste, una situazione da cui gli sconfitti non avrebbero potuto che uscire stritolati. Una commissione nominata dalle grandi potenze avrebbe prodotto dopo molti incontri con autorità e cittadini quattro diverse ipotesi per la definizione di confini praticamente impossibili da definire; i ministri degli esteri decisero per una soluzione di compromesso assegnando comunque la maggior parte dei territori alla Jugoslavia, paese vincitore e vittima dell'aggressione del 1941. L'internazionalizzazione di Trst sotto la diretta amministrazione dell'ONU avrebbe evitato agli occidentali di consegnare una città di rilievo strategico a quella che veniva considerata la longa manus dell'URSS. Solo il PCI cercò di opporsi a un piano che avrebbe minato la sua credibilità, laddove la divisione del mondo in blocchi contrapposti minacciava seriamente la sua possibilità di rimanere forza di governo. La mossa, ricorda Pupo, fu un boomerang: Tito avrebbe accettato di non cedere il solo centro urbano di Trst -destinato a rimanere come énclave in Jugoslavia- dietro la cessione di tutta Gorica. Alla luce della nulla voce in capitolo accordata allo stato che occupa la penisola italiana, Pupo presenta come insignificante il dibattito, che pure ebbe molta eco nella regione, sull'organizzazione di un plebiscito. A sostenere la necessità di una consultazione dall'esito non scontato sarebbero stati solo i non slavi dell'Istra meridionale; lo storico Ernesto Sestan avrebbe invece prodotto una relazione realisticamente pessimista sugli esiti dell'operazione, e a Roma nessuno volle vincolare la politica estera alla logica di plebisciti nella Venezia Giulia avrebbero avuto un risultato incerto, e in Südtirol ne avrebbero avuto uno certissimo. Dai centri urbani come Rijeka e Pula sarebbero quindi partite subito dopo la firma del trattato le prime e imponenti ondate di esuli.
Nel quinto capitolo Pupo tratta dunque della prima ondata di esuli partiti da Rijeka e da Pula. A Rijeka, molto danneggiata dal conflitto, la repressione avrebbe colpito tanto i fascisti quanto gli autonomisti di vecchia data. La leadership croata avrebbe proceduto senza gradualità a quella che Pupo definisce una "jugoslavizzazione accelerata" che avrebbe avuto "effetti assolutamente devastanti". La sensazione per i non slavi sarebbe stata di trovarsi davanti a un'autorità che era esclusiva espressione dei loro antagonisti e che abbinava esclusione nazionale ed esclusione di classe, in un contesto in cui la repressione aveva mano libera mentre i problemi della mera sussistenza rimanevano per lo più irrisolti. Le nuove autorità avrebbero epurato con puntiglio proprietari, azionisti e amministratori delle maggiori imprese senza tanti riguardi per la loro effettiva condotta, in una "espropriazione degli espropriatori" anche in absentiam che avrebbe condotto a una drastica trasformazione della società disperdendo tanto la borghesia industriale quanto il ceto medio. L'A. mostra come gli accenni di dissidenza emersi prima della fine del 1945 furono il pretesto per introdurre capillari controlli da parte della polizia politica e per l'eliminazione fisica di personalità del CLN che avevano trovato un qualche terreno di azione nelle rappresentanze sindacali. Ne sarebbe risultato un clima di disperazione esacerbato da una perdurante miseria materiale che fece aggregare i non slavi, classe operaia compresa, attorno a punti di riferimento praticamente opposti a quelli presentati dalle nuove autorità, come le cerimonie religiose. Pupo indica in ventimila gli esuli partiti nel gennaio 1946: "impiegati, commercianti, artigiani impoveriti" e molti studenti allontanati dalle famiglie in previsione del peggio. Le autorità avrebbero reagito rallentando ad arte la burocrazia, con una violenta campagna stampa e in pratica imponendo a chi partiva di rinunciare ad ogni bene. Strategia e comportamenti che avevano portato al punto di rottura con una parte tanto consistente della popolazione -sottolinea l'A.- non sarebbero stati oggetto di alcun ripensamento. Dalla fine del 1946 fino alla nazionalizzazione varata in tutta la Jugoslavia nel 1948 artigiani e dettaglianti sarebbero stati accusati della perdurante penuria di beni e colpiti da multe e sequestri, togliendo ogni base economica al ceto medio urbano non slavo.
Pupo descrive anche un controesodo di alcune migliaia di persone, animato soprattutto da operai dei cantieri di Tržič, che avevano scopertamente parteggiato per l'annessione slava di tutta la Venezia Giulia e per le quali restare sotto lo stato che occupa la penisola italiana non rappresentava una buona prospettiva e che una Jugoslavia avida di personale competente avrebbe accolto di buon grado. Pupo descrive la triste fine di un'esperienza utopistica: i nuovi arrivati -con particolare riferimento a una cinquantina di persone particolarmente esposte- sarebbero stati i primi a pagare la rottura dei rapporti tra URSS e Jugoslavia.
Pula venne abbandonata dalle formazioni jugoslave dopo l'accordo di Beograd e venne amministrata da un governo militare alleato fino al trattato di pace. L'esodo di massa sarebbe iniziato solo allora, preceduto nel 1946 da un rovesciamento di posizione della classe operaia non slava, in precedenza favorevole all'annessione; la rimozione delle attrezzature industriali da parte delle truppe jugoslave e la presenza di "elementi croati impregnati di nazionalismo" nelle organizzazioni comuniste locali avrebbero avuto in questo un ruolo sostanziale. I poteri popolari avrebbero inoltre epurato Pula dai fascisti rimasti in città e messo all'angolo gli oppositori all'annessione, imponendo alle masse la dirigenza del movimento di liberazione inteso come depositario dell'unica linea politica ammissibile. Pupo scrive che lo stile direttivo dell'amministrazione, coronato dalla allegra e rumorosa appropriazione degli spazi pubblici, sembrava fatto apposta per incarnare agli occhi dei cittadini non slavi tutti i pregiudizi negativi diffusi in Istra. L'A. descrive la progressiva polarizzazione dello scontro, con l'obiettivo dell'annessione eretto a unico criterio di valutazione delle scelte politiche e con l'esodo come unica espressione del dissenso; la decisione delle potenze vincitrici di attenersi alla proposta francese per la definizione dei confini, che assegnava Pula alla Jugoslavia, avrebbe avuto l'effetto di un fulmine a ciel sereno sulla popolazione non slava. A fine luglio 1946 un apposito comitato avrebbe raccolto oltre ventottomila dichiarazioni favorevoli all'esodo su circa trentaduemila cittadini. Le mine esplose a Vergarola avrebbero diffuso la psicosi di una congiura in un ambiente già angosciato, facendo percepire come impossibile una ulteriore permanenza data anche l'assenza di notizie certe sulle condizioni del trattato di pace. Pupo descrive le condizioni in cui la popolazione non slava abbandonò Pula dal 23 dicembre 1946, curando di non lasciare nulla in una terra diventata nemica.
L'A. richiama una inchiesta del partito comunista jugoslavo del 1951 per descrivere il "comunismo di guerra" instaurato in Istra fuori dai grandi centri; condizioni di una tale durezza da far scegliere la via dell'esodo, come previsto dal trattato di pace, non solo ai non slavi ma anche a molti individui e gruppi la cui autodefinizione "nazionale" era nel corso dei decenni variata in conseguenza delle vicende politiche. Una disconferma cui le autorità jugoslave non avrebbero saputo reagire altrimenti che ostacolando burocraticamente le partenze secondo una volontà politica espressa dall'alto. Il repentino peggioramento dei rapporti con l'URSS avrebbe trasformato i comunisti non slavi in Istra da interlocutori privilegiati a peggiori nemici, sottraendo loro ogni spazio di mediazione. In un campo ancora poco indagato storicamente esiste letteratura che considera l'accaduto come un elemento decisivo per la spiegazione del fenomeno dell'esodo; l'A. denuncia l'ottica peggio che parziale di questa storiografia che prenderebbe in considerazione solo un segmento circoscritto di un intero gruppo nazionale, i soli strati sociali giudicati coinvolgibili nell'edificazione del socialismo.
La popolazione non slava, scrive l'A., avrebbe retto meglio nella zona B del Territorio Libero di Trst statuito dal trattato di pace, ma non certo per la maggior permissività delle autorità locali. A prevalere sarebbe stata la speranza di una più o meno prossima fine del controllo jugoslavo, con le cui autorità civili i rapporti sarebbero stati molto tesi. Uno sciopero a Koper nel dicembre 1945 sarebbe stato represso dalle autorità civili mobilitando la popolazione slovena delle campagne -cosa che le rese espressione esclusiva di una sola parte- ed epurando il partito comunista di Koper, Piran e Buje. Molti dati di fatto riepilogati dall'A. avrebbero edotto le autorità sulla generale ostilità verso l'annessione, cui esse avrebbero cercato di far fronte con i metodi già indicati e comunque senza mettere minimamente in discussione la propria linea politica. La presenza della commissione interalleata per i confini nel 1946 sarebbe stata accolta da una popolazione che avrebbe trovato vari ingegnosi sistemi per denunciare le autorità jugoslave senza incorrere nella repressione. Le più o meno riuscite spoliazioni di macchinari dal Territorio Libero avrebbero finito di alienare la locale classe operaia alla causa jugoslava; nel 1948 la classe operaia della zona B avrebbe adottato rapidamente la posizione sovietica.
Pupo ricorda come il mutare della situazione internazionale dopo il 1946 finisse per lasciare sulla carta il previsto stato cuscinetto di Trst, che sarebbe dovuto sorgere su una zona A sotto controllo alleato e una zona B sotto controllo militare jugoslavo, e per il quale molti avrebbero comunque previsto vita breve e difficile dato che la popolazione e le organizzazioni non slave in città non sembravano in grado di contrapporre azioni efficaci alle iniziative e alla capacità organizzativa della controparte. Gli alleati occidentali avrebbero congelato il Territorio Libero rendendo impossibile la nomina di un governatore da parte dell'ONU. Una decisione di cui nessuno si curò di avvertire Roma e men che meno la popolazione della zona B, cui sarebbe seguita nel 1948 una manifestazione di intenti per il ritorno di tutto il Territorio sotto la sovranità di Roma. La crisi tra Beograd e Mosca avrebbe imposto alla situazione una svolta imprevista causando un totale rovesciamento della posizione degli alleati occidentali, interessati adesso a non irritare un possibilissimo alleato per una questione maginale nella conflittualita fra blocchi contrapposti. L'adesione alla NATO non si sarebbe tradotta per Roma in una revisione del trattato del 1947; la Jugoslavia avrebbe avuto le mani libere nella zona B e avrebbe approfittato della cosa per interrompere progressivamente i legami di quel territorio con Trst, con tutte le conseguenze economiche e lavorative del caso per gli abitanti; gli alleati si sarebbero invece serviti del loro potere di condizionamento nella zona A per insistere affinché venisse adottata una politica di conciliazione con la Jugoslavia. Dopo il 1949 la difformità fra zona A e B sarebbe stata sancita anche dai risultati delle consultazioni elettorali. Pupo riporta una aneddotica eloquente circa i metodi senz'altro persuasivi con cui gli attivisti della zona B curarono la lotta all'astensionismo, rendendo di fatto impossibile anche una resistenza passiva. A favorire la fuga di un migliaio di persone sarebbe man mano intervenuto anche l'arrivo di emigranti dalla Jugoslavia, che avrebbe modificato al punto la fisionomia del territorio da renderla con gli anni sempre più irriconoscibile. Dell'aggressivo nazionalismo sloveno e croato avrebbero fatto le spese anche alcuni sacerdoti a prescindere dalla loro nazionalità: Pupo riferisce tra l'altro di quattro omicidi di sacerdoti, di una campagna di aggressioni fisiche contro i vescovi giuliani e della spoliazione di almeno un convento. Gli allievi delle scuole sarebbero stati dirottati sulle scuole slovene e croate in base al cognome, fino al 1952 oltre un centinaio di maestri e professori sarebbe stato costretto ad abbandonare la zona B. All'improvvisa risoluzione della questione di Trst nel 1953 le comunità non slave della zona B sarebbero arrivate indebolite e destrutturate.
Pupo scrive di come nella zona A a Trst si fosse affermata una galassia indipendentista cementata dalle condizioni di privilegio in cui la città avrebbe vissuto sotto l'amministrazione alleata, che non badava a spese per mantenere la pace sociale. L'esecutivo di Roma nell'estate 1953 avrebbe preso molto seriamente la possibilità di una annessione jugoslava della zona B, e si sarebbe preparato a reagire militarmente occupando la zona A con o senza il consenso alleato. La documentazione disponibile su questo "Piano Delta" farebbe pensare a un'azione di forza pianificata e determinata, volta a prendere possesso della zona A in modo fulmineo per prevenire resistenze alleate e arginare un'eventuale iniziativa jugoslava intesa a progredire oltre la zona B. Secondo l'A., il piano non venne attuato dato il venire meno del fattore sorpresa dovuto alle bellicose dichiarazioni del capo dell'esecutivo, le alte probabilità di insuccesso e la conferma che Beograd non intendeva procedere ad annessioni. Roma avrebbe cerato al tempo stesso di ottenere con mezzi diplomatici il trasferimento dell'amministrazione della zona A, assecondata in questo dagli alleati ansiosi di chiudere una vertenza ormai incompatibile con i loro obiettivi in Europa. Che prevedevano l'integrazione della Jugoslavia nel sistema difensivo occidentale. Il Dipartimento di Stato USA avrebbe così adottato una strategia per cedere la zona A a Roma rassicurando Tito su una annessione de facto della zona B, cui Tito si oppose: alle violente manifestazioni a Zagreb sarebbe seguita una campagna di intimidazioni nella zona B, in cui la popolazione non slava fu oggetto di perentori inviti alla partenza. Pupo riporta testimonianze per cui pare che attivisti e potere costituito operassero di concerto in modo che il potere ne uscisse pulito non potendo "opporsi alla volontà del popolo". A Trst nel novembre 1953 la repressione alleata avrebbe invece fatto vari morti, fra manifestanti ritenuti quinta colonna di una imminente invasione da Roma. Alle circa tremila partenze dalla zona B avrebbe contribuito anche un generale immiserimento, dovuto anche al completo riorientamento della zona verso la Jugoslavia. Solo un anno dopo sarebbe stata raggiunta un'intesa tra le parti, dopo trattative in cui Beograd fu protagonista ottenendo dagli alleati rettifiche del confine, garanzie per la popolazione slovena nella penisola italiana e finanziamenti per il rilancio economico della zona B, segnatamente del porto di Koper. Condizioni presentate a Roma come non modificabili.
Pupo esamina nel settimo capitolo i nodi interpretativi dell'esodo, terminato come fenomeno macroscopico nel 1956 con le ultime proroghe dei diritti di opzione, e mette in guardia contro la cifra dei trecentocinquantamila esuli indicata dalle organizzazioni dei profughi. L'A. sottolinea come un vero censimento dei profughi giunti nella penisola italiana non sia mai stato effettuato e come il loro numero possa quindi essere solo oggetto di stime. Una Opera per l'Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati avrebbe pubblicato nel 1958 dati su duecentounomila profughi accertati: la stima generale sarebbe potuta essere di duecentocinquantamila, cifra che l'A. considera plausibile anche col ricorso all'incrocio di dati con altre fonti. A prescindere dalle cifre, ripete Pupo, a essere travolto dal fenomeno sarebbe stato un gruppo nazionale intero, al completo delle sue articolazioni sociali. L'A. sottolinea anche l'unitarietà di un fenomeno svoltosi in più ondate nell'arco di dieci anni in seguito a pressioni ambientali protratte nel tempo, non a provvedimenti formali emanati dalle autorità. L'esistenza o meno di un disegno preventivo sulla questione da parte dello stato jugoslavo sarebbe secondo Pupo oggetto di tre approcci storiografici, uno negazionista, uno intenzionalista e uno funzionalista. La storiografia slovena e croata si limiterebbe a evidenziare la "normalità" di partenze ridotte al libero esercizio di un diritto di scelta garantito e presentate nel contesto di un flusso migratorio essenzialmente economico, incentivato dalla propaganda antislava e anticomunista. Una visione che l'A. stima non reggere al vaglio delle fonti, che in numero enorme concordano sulle motivazioni politiche. Lo stato che occupa la penisola italiana inoltre avrebbe avuto interesse a trattenere la popolazione per non vanificare rivendicazioni territoriali, non a incentivarne la partenza. Dal ventunesimo secolo l'orientamento negazionista sarebbe stato abbandonato in favore di approcci più sensibili. L'interpretazione intenzionalista sostiene l'esistenza di un disegno di lungo periodo, di cui la Jugoslavia sarebbe stata ultimo e cosciente strumento. Foibe ed esodo sarebbero in questo senso tappe successive di uno stesso percorso di eliminazione dei non slavi dalla regione. A sostegno, la miriade di fonti sul comportamento del potere jugoslavo e sui sistemi indubbiamente persuasivi che esso pose in atto per sollecitare le partenze, oltre a dichiarazioni di protagonisti dell'epoca come Milovan Djilas. A disconferma, il flusso di lavoratori comunisti del 1947 e i tentativi di frenare l'esodo successivi al 1954. "Certezza morale e memoria offesa", ricorda Pupo, non sono sufficienti a validare ipotesi interpretative in sede storica, e all'epoca di redazione del libro studi in questo senso erano comunque ancora agli inizi. L'approccio funzionalista affermatosi negli ultimi anni prenderebbe le mosse invece dalla politica di "fratellanza" che era la linea ufficiale della dirigenza comunista slovena e croata e cui si sarebbero ispirati direttamente i poteri popolari nei primi tempi del dopoguerra. La politica della fratellanza avrebbe designato come interlocutore una parte fortemente minoritaria, riconoscendo a essa soltanto la legittimità della permanenza. Una integrazione selettiva che puntava a eliminare gli indesiderabili per poi trasformare e assorbire quanti sarebbero rimasti già intrapresa dal fascismo. Il fascismo avrebbe voluto distruggere la élite slava in modo da eliminare ostacoli all'assimilazione; la prima parte dell'operazione sarebbe riuscita, la seconda no. Al contrario, la Jugoslavia avrebbe volut enucleare una minoranza -la classe operaia comunista- e integrarla a scapito di tutti gli altri strati urbani, nemico storico e di classe da derubricare a "residui del fascismo". Pupo riferisce come più semplice l'esame delle motivazioni degli esuli, concordi sul ruolo svolto da una paura alimentata dai reiterati richiami agli esempi "pedagogici" del 1943 e del 1945; l'espressione ricorrente "bastava poco" sottolineerebbe nelle testimonianze l'incertezza del confine fra i comportamenti ammessi e quelli che facevano scattare il meccanismo delle intimidazioni da parte di un potere che ambiva a estendere il proprio controllo a tutti gli aspetti della vita quotidiana. Il senso diffuso di timore spesso indicato come unica causa delle partenze si sarebbe accompagnato anche a fenomeni meno evidenti e meno ricordati ma non meno importanti: l'impoverimento, la scrematura politica, il sovvertimento delle gerarchie nazionali e sociali, il ribaltamento dei rapporti di potere fra città e campagna, la messa in discussione di valori cardine della società. Tutte cose che sarebbero apparse frutto di una "volontà insensata e malevola" che per il futuro scopriva prospettive ancora peggiori. L'A. ne conclude che l'esodo sarebbe in parte interpretabile come espressione estrema di un rifiuto collettivo del processo di modernizzazione accelerata e violenta condotto dal potere statale comunista, almeno nelle campagne o nei paesi. Meglio servirebbe la categoria dello "spaesamento" in cui si trovarono a vivere i non slavi che, al netto della repressione, si sarebbero comunque trovati a vivere in una terra che non sembrava più la loro. Pupo cita comunque uno scritto del giurista austrotedesco Theodor Veiter per cui chi in condizioni analoghe si troverebbe "esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la scelta dell’emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio paese".
Il penultimo capitolo tratta dei problemi dell'insediamento. L'A. ricorda l'istituzione di un ministero per l'assistenza postbellica nel 1946, affidato al comunista Sereni. Il PCI avrebbe considerato per qualche mese i profughi dalla Jugoslavia come elementi nazionalisti, se non puramente fascisti, pronti a fare da massa di manovra per la reazione; un atteggiamento alla base di plateali atti di ostilità continuamente rinvigoriti dalla pubblicistica della diaspora. Un atteggiamento corretto fin dall'inizio del 1947 nell'imminenza dell'esodo da Pula, quando ormai da mesi la stampa di partito aveva contribuito a consolidare l'immagine dell'esule fascista. I quasi trentamila esuli da Pula, quelli giuliani in generale e con loro quelli dalle ex colonie e dagli altri territori ceduti sarebbero stati smistati in circa centoventi campi ricavati dalle strutture più varie, destinati a funzionare per quasi vent'anni e dal forte impatto sugli esuli per le loro condizioni di miseria, privazione, carenze igieniche e totale mancanza di intimità nella convivenza. Condizioni più da reclusi che da assistiti. Gli episodi di intolleranza in nome di pregiudiziali politiche sarebbero stati clamorosi ma limitati, presto superati da una logica della solidarietà che soprattutto gli esuli più giovani avrebbero interiorizzato, insieme ai legami di una vita comunitaria che fece maturare una identità comune capace di superare le precedenti appartenenze e rivalità di campanile. Dal 1948 una ben finanziata "Opera per l'assistenza ai profughi giuliani e dalmati" avrebbe curato l'inserimento abitativo degli esuli costruendo oltre settemila alloggi in trentanove province, e lo sviluppo dell'economia avrebbe agevolato una veloce integrazione. Pupo nota che non si crearono sacche di emarginazione, e che questo favorì la rimozione dell'accaduto dalla memoria collettiva. Sarebbero stati gli esuli, al di là delle fortune personali, a restare convinti che la loro tragedia non fosse stata sufficientemente avvertita dal resto della loro comunità nazionale. A Trst le autorità alleate si sarebbero opposte dopo il settembre 1947 all'arrivo di grandi numeri di profughi per non peggiorare una situazione già esplosiva, salvo cambiare atteggiamento nel 1950 a fronte degli avvenimenti nella zona B e approntare con l'aiuto di Roma il necessario per accogliere un flusso di migliaia di persone. Secondo Pupo una serie di nuovi insediamenti sarebbe stata progettata per creare una "linea etnica continua" fra Trst e la pianura friulana, oltre che per fare da contrappeso alle zone a forte presenza operaia e comunista. Questo rafforzamento avrebbe fatto il gioco della diplomazia jugoslava: Trst a Roma, ma in cambio della zona B. Scegliere di concentrare gli esuli in località ben definite sarebbe servito anche a limitare il rapido diluirsi della loro identità; una politica che il CLN locale indicò a Roma e che portò a interventi rapidi ed efficaci da parte di uno stato che in tante altre occasioni non avrebbe certo brillato "per solerzia né per trasparenza". Pupo riporta qualche testimonianza a riprova di sradicamenti traumatici, ma riferisce anche che l'inserimento dei profughi non avrebbe costituito un elemento di rottura per la realtà della zona A, e che dagli anni Sessanta l'ascesa del consumismo lo avrebbe ulteriormente facilitato. Nella politica di Trst gli esuli avrebbero costituito la base di massa per i gruppi dirigenti democratico-cristiani da anni già all'opera nella realtà locale, mentre avrebbero contribuito assai meno alle formazioni nazionaliste più esasperate rette invece da personale politico originario di comuni non giuliani se non delle ex colonie.
In ultimo, Pupo tratta della questione degli emigrati in Australia dopo il 1954. Sulla popolazione di Trst il mondo anglosassone conosciuto durante gli anni dell'amministrazione alleata avrebbe esercitato un forte fascino, al punto da attirare circa ventimila persone desiderose di sottrarsi ai problemi di una città gremita e dall'economia problematica. Secondo l'A. fra gli emigrati sarebbero stati molti gli autonomisti delusi dalla nuova amministrazione, gli indipendentisti delusi invece dalla mancata concretizzazione del Territorio Libero e una certa parte del personale a servizio dell'amministrazione alleata. Oltre la metà dei partenti avrebbe avuto un lavoro; secondo l'A. tra i motivi dell'emigrazione il pessimismo per il futuro avrebbe affiancato come importanza il disagio economico, specie in quanti avevano additato lo stato che occupa la penisola italiana come un modello deteriore da cui rifuggire. In virtù di una legge molto permissiva in materia di emigrazione l'Australia sarebbe stata la meta favorita, anche se gli aneddoti riportati dall'A. non la descrivono certo una realtà facile, abbondando nella descrizione di condizioni lavorative sfibranti e di contesti urbani totalmente diversi rispetto a quelli di provenienza. La stessa aneddotica avrebbe comunque testimoniato anche un rapido miglioramento della situazione e una buona integrazione degli emigrati nella società australiana. Nel territorio di origine la manodopera qualificata sarebbe stata sostituita da lavoratori generici arrivati a Trst per motivi politico-nazionali, cosa che avrebbe contribuito a una dequalificazione produttiva che avrebbe a sua volta rafforzato il ruolo del terziario. Secondo l'A. l'integrazione degli esuli dall'Istra avrebbe portato a compimento la parabola storica della Trst novecentesca, da grande città mitteleuropea a bastione ultimo di una identità minacciata, nel contesto del processo di semplificazione nazionale che "per un secolo ha spazzato buona parte del vecchio continente".
Nella conclusione, Pupo riprende la narrazione degli eventi dalla metà degli anni Cinquanta in poi. Il confine della "linea Morgan" avrebbe resistito all'epilogo della guerra fredda e alla dissoluzione della Jugoslavia, e avrebbe separato due minoranze diventate esigue. Quella slovena nella penisola italiana avrebbe potuto contare sui vantaggi offerti da un sistema democratico, sviluppandosi in modo vitale nonostante la lunga ostilità di una maggioranza che la avrebbe percepita come quinta colonna della Jugoslavia. Quella non slava rimasta in nuclei sparsi tra Istra e Rijeka avrebbe rappresentato per anni una realtà marginale cui la Jugoslavia concedeva riconoscimenti formali come gruppo, ma alcun diritto ai singoli componenti. Pupo riassume infine le vicende conseguenti la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti non sempre facili delle nuove repubbliche con Roma, l'imposizione di nuovi confini in aggiunta a quello esistente e l'ascesa in Istra di un regionalismo in cui tutte le componenti di una popolazione profondamente cambiata a causa dei flussi migratori del secondo dopoguerra possono trovare una qualche agibilità politica.


Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio. Milano, Rizzoli 2006. 336 pp.