L'espressione La prigione più grande del mondo indica i territori occupati dallo stato sionista, di cui Ilan Pappé presenta la storia militare e politica.
La prefazione è incentrata sulla collina di descrive per sommi capi la situazione urbanistica di Givat Ram -un quartiere di Gerusalemme ricco di sedi istituzionali e universitarie edificato dopo il 1948 su terreni confiscati al villaggio palestinese di Sheikh al Badr- e ricorda come nel 1963 si sarebbe tenuto proprio in una sede universitaria un corso di preparazione destinato a personale militare da adibire al controllo della Cisgiordania come zona militare occupata. Ilan Pappé nota che quattro anni prima dell'effettiva occupazione lo stato sionista -nell'immediato timore di un crollo dell'assetto hashemita che avrebbe reso instabile la Giordania- avrebbe già iniziato a prepararsi a sovrintendere alla vita di un milione di palestinesi tramite le necessarie infrastrutture giudiziarie e amministrative. Secondo l'A. la élite militare e politica dello stato sionista era fin dal 1948 in cerca del momento storico opportuno per l'occupazione della Cisgiordania; il piano per la sua amministrazione si sarebbe chiamato "piano Shacham" e avrebbe previsto la divisione della Cisgiordania in otto distretti, sottoposti a un governo militare secondo la legge mandataria britannica, sottoposta agli aggiustamenti terminologici indispensabili, e secondo la vigente normativa giordana epurata dai provvedimenti in contrasto con gli obiettivi dello stato sionista. Un nuovo gruppo di allievi avrebbe seguito nel 1964 un analogo corso nella stessa località, e avrebbe imparato a reprimere gli "elementi ostili" e a comportarsi in modo da incoraggiare l'emergere di una leadership locale collaborazionista. Nei tre anni successivi lo stato sionista avrebbe approntato una squadra pronta a gestire una occupazione militare, e nel 1967 l'occupazione della Cisgiordania ebbe effettivamente luogo. L'A. scrive che al piano Shacham sarebbe stato a quel punto aggiunto un piano Granit, sua traduzione operativa. Ogni potenziale governatore militare e ogni consigliere avrebbe ricevuto nel maggio 1967 una serie di testi normativi; alcuni erano quelli in uso nella Germania occupata, ma vi figurava anche un testo di Gerhard von Glahn in cui si stabiliva che l'occupazione non cambia lo status de jure di un'area e che gli occupanti possono solo usare i beni presenti ma non entrarne in possesso. In pratica, anche per evitare fastidiose eccezioni da parte degli estimatori di von Glahn, l'occupazione sarebbe consistita nell'estensione alla Cisgiordania dell'autorità militare già imposta ai palestinesi entro lo stato sionista, attuata secondo i regolamenti di emergenza mandatari emessi a suo tempo dagli inglesi; norme che all'epoca della loro introduzione i sionisti avevano cosiderato degne di un paese nazionalsocialista. Un governatore militare avrebbe avuto controllo illimitato su ogni aspetto della vita degli individui e avrebbe potuto decretare espulsioni, convocare chiunque in una stazione di polizia, dichiarare "aree militari chiuse" le località oggetto di manifestazioni o pubbliche riunioni e praticare arresti amministrativi, ovvero detenzioni a tempo indeterminato senza motivazioni né processo. I tribunali chiamati ad applicare i regolamenti di emergenza mandatari sarebbero stati formati da militari non necessariamente in possesso di una formazione giuridica.
Pappé scrive che secondo l'opinione prevalente i provvedimenti che dal 1967 avrebbero condannato gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania all'ergastolo in una mega prigione vennero promulgati da un governo che era epressione del più ampio consenso sionista immaginabile. La legislazione di allora sarebbe rimasta pressoché immutata, nessun esecutivo sionista avrebbe mai deviato o voluto deviare da questa rotta. L'euforia dovuta alla vittoria contro tre eserciti arabi avrebbe circondato i responsabili politici dello stato sionista di "un'aura quasi messianica", incoraggiandoli ad adottare risoluzioni spregiudicate che i loro successori avrebbero trovato difficile contestare o modificare. Nel saggio l'A. cerca invece di dimostrare che l'ideologia e la storia sionista non avrebbero potuto portare che a questo risultato, perché a Givat Ram e alla Knesset sarebbe semplicemente stata data una traduzione operazionale a misura delle circostanze di principi che postulavano lo stato sionista come esclusivo, la cui linea politica poteva essere rimessa in discussione solo mettendo in discussione la validità stessa del sionismo. L'A. nota che secondo il sionismo la sopravvivenza dello stato sionista come tale dipendeva dalla sua capacità di controllare la maggior parte della Palestina storica riducendo al tempo stesso il numero di palestinesi che vi risiedevano, in modo da costruire e mantenere il carattere etnicamente ebraico dello stato. Nelle circostanze del 1948 sarebbero coincisi il ritiro britannico, l'impatto dello sterminio degli ebrei d'Europa sull'opinione pubblica occidentale, lo scompiglio nel mondo arabo e palestinese e "la cristallizzazione di una leadership sionista particolarmente determinata": risultato, l'espulsione di metà dei nativi dal paese, la distruzione di metà dei villaggi e delle città, il controllo sionista sull'80% della Palestina mandataria nell'indifferenza di istituzioni occidentali propense a considerare l'accaduto come l'inevitabile atto finale della seconda guerra mondiale, nonostante la colonizzazione sionista in Palestina fosse già in atto da più di cinquant'anni. Nel 1967 secondo Pappé l'esecutivo sionista sarebbe stato determinato a decidere unilateralmente sul futuro dei territori, ma molto meno coeso circa la possibilità e l'opportunità di una pulizia etnica su vasta scala, che in effetti non fu attuata. Ne avrebbe preso il posto una politica di espulsioni graduali e di espropri incrementali, portata avanti nella sostanziale indifferenza occidentale: i territori occupati non avrebbero potuto essere annessi altro che de facto, stante il diritto internazionale. E la popolazione palestinese, se non poteva essere espulsa, poteva senz'altro non essere integrata a pieno diritto, in modo da non mettere in discussione il carattere ebraico dello stato. Pappé sostiene che l'esecutivo del 1967 fosse convinto di aver trovato il modo per mantenere i territori desiderati senza annetterne la popolazione e per rimanere al tempo stesso esente da critiche da parte del resto del mondo. Una situazione che avrebbe avuto un precedente nel 1948, quando la stessa generazione di politici dovette decidere come trattare la popolazione palestinese all'interno dello stato sionista. Secondo Pappé lo stato sionista avrebbe deciso di isolare i palestinesi in un gigantesco carcere imposto a una società nella sua interezza, realizzato secondo due modelli. Il primo era quello di un panopticon a cielo aperto che avrebbe consentito una vita semiautonoma sotto controllo sionista, diretto o indiretto. Il secondo, riservato a chi rifiutava il primo, era quello di un carcere di massima sicurezza che avrebbe privato i palestinesi di ogni libertà sottoponendoli a una dura politica di punizioni e di restrizioni, fino all'esecuzione capitale. Pappé sostiene che negli anni fra il 1967 e il 1987 e fra il 1993 e il 2000 avrebbe prevalso la prima forma, negli anni fra il 1987 e il 1993 e dal 2000 al 2009 (ma a Gaza ancora oggi) la seconda. Il panopticon sarebbe diventato addirittura il piano di pace proposto dallo stato sionista e approvato da USA e paesi europei; Pappé sottolinea come in tutto l'Occidente si siano rese necessarie una "ampia epurazione del linguaggio e un'intensa collaborazione da parte del mondo mediatico e accademico al fine di preservare la validità morale e politica dell’ipotesi secondo cui la prigione a cielo aperto rappresenterebbe la miglior soluzione possibile del 'conflitto', presentandola come la prospettiva idealizzata di una vita sana e normale nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza".
Dal 15 giugno 1967 un comitato di direttori generali ministeriali sovrintenderebbe a una enorme quantità di personale che rappresenta "il volto umano di un monumento alla disumanità", e che costituisce l'apparato burocratico che controlla i territori occupati. Pappé considera i cattivi del suo libro e "servi della burocrazia del male" "coloro che hanno elaborato i dettagli per avviare il sistema, coloro che lo hanno sostenuto in tutti questi anni e quanti ne hanno 'perfezionato' il funzionamento". Si può anche entrare nel sistema del tutto innocenti, ma non soccombere alla sua ragion d'essere e al suo modus operandi sarebbe privilegio di pochi.
Rileggere il racconto dell'occupazione costituisce l'introduzione vera e propria del lavoro. Pappé ricorda che in pochi giorni nel giugno 1967 l'esecutivo sionista avrebbe deciso di escludere i territori occupati da ogni futuro negoziato di pace, cercando anzi l'avallo internazionale per ogni decisione unilaterale a riguardo. L'A. nota che l'occupazione sionista non ha carattere di temporaneità, e che da decenni gli occupanti vi esercitano un controllo assoluto; negli ultimi anni l'ambiente accademico ha cominciato a considerarne i caratteri di impresa coloniale, e specificamente di colonialismo di sostituzione. La traduzione operazionale del sionismo sarebbe per Pappé un mega-carcere immune dal controllo internazionale, che costituisce un mondo a sé stante e da cui gli occupanti ammettono che i prigionieri si allontanino solo per non farvi più ritorno, e andare a ingrossare la schiera degli esuli. Considerati in quest'ottica il dibattito interno allo stato sionista circa i territori appare come "un racconto fatto di finzioni e illusioni", con tratti dall'insignificante al disonesto. Da questa valutazione consegue che il processo di pace -sviluppatosi attorno a un simile dibattito- era destinato a fallire fin dal primo abbozzo.
Nel primo capitolo su la guerra delle scelte Pappé torna al 10 marzo 1948, giorno in cui i leader della comunità ebraica in Palestina avrebbero deciso con il piano Dalet di occupare il 78% del paese espellendone la popolazione palestinese. IL momento sarebbe stato propizio vista la decisione britannica di abbandonare la Palestina e il prevalere di posizioni filosioniste all'ONU, che dopo aver respinto la proposta palestinese di un processo democratico per la determinazione del futuro del paese avrebbe approvato la soluzione sionista per la divisione del territorio in due stati. Se la Cisgiordania non venne occupata, sostiene l'A., fu perché il regno di Giordania limitò il proprio intervento nella guerra del 1948 allo stretto necessario a salvare le apparenze. Rivelato a conflitto concluso, l'accordo con la Giordania sarebbe stato deplorato dai militari e il tema della "occasione mancata" sarebbe stato rilevante nella successiva guerra del 1967 e fino ad allora avrebbe fatto da pretesto per una lunga serie di provocazioni da parte sionista. A differenza di Gaza, un territorio ridotto e in posizione defilata, la Cisgiordania sarebbe sempre stata obiettivo dell'espansionismo sionista, anche perché un eventuale esercito arabo che vi si fosse concentrato avrebbe potuto dividere facilmente in due il territorio dello stato sionista propriamente detto; sotto Ben Gurion l'esecutivo sionista avrebbe più volte valutato sull'opportunità di annettere la Cisgiordania, venendone ogni volta dissuaso ora dalla prospettiva di una forte reazione britannica, ora -specie nel 1956 con la crisi di Suez- da da quella di una reazione statunitense. I vertici dello stato sionista sarebbero stati comunque animati da una aperta tensione bellicista, al punto che nel 1958 -con la fondazione della Repubblica Araba Unita- Ben Gurion avrebbe cercato l'appoggio francese contro la Siria, ottenendo dalla Francia fondi e tecnologia nucleare. Il mantenimento di una alleanza de facto con la Giordania sarebbe stato valutato positivamente dagli ambienti militari, sempre che le istituzioni del regno si mantenessero salde e il paese non corresse rischi di radicalizzazione. Lo stesso Ben Gurion si sarebbe reso conto delle implicazioni demografiche di una annessione che non prevedesse la (irrealizzabile) cacciata in blocco dei palestinesi, e nel 1968 avrebbe coerentemente raccomandato la ritirata da quasi tutta la Cisgiordania occupata per mantenere "le conquiste demografiche del 1948" ovvero uno stato sionista etnicamente ebraico. Pappé nota che l'idea di una "grande Israele" sarebbe comunque stata già ampiamente diffusa all'epoca tra la popolazione dello stato sionista, e che la realpolitik con il regno hashemita di Giordania avrebbe avuto in ogni caso detrattori capaci di caldeggiare la creazione di casus belli contro la Repubblica Araba Unita e di elaborare veri e propri piani per procedere all'occupazione della Cisgiordania, destinati a tradursi in realtà nel 1967 dopo anni di scontri di confine con la Siria per il controllo del Giordano. Il riavvicinamento all'amministrazione USA sarebbe stato determinante: le sortite con cui nel giugno 1967 sarebbe stata distrutta a terra l'aeronautica dei paesi arabi confinanti sarebbero state rese letali dai nuovi armamenti statunitensi, ma fin dal 1966 le incursioni di Fatah avrebbero avuto come risposta rappresaglie in Cisgiordania già connotate dal carattere di punizione collettiva che sarebbe diventato la regola a partire dall'anno successivo. L'A. insiste sul fatto che alla "Guerra dei Sei Giorni" lo stato sionista sarebbe arrivato con una macchina amministrativa, legale e militare già pronta per le occupazioni. Pappé sottolinea come le continue provocazioni sioniste -confermate anni dopo come tali da Moshe Dayan- avrebbero indotto la Siria, su consiglio sovietico, a unire le proprie forze prima con l'Egitto e poi con Iraq e Giordania nella speranza di scoraggiare un massiccio attacco sionista. Nei primi sei mesi del 1967 lo stato sionista avrebbe azzardato provocazioni ancor più gravi e deliberate allo scopo di "umiliare il regime siriano"; l'Egitto avrebbe risposto in modo eclatante imponendo un blocco al porto di Eilat, ma (come sostenne già all'epoca Yitzhak Rabin) senza muovere truppe nel Sinai. Alla luce di documenti divulgati a oltre cinquant'anni dai fatti Pappé non ritiene che lo stato sionista abbia combattuto una guerra preventiva perché minacciato da un attacco panarabo; l'Egitto avrebbe reagito all'aggressività sionista -che poteva essere senz'altro interpretata come diretta a un imminente attacco alla Siria- mentre i militari sionisti erano da tempo pronti a una guerra di aggressione; nel maggio del 1967 il ministro dell'informazione (ovvero della propaganda) Israel Galili avrebbe scientemente fornito all'opinione pubblica un quadro apocalittico senza riscontri in una realtà in cui neppure gli USA ravvisavano minacce gravi da parte dei paesi arabi. Secondo l'A. il primo ministro sionista Levi Eshkol si sarebbe quindi espresso con una cautela che lo avrebbe fatto considerare pericoloso per la sicurezza dello stato, mentre attivamente favorevoli alla guerra sarebbero stati, oltre agli alti gradi delle forze armate, Rabin e Moshe Dayan per motivi di prestigio e di deterrenza, e i ministri Yigal Alon e Moshe Carmel per motivi di espansione territoriale. Il capo dei servizi militari Yariv si sarebbe quindi assicurato della benevolenza statunitense, dell'attivismo degli ebrei statunitensi e dell'efficacia dell'azione lobbistica della AIPAC in un paese che considerava ormai lo stato sionista un alleato nella guerra fredda.
Pappé sostiene che l'esercito giordano, trascinato in guerra dall'attacco sionista all'Egitto e rimasto privo di aviazione dopo poche ore, non avrebbe avuto né il modo né il tempo di attuare piani diversi da un bombardamento di Gerusalemme Ovest. L'esercito sionista avrebbe occupato tutta la Cisgiordania in due giorni. A insistere per l'occupazione di Gaza sarebbe stato invece i generali Israel Tal e Rehavam Ze'evi, futuro fondatore del partito Moledet e punto di riferimento di coloni fra i più violenti. La "politica della megaprigione" avrebbe fatto anche in questo caso superare ogni cautela a un Dayan preoccupato per l'enorme numero di rifugiati che viveva a Gaza dal 1948. Secondo l'A. nel 1967 non esistevano minacce per l'esistenza dello stato sionista, né il comportamento dell'Egitto sarebbe stato diverso per portata o per iniziative rispetto ai precedenti storici; l'aggressività sionista non sarebbe stata dettata da nulla di diverso della deliberata intenzione di continuare la pulizia etnica del 1948.
La progettazione della megaprigione argomento del secondo capitolo sarebbe stata tradotta operativamente a cominciare dall'11 giugno 1967, quando Levi Eshkol dichiarò Gerusalemme capitale eterna dello stato sionista e poi che Gaza e Cisgiordania sarebbero rimaste sotto controllo sionista; l'A. ricorda la politica adottata nei confronti della popolazione palestinese, fin da allora denominata bastone e carota dai suoi stessi ideatori: sottomissione assoluta, ricompensata accordando ai palestinesi la gestione della propria stessa prigione, o carcere di massima sicurezza al minimo cenno di insubordinazione. L'esecutivo sionista avrebbe deciso fin dal 19 giugno 1967 di escludere Gaza e Cisgiordania da futuri negoziati e di ricorrere a un doppio linguaggio: un "discorso di pace" ad uso interno e internazionale, e uno di annessione e controllo destinato alla burocrazia dell'occupazione. Il problema sarebbe diventato quindi il modo di incorporare una popolazione palestinese che non poteva essere espulsa in massa, stante anche l'indisponibilità della Giordania interpellata a riguardo. L'esecutivo avrebbe esitato fra il reinsediamento coatto e l'incoraggiamento all'emigrazione; nel corso dell'estate avrebbe deciso di dividere la Cisgiordania in un'area "ebraica" praticamente annessa e in una "palestinese" la cui annessione sarebbe stata sconsigliata dalla demografia. Da allora la valle del Giordano, la Grande Gerusalemme, Hebron e Gush Etzion sarebbero diventate zone di insediamento ebraico: Gerusalemme, esclusa a priori da ogni trattativa e divisa in tre anelli concentrici, sarebbe stata oggetto di speciali attenzioni a cominciare dalla città vecchia. Sui metodi con cui sarebbe stato raggiunto lo scopo Pappé riferisce una eloquente considerazione di Haim Moshe Shapira, all'epoca già un veterano di operazioni di questo tipo: "Io ho annesso Yafo a Tel Aviv senza bisogno di alcuna legge". Allo stesso periodo risale l'inizio di una politica di totale condiscendenza da parte degli USA nei confronti dell'espansionismo sionista; l'affondamento della USS Liberty avvenuto l'8 giugno non sarebbe stato sufficiente a inficiare il lungo ed efficace lavoro dell'AIPAC. Pappé nota che l'esecutivo si sarebbe mostrato seriamente impegnato nelle trattative con Egitto e Siria mettendo in secondo piano la questione dei territori occupati, e che si sarebbe allora affermata una prassi destinata a diventare normale, per cui lo stato sionista procede a un'annessione o alla fondazione di una colonia, gli USA chiedono fermamente di non procedere, lo stato sionista promette che non procederà, e l'annessione o la fondazione della colonia vanno avanti come se niente fosse. Per lo più nel silenzio di mass media condiscendenti e se del caso non informati, grazie all'opportuno ricorso a "riunioni riservate" col pretesto della sicurezza nazionale. Moshe Dayan così avrebbe riassunto i principi della linea politica sionista: "Per me la questione importante è la nostra decisione interna, non quello che trasmetteremo all’esterno [...] dobbiamo operare sulla base di principi: il Giordano è il confine, 1.250.000 individui in Cisgiordania non diventeranno cittadini [...] dovrebbero essere amministrati da un governo militare fino a nuova decisione. [...] Finché il Giordano sarà il nostro confine, non sarebbe neppure una cattiva scelta gestire le loro vite attraverso un governo militare". Avvalendosi di altre dichiarazioni dell'epoca, l'A. sostiene che la politica sionista nel corso dei decenni successivi sarebbe stata sostanzialmente quella di "far sparire il problema" -specie in sede di negoziato internazionale- facendo continuamente ricorso a ingegnosi "occultamenti linguistici". Nel caso della Cisgiordania agli USA sarebbe stata fatta accettare l'idea che la fine dell'occupazione sarebbe stata possibile dopo un accordo di pace che sarebbe stato rinviato sine die da un esecutivo spesso mosso da un evidente atteggiamento di superiorità nei confronti del resto del mondo e delle altre diplomazie. La linea politica sionista avrebbe trovato tanti estimatori nella élite politica occidentale quanti detrattori nella società civile più coscienziosa.
Sui territori occupati l'opinione pubblica interna si sarebbe divisa tra una destra di "redentori" pro annessione e una sinistra di "custodi" in fiduciosa (e fallace) attesa di un trattato di pace, più una minoranza antisionista "ai margini estremi della società". In particolare Pappé scrive di non aer rintracciato dati a favore di una qualche pressione per un ritiro o per l'avvio di negoziati di pace significativi "...con gli Stati arabi, figuriamoci poi con i palestinesi". Tra le reazioni palestinesi all'occupazione sionista Pappé ricorda la sumud, la fermezza nel restare ad ogni costo in una terra che lo stato sionista ha voluto e immaginato libera da ogni palestinese, e l'atteggiamento di Sari Nusseibeh della Università Al Quds che a fronte della indisponibilità dello stato sionista a consentire lo sviluppo di una Palestina indipendente ritiene che dovrebbero essere i palestinesi stessi a chiedere la completa annessione, pretendendo al tempo stesso pieni diritti civili. L'A. nota che la popolazione ebraica non si sarebbe gran che curata di chi viveva nei territori occupati, presa da un'euforia da vittoria che sarebbe durata almeno fino alla guerra del Kippur di sei anni dopo.
In modo pragmatico, il 16 giugno 1967 Chaim Herzog sarebbe diventato "governatore militare di Gerusalemme Est, Giudea e Samaria"; la macchina amministrativa dell'occupazione, già pronta da anni, avrebbe iniziato a funzionare prima a Gerusalemme e poi nel resto dei territorio occupati. Nel terzo capitolo sulla Gerusalemme come progetto pilota Pappé inizia l'esame della traduzione operativa dei progetti sionisti. Molti anni prima di iniziare a giustificare la colonizzazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come risposta necessaria per la sicurezza o come atto unilaterale a fronte di una lunga impasse diplomatica, lo stato sionista avrebbe operato in modo da rendere implausibile qualsiasi ipotesi di una Cisgiordania palestinese. Cisgiordania e Gaza sarebbero state divise inserendo cunei di colonie, mentre una serie incessante di ordinanze avrebbe provveduto a espropriazioni di terre e a impedire la crescita e l'espansione degli insediamenti palestinesi. Secondo Pappé a Gerusalemme sarebbe stata avviata una pulizia etnica fondata sull'esproprio, presentata come pianificazione urbanistica. I "quartieri", ovvero gli insediamenti a Gerusalemme Est, sarebbero stati costruiti dopo la confisca di ampie estensioni di terreno attuata con la riattivazione di una legge mandataria del 1943 e già usata per iniziative analoghe nello stato sionista del 1948. Oltre al furto sistematico dei terreni, l'esecutivo sionista avrebbe fatto ricorso alla designazione di aree come spazi verdi e al divieto di costruire imposto ai soli palestinesi molti anni prima di iniziare a giustificare queste misure come ritorsioni per atti commessi da combattenti irregolari. Nei cinquant'anni successivi la Grande Gerusalemme avrebbe praticamente tagliato in due la Cisgiordania e i suoi insediamenti satellite -descritti uno a uno da Pappé- avrebbero fatto da ponti di terra verso le altre colonie rompendo la continuità territoriale degli abitati palestinesi. Il processo di "ebraicizzazione" cittadino sarebbe stato rinforzato trasferendo a Gerusalemme le sedi di diverse istituzioni. I quartieri palestinesi incorporati dopo il 1967 nella Grande Gerusalemme sono oggi accerchiati su tutti i lati da colonie ebraiche. Alcuni episodi dello scempio hanno aspetti ironici: un antico cimitero musulmano a Mamilla sarebbe stato smantellato nottetempo, e sostituito dal... Museo della Tolleranza della fondazione Wiesenthal. Pappé scrive che con gli espropri e con l'edificazione delle colonie -considerate escluse a priori da qualsiasi negoziato- lo stato sionista avrebbe sistematicamente violato lo statuto dell'ONU e la quarta convenzione di Ginevra, mettendo semplicemente il mondo davanti al fatto compiuto. Col tempo e col pieno sostegno occidentale, lo stato sionista sarebbe finito per controllare e per considerare "non negoziabile" l'85% del territorio palestinese; il rimanente è disseminato nei territori occupati, diviso da blocchi di insediamenti e da basi militari.
La visione di Alon illustra l'operato di Yigal Alon, comandante dell'unità di élite Palmach nel 1948 ed "epitome del nuovo ebreo -quasi ariano- che il sionismo desiderava porre come antitesi dell'ebreo 'esiliato'". Il suo "piano Alon" sarebbe stato ideato inizialmente per le trattative con la Giordania; ad esclusione degli insediamenti, la Cisgiordania sarebbe stata autonoma o sotto sovranità demilitarizzata giordana. In realtà il piano sarebbe servito per la traduzione operativa della colonizzazione, assicurando allo stato sionista lo spazio, ma senza incorporare popolazione palestinese; Ariel Sharon lo avrebbe portato a compimento agli inizi del XXI secolo. Alon avrebbe lasciato un segno fondamentale sulla politica sionista, mostrando come "governare indirettamente le aree palestinesi densamente popolate mentre, in un modo o nell’altro, si procedeva ad annettere tutto il resto del territorio" e caldeggiando il "reinsediamento" dei palestinesi nel Sinai. Fin dall'inizio dell'occupazione le autorità sioniste avrebbero subordinato la fornitura dei servizi ordinari (un dovere imposto all’occupante dal diritto internazionale) al mantenimento di una subordinazione totale; ogni forma di resistenza sarebbe andata incontro a forme di punizione collettiva in cui l'umiliazione sarebbe stata una componente di primo piano. Dalla visione di Alon sarebbero derivate due strategie, una fisica che delimitava le aree da colonizzare, e una amministrativa che stabiliva premi e punizioni per chi accettava o rifiutava il dominio sionista. Il tutto retto da un gruppo di burocrati uniti dal disprezzo verso gli imperativi di base del diritto internazionale. Pappé sottolinea il ruolo di Levi Eshkol, fin dagli anni Trenta protagonista della colonizzazione nella Palestina mandataria.
L'A. ricorda i decreti con cui fu normato l'accaparramento delle terre, rifacendosi a leggi ottomane di un secolo prima, e la prassi dei "cunei ebraici" in cui venivano fondate colonie che sarebbero servite poi a rivendicare buona parte dell'area che le separava dallo stato sionista. Con la fine dei governi laburisti, dopo il 1977, sarebbe diventata ammissibile l'annessione di qualsiasi spazio a prescindere dalla sua popolazione; di qui la virtuale divisione in due della Cisgiordania e l'ulteriore suddivisione in ventidue contee, separate da insediamenti e "strade dell'apartheid". A Gaza il "piano delle cinque dita" di Yitzhak Rabin avrebbe prodotto risultati analoghi.
Pappé ricorda anche che molte aree verdi attorno a Gerusalemme furono realizzate assegnando terreni confiscati secondo la normativa su ricordata al Jewish National Fund, un ente che per statuto non vendeva e non affittava terreni a non ebrei.
Al quadro giuridico dell'occupazione avrebbe immediatamente pensato Yaacov Shimshon Shapira, nel 1967 ministro della giustizia; lo stato sionista avrebbe dichiarato l'occupazione militare dei territori; i vari esecutivi avrebbero portato avanti le politiche di dominio sotto le sembianze della legalità. Alcuni territori sarebbero stati annessi, altri sarebbero diventati "territori amministrati" sul cui stato si sarebbe deciso in un tempo indefinito. L'A. insiste sul fatto che l'idea dell'autonomia per le aree che non sarebbe convenuto annettere, autonomia intesa come "prigione aperta", sarebbe stata formulata fra il 18 e il 19 giugno del 1967 soprattutto da Yigal Alon.
Le ricompense economiche e rappresaglie punitive del quinto capitolo si riferiscono al funzionamento della prigione più grande del mondo come abbozzato fin dai primi giorni dell'occupazione. Pappé scrive che l'intenzione sarebbe stata quella di adottare una sana politica economica per i territori occupati, che avrebbe avvantaggiato lo stato sionista e alla lunga anche una popolazione palestinese. I politici tuttavia, considerando i palestinesi una realtà da irreggimentare come un allevamento di bestiame, avrebbero trattato sin dall'inizio il soddisfacimento dei bisogni economici dei colonizzati come una ricompensa per una buona condotta, adottando viceversa ritorsioni per sanzionare quelli che a loro giudizio erano cattivi comportamenti. L'economia dei territori occupati sarebbe stata gestita dai militari, non da un ministro dell'economia come Pinchas Sapir troppo propenso a denunciare rischi e storture. Il sindacato Histadrut, proprietario di gran parte dell'industria sionista,avrebbe dettato a pochi giorni dall'occupazione le linee guida per la commercializzazione di prodotti dell'industria sionista nei territori. Col tempo avrebbe anche indicato all'industria sionista come usare i lavoratori palestinesi senza fornir loro i diritti fondamentali. Con piena consapevolezza da parte di Moshe Dayan, Ariel Sharon sarebbe invece stato il primo a adottare punizioni collettive al primo emergere della resistenza palestinese a Gaza con demolizioni, arresti in massa, coprifuoco e irruzioni nelle case secondo una prassi adottata dai britannici durante la rivolta araba degli anni Trenta. L'A. ricorda che un palestinese bollato come hashud, "sospetto", sarebbe stato considerato colpevole fino a prova contraria e avrebbe potuto condurre una vita tollerabile solo diventando informatore per i servizi sionisti.
Il sesto capitolo tratta de la pulizia etnica del giugno 1967. Pappé descrive il "ridimensionamento della popolazione" nelle aree da ebraicizzare a cominciare dal quartiere ebraico della città vecchia di Gerusalemme, la cui popolazione araba si sarebbe allontanata volontariamente dalla città il 18 giugno 1967, secondo quanto dichiarato da una stampa che del rispondere alle preoccupazioni altrui con una serqua di palesi bugie ammantate da un linguaggio eufemistico e ambiguo avrebbe fatto una prassi abituale. Solo nel 1971 un rapporto dell'ONU avrebbe fatto chiarezza su una serie di episodi di deportazioni, espulsioni della popolazione, arresti arbitrari e demolizioni di edifici che avrebbero riguardato quasi centoottantamila persone e su cui Moshe Dayan avrebbe per lo meno chiuso entrambi gli occhi, mostrandosi anche infastidito per qualsiasi intromissione. A farne fede, le registrazioni delle riunioni governative consultate da Ilan Pappé. L'alternativa all'espulsione senza ritorno adottata dagli strateghi sionisti avrebbe preso il nome di incistamento. Ai palestinesi, privi di diritti umani e civili fondamentali, sarebbe stato accordato di vivere in comunità racchiuse da territori su cui lo stato sionista avrebbe rivendicato la sovranità. Il discrimine per un'esistenza tollerabile, anche in simili condizioni, sarebbe stato quello della "buona condotta" secondo i criteri dello stato sionista, come in qualsiasi carcere contemporaneo.
Il settimo capitolo tratta della eredità laburista degli anni compresi fra il 1968 e il 1977. Un "decennio illuminato", secondo certa produzione letteraria sionista, che i palestinesi avrebbero dilapidato. Pappé nota invece che in questi dieci anni si sarebbe consolidato sui territori occupati un dominio unilaterale, controllato da una burocrazia che avrebbe considerato la popolazione una minaccia potenziale e una fonte di pericolo ad ogni richiesta o capriccio rimasti senza immediata soddisfazione. A scompaginarvi i piani di insediamento governativi sarebbe arrivato il movmento messianico Gush Emunim, il "blocco dei fedeli" che con lo scoperto avallo del governo laburista avrebbe iniziato a insediare coloni anche nelle aree più popolate da palestinesi, curandosi solo di rivivificare veri o presunti antichi siti biblici e diventando con gli anni una lobby sempre più influente. Lo stato avrebbe usato il Gush Emunim come scusa per la confisca di terreni e come strumento demografico "per effettuare una pulizia etnica con mezzi alternativi", senza che i partiti di governo dovessero rispondere direttamente di niente. Pappé sottolinea come la decisione ufficiale di procedere con la colonizzazione sia stata una grave violazione del diritto internazionale, in particolare della convenzione di Ginevra. Pappé ricorda l'inizio della resistenza palestinese alla fine degli anni Sessanta, con i dirottamenti aerei, le azioni eclatanti fuori dalla Palestina, la brutale repressione diretta a Gaza da Ariel Sharon. A Gaza per la prima volta sarebbero state associate colonizzazione e resistenza, con la resistenza come pretesto per intensificare la colonizzazione. Nonostante le colonie non fossero nate come atto ritorsivo contro la resistenza, i politici sionisti iniziarono a considerarla giustificata -o meglio ad autogiustificarla- nel contesto della "lotta al terrore". L'ottavo capitolo su la burocrazia del Male tratta del regime di occupazione nei territori. Escluse da qualsiasi agenda di pace, Cisgiordania e Gaza sarebbero state trasferite all'amministrazione militare e incorporate nello stato sionista senza una formale annessione, gettandone quindi gli abitanti in un limbo giuridico e personale. Un Vadat ha Mancalim, un "comitato dei direttori generali" compartecipato e coordinato da militari e con esponenti dei ministeri delle finanze, dell'industria, dell'agricoltura e dell'interno si sarebbe occupato della questione in discussioni riservate. Negli anni Ottanta la sua sostituzione con un'organizzazione detta Amministrazione Civile sarebbe stato meramente di facciata. Fin dal settembre 1967 la burocrazia sarebbe stata in grado di attivare il modello della prigione a cielo aperto o quello del carcere di massima sicurezza considerati da Pappé come metafore della situazione. Il Vadat ha Mancalim o Consiglio dei Governatori avrebbe avuto carta bianca per emanare ordinanze e per istituire un sistema giudiziario militare sulla base dei regolamenti mandatari britannici e di qualche legge internazionale in materia di guerra e di occupazione. L'amministrazione militare dei territori occupati avrebbe agito per espropriare terre e immobili, praticare arresti di massa e sottoporre la popolazione palestinese a un sempre più intenso processo di colonizzazione in aperta violazione da quanto prescritto dalla quarta convenzione di Ginevra del 1946 in materia di prerogative della potenza occupante. Pappé ricorda fra i primi provvedimenti presi nei territori occupati la confisca in favore dell'esercito di tutte le proprietà del governo giordano e l'elevazione del governatore militare sionista ad autorità fiscale. Il legislatore sionista avrebbe adottato un approccio utilitaristico e cinico nei confronti del diritto internazionale, servendosene per imporre la legge militare ma anteponendovi la normativa sionista ogni volta che esso interferiva con la colonizzazione. Il sistema giudiziario militare sarebbe stato sottoposto alla corte suprema dello stato sionista, che di fatto avrebbe finito per avallarne le nefandezze. In particolare, la corte suprema avrebbe legalizzato l'acquisizione delle terre espropriate da parte dello stato sionista sulla base della normativa ottomana sui proprietari assenti. Decreto dopo decreto, scrive l'A., in capo a tre anni lo stato sionista avrebbe stabilito anche un'estesa presenza militare nel cuore delle aree palestinesi, che si sarebbe poi fusa in un sistema unico con la colonizzazione incamerando ancora più terreno. Con l'ascesa del Likud dal 1977 ogni infingimento sarebbe stato abbandonato e gli espropri sarebbero avvenuti con l'intento esplicito di costruire colonie civili.
L'affievolirsi della resistenza dopo il 1969, scrive Pappé, avrebbe convinto l'amministrazione sionista di essere ormai in grado di promuovere unilateralmente i propri interessi senza avere nulla da temere né dai colonizzati né dalla comunità internazionale; sarebbe iniziato il periodo della "prigione aperta" con il passaggio di alcuni poteri alle municipalità e ai consigli locali e l'accesso della manodopera al mercato del lavoro sionista. L'A. sottolinea come la questione dibattuta a livello governativo fosse soprattutto l'integrazione economica della Cisgiordania senza comportare un indebolimento demografico per gli ebrei. Il vero padrone della situazione sarebbe stato Moshe Dayan, che avrebbe reso i palestinesi dipendenti dalle merci e dal lavoro sionisti e precarizzando tanto gli scambi col mondo arabo quanto la possibilità di emigrarvi per lavoro. Questa colonizzazione economica sarebbe andata d pari passo con l'abbandono delle infrastrutture economiche locali, rendendo Gaza e Cisgiordania fonti di mano d'opera a basso costo e mercati chiusi per le merci sioniste. In questo lo Histadrut avrebbe agito come un enorme complesso industriale, fornendo occupazione ai palestinesi purché accettassero di risiedere nelle aree isolate dei territori occupati in cui lo spazio sarebbe stato costantemente ridotto dall'ebraicizzazione e dagli espropri. Dopo venti anni la precaria pace assicurata dal modello sarebbe venuta meno a causa della collaborazione del governo con il Gush Emunim; nel frattempo lo stato sionista avrebbe operato in modo da rendere impraticabile qualsiasi ritorno allo status quo.
Il nono capitolo illustra i prodromi della prima Intifada. Andato al governo con la promessa di annettere i territori occupati, il Likud avrebbe operato di concerto col Gush Emunim facendo dei gruppi marginalizzati come i mizrahi o gli ultraortodossi i protagonisti del colonialismo più arrabbiato e consentendo loro di creare énclave teocratiche autonome cui sarebbero state accordate agevolazioni fiscali e sovvenzioni. Ai colloqui di pace con l'Egitto Moshe Dayan avrebbe presentato la realtà della prigione aperta in cui il controllo e le risorse dei territori sarebbero dovuti rimanere per sempre nelle mani dello stato sionista paludandola da "piano di autonomia". La mala reazione dell'OLP avrebbe provocato l'invasione del Libano del sud e la cacciata a nord del fiume Litani di centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi. A condurre la guerra attiva contro l'OLP sarebbe stato Sharon; Pappé nota che dai tempi della repressione a Gaza "l'uomo tutto muscoli si era trasformato in un leader obeso e ingombrante, il cui appetito smodato per il buon cibo andava di pari passo con la sua smania di terre e insediamenti ulteriori in tutta la Palestina storica". In questo, Sharon sarebbe stato affiancato dal professor Menachem Milson, che avrebbe messo fine alla farsa sull'occupazione temporanea abolendo il governo militare nei territori occupati e sostituendolo con la cosiddetta Amministrazione Civile che avrebbe a sua volta delegato parte dei propri poteri all'Autorità Nazionale Palestinese nel 1995. Milson avrebbe fondato anche le "leghe di villaggio", un'iniziativa dalla vita breve che avrebbe dovuto erodere la base popolare dell'OLP. Con Sharon i coloni sarebbero passati a tattiche ancora più aggressive, mettendo a segno attentati e pianificando azioni di portata anche più ampia, mentre in sede burocratica la proprietà della terra sarebbe stata ridefinita rifacendosi a una vecchia legge ottomana, in modo tale da consentire allo stato sionista di avocare a sé la maggior parte dei terreni "abbandonati", quale che fosse la loro proprietà. Una serie di opportuni decreti e regolamenti avrebbe impedito l'ampliamento degli edifici palestinesi e subordinato le licenze per le nuove costruzioni al versamento di imposte molto alte. Pappé nota che Sharon avrebbe reso organico e sistematico l'approccio alla mega prigione, in ogni aspetto e in ogni settore.
Pappé scrive che nel 1982 dopo un attentato contro il proprio ambasciatore a Londra lo stato sionista si sarebbe reso colpevole di tanti e tali crimini di guerra in Libano da riempire un dossier dell'ONU e da indurre Begin, dopo i fatti di Sabra e Shatila, a cambiare di posto a Sharon togliendogli il dicastero alla difesa. Da altre cariche Sharon avrebbe continuato a strangolare i territori occupati, con una OLP confinata a Tunisi. Il perdurare della guerra in Libano avrebbe reso vaghi i confini tra i due teatri di impiego; secondo l'A. l'esercito sionista sarebbe finito col ricorrere al pugno di ferro anche contro la resistenza non violenta nei territori occupati incrinando il modello della prigione aperta e provocando al contempo lo scoppio della prima Intifada. In quelle circostanze le tensioni causate dal mancato sviluppo dei territori, dominati da una politica punitiva di punizioni collettive (prepotenze, demolizioni, detenzioni senza processo...), di geografia, demografia e viabilità stravolte e usati nel migliore dei casi come serbatoio per manodopera precaria, sottopagata e sostanzialmente schiavile, sarebbero deflagrate violentemente. Secondo Pappé la mentalità ufficiale sionista non avrebbe neppure registrato simili aspetti della questione e si sarebbe limitata a deplorare uno scambio di prigionieri col Fronte Popolare concluso nel 1985 considerandolo causa ultima di tutto.
Nel decimo capitolo Pappé illustra le vicende della prima Intifada, una ondata di violente proteste di massa che nel 1987 sarebbe esplosa contro gli espropri e l'oppressione dopo un incidente stradale con vittime nel campo profughi di Jabalya. In queste circostanze i mass media non sionisti avrebbero iniziato a trattare i palestinesi come un coraggioso David che affronta a colpi di pietre il Golia occupante. A fronte delle espulsioni di massa sarebbe intervenuta anche l'ONU, con risoluzioni ignorate dallo stato sionista. In sei anni, la prima Intifada avrebbe portato alla morte di mille palestinesi e a oltre centoventimila arresti; Pappé sottolinea che -a fronte di manifestazioni sostanzialmente disarmate- lo stato sionista avrebbe reagito comportandosi come davanti a una rivolta carceraria ricorrendo abitualmente a quello che in Occidente sarebbe stato ipocritamente indicato come "uso eccessivo della forza". Col passare degli anni l'ascesa di Hamas come protagonista della contesa aiutò lo stato sionista a comportarsi con ancor maggiore impunità, dato l'affermarsi dell'islamofobia nell'aggravarsi della lotta fra potenze occidentali e gruppi politici islamici. Pappé scrive che Hamas avrebbe consentito ai sionisti di ascrivere la lotta dei palestinesi alle forze antioccidentali impegnate in uno scontro di civiltà, e che lo stato sionista avrebbe avuto un ruolo importante nella sua nascita e nella sua progressiva affermazione -debitamente trattate nel testo- come antagonista delle fazioni laiche. Nel XXI secolo, quali che fossero le sue origini, Hamas avrebbe contrapposto una condotta pragmatica alla costante brutalità dello stato sionista.
Il libro ricorda che dalla fine del 1988 lo stato sionista avrebbe esteso le proprie rappresaglie alla popolazione generale, in aperta violazione della Convenzione dell'Aia del 1907 e della quarta Convenzione di Ginevra del 1949. Dopo il 1981 lo stato sionista avrebbe istituito una Amministrazione Civile per i territori occupati, le cui iniziative erano sottoposte in tutto a un generale sionista. L'Amministrazione Civile avebbe di fatto agito per conto dell'esercito nella gestione dei territori occupati nella versione carcere di massima sicurezza. Pappé ricorda le restrizioni in materia di movimento che avrebbero reso il tragitto più breve una via crucis irta di permessi concessi o negati, e la proibizione per i palestinesi di attraversare il territorio di Gerusalemme. La stessa Amministrazione Civile -dal proprio "mostruoso quartier generale" tra Pisgat Zeev e Neve Yaakov- avrebbe avuto il potere di negare a chiunque il diritto di lavorare, studiare, costruire e commerciare, essendo ogni attività anche elementare subordinata a un permesso che avrebbe potuto essere sospeso o negato. Rifacendosi all'organizzazione non governativa B'Tselem, Pappé descrive la quotidianità della repressione nel carcere di massima sicurezza in cui si sarebbero trasformati i territori occupati con la prima Intifada, con i coprifuoco imposti con i più vari pretesti, le vessazioni arbitrarie e le irruzioni militari a corollario così come si svolgevano prima degli accordi di Oslo. Solo fra marzo e maggio del 1993 le punizioni collettive avrebbero privato oltre centomila palestinesi dei mezzi di sostentamento, diviso i territori occupati in quattro aree scollegate fra loro e impedito ogni accesso a Gerusalemme. Nello stesso periodo sarebbe stato ultimato il sistema di checkpoint che avrebbe irreversibilmente separato la città dalla Cisgiordania. La manodopera palestinese sarebbe stata sostituita da immigrati -con effetti nulli sull'economia sionista ma devastanti su quella dei territori- le abitazioni demolite senza preavviso, i campi devastati, l'acqua incanalata beneficio dei soli insediamenti ebraici che dopo l'Intifada l'avrebbero rivenduta agli stessi palestinesi cui era stata sottratta. Nei confronti delle prepotenze dei coloni l'atteggiamento indulgente dei tribunali di un sistema giudiziario del tutto integrato alla campagna repressiva, già robustamente presente, sarebbe diventato la regola.
Pappé scrive che le facoltà di Legge dello stato sionista forniscono ai futuri membri del sistema giuridico di un paese che pretende di essere una democrazia liberale tutte le competenze necessarie a far funzionare la massiccia macchina di arresti e incarcerazioni in funzione dal 1967, notando soprattutto lo strumento della "detenzione amministrativa" comminabile per qualsiasi iniziativa anche non violenta. La realizzazione di un graffito sarebbe stata motivo sufficiente per "l'arresto e una punizione collettiva per tutta la famiglia dell'autore". Nei primi anni Novanta, sostiene Pappé, i giudici avrebbero fornito collaboratori prelevandoli dai prigionieri senza processo della "detenzione amministrativa", pronti a riportare prove loro indicate dai servizi segreti. A sua volta, Hamas e la Jihad islamica avrebbero reagito uccidendo centinaia di questi delatori, della cui sicurezza lo stato sionista si sarebbe curato poco o nulla. Nella narrazione ufficiale sionista, specifica l'A., cause ed effetti degli eventi sarebbero spesso invertiti e l'ordine cronologico trattato in modo per lo meno curioso; vi si ometterebbe ad esempio di notare che l'inizio degli attentati suicidi nel 1993 era stato posteriore di due anni all'espulsione in Libano di oltre mille attivisti di Hamas considerati compartecipi dell'uccisione di due militari istigata da Yassin. Nonostante questo, la prima Intifada avrebbe a tal punto ottenuto il favore dell'Occidente da indurre politici e accademici sionisti a formulare una nuova versione del modello di prigione aperta, cooptando l'OLP nella gestione. Il risultato dell'iniziativa sarebbero stati gli accordi di Oslo, fatti apposta per anestetizzare le coscienze occidentali.
La farsa di Oslo è argomento dell'undicesimo capitolo. Nel 1992 lo stato sionista con i laburisti nuovamente al governo avrebbe avviato trattative dirette con l'OLP per prevenire iniziative statunitensi in cui lo stato sionista sarebbe stato considerato parte dei problemi. Pappé sottolinea due mistificazioni sul processo di Oslo, quella per cui si sarebbe trattato di un autentico processo di pacificazione e quella per cui Arafat lo avrebbe scientemente sabotato istigando una seconda Intifada. Pappé indica che dal negoziato sarebbero usciti termini impossibili da rispettare: allo "stato" palestinese risultante non sarebbe stato accordato altro che un territorio ulteriormente ridotto, un villaggio (Abu Dis) come capitale, e negato il diritto al ritorno degli esuli del 1948, contro la rinuncia da parte palestinese a qualsiasi ulteriore richiesta. Pappé ricorda anche come gli accordi avrebbero sancito una ripartizione che sarebbe sempre stata un concetto rivendicato e avanzato dai sionisti e che all'atto pratico si era sempre rivelata ai palestinesi come una strategia offensiva condotta con altri mezzi. E accettata infine come male minore in nome di un popolo colonizzato e sconfitto. Lo stato sionista inoltre avrebbe deciso quanto territorio cedere e cosa sarebbe dovuto succedere nei territori concessi. Con gli accordi di Taba sarebbe stata ratificata la spartizione dei territori in zone "ebraiche" e "palestinesi", e l'ulteriore divisione in bantustan di queste ultime. A far fallire gli accordi avrebbe contribuito anche il rinvio di cinque anni per qualsiasi revisione della questione di Gerusalemme, di quella dei rifugiati e di quella delle colonie. L'esecutivo sionista capeggiato da Netanyahu -succeduto a quello di Rabin, ucciso nel 1995 da un estremista sionista- avrebbe avuto gioco facilissimo nell'eccepire al comportamento palestinese al termine dei cinque anni di periodo provvisorio per evitare di affrontare le questioni in sospeso: il fallimento dei negoziati nel 2000 sarebbe stato attribuito non all'implausibilità e all'impraticabilità di quanto stabilito, ma all'intransigenza della dirigenza palestinese. In secondo luogo, la cancellazione del diritto al ritorno dei rifugiati -il cuore stesso del conflitto- e l'esclusione dal loro numero di quanti vivevano dal 1948 nello stato sionista avrebbe fatto sì che demograficamente il popolo palestinese si riducesse a meno della metà del numero effettivo; una condizione che i negoziatori palestinesi avrebbero ritenuto ovviamente inaccettabile a dispetto di ogni sforzo. Pappé ricorda che negli anni successivi all'assassinio di Rabin l'occupazione sionista era proseguita con la costruzione di insediamenti e con ancor più punizioni collettive: la riluttanza dei palestinesi a proseguire sullo stesso percorso non sarebbe stata dovuta a intransigenza o a una cultura politica all'insegna della violenza, ma alla naturale reazione a fronte di un processo che non aveva fatto altro che consolidare e intensificare il controllo sionista sui territori occupati. Allo stesso modo Pappé crede che non sia fondato attribuire all'intransigenza di Arafat il fallimento del vertice di Camp David nel 2000. Secondo l'A. a seguito del processo di Oslo i territori occupati avrebbero preso la forma di "una geografia del disastro". Dal 1994 la Cisgiordania era stata divisa in un'area A sotto controllo palestinese, in un'area B a controllo misto e in un'area C -la più vasta- sotto diretto controllo dello stato sionista, con un notevole peggioramento della qualità della vita per i palestinesi e -in caso di ratifica definitiva- nessuna possibilità di avanzare ulteriori richieste. Secondo le fonti riportate da Pappé a Camp David Arafat avrebbe semplicemente chiesto di ridurre la colonizzazione della Cisgiordania e di mettere fine alle brutalità di ogni giorno contro i palestinesi -severe restrizioni di movimento, frequenti punizioni collettive, arresti senza processo e continue umiliazioni ai posti di blocco- che erano la norma ovunque vi fosse un contatto fra esercito sionista o Amministrazione Civile e la popolazione locale. L'A. ne conclude che la seconda Intifada del 2000, non pianificata e neppure sostenuta da Arafat, altro non sarebbe stata che la risposta popolare a una situazione aggravata dalle iniziative di Ariel Sharon e cui avrebbe contribuito con entusiasmo il mainstream, distorcendo e censurando i reportage sulle proteste. Gli attentati suicidi moltiplicatisi nei mesi successivi vengono visti da Pappé come una ultima risorsa a fronte dello strapotere militare dei sionisti. Reduce da grigie giornate in Libano, l'esercito sionista avrebbe trovato nella repressione contro i territori occupati -dal 2002 condotta con le armi più letali e pesanti contro i civili- un modo per fare sfoggio di potenza; gli omicidi mirati e la sistematica decapitazione delle organizzazioni palestinesi, peraltro iniziata nel 1972 con l'uccisione di Ghassan Kanafani, sarebbero diventate ordinaria amministrazione conferito realismo alle ciniche affermazioni dei politici secondo cui da parte palestinese "non c'era nessuno con cui intavolare trattative".
Pappé descrive la situazione nella Cisgiordania dopo il 2007, di fatto per il 40% annessa allo stato sionista e in cui la restante popolazione palestinese è sottoposta a regole da apartheid in ogni aspetto della vita quotidiana; una Cisgiordania in cui l'ANP si comporterebbe da forza collaborazionista, che dovrebbe per intero la propria sopravvivenza economica agli aiuti internazionali e in cui l'arbitrio dei coloni non incontrerebbe alcun serio ostacolo.
Nell'ultimo capitolo Pappé affronta il tema del carcere di massima sicurezza nella sua forma più estrema: la Striscia di Gaza. Durante l'operazione Piombo Fuso del 2009 l'esercito sionista avrebbe aggredito Gaza come se fosse una roccaforte nemica ignorando qualsiasi freno morale. Dal 2005 Sharon aveva fatto sgomberare i coloni nel tentativo di fare di Gaza un'altra "area A" in modo da concentrarsi sulla Cisgiordania, in cui la colonizzazione sarebbe andata avanti in modo lento e strisciante così da non levare l'attenzione di voci sgradite. Solo che la vittoria di Hamas nelle successive elezioni -e il golpe messo a segno per evitare che Fatah ne rovesciasse l'esito- avrebbero reso impossibile il progetto. Lo stato sionista avrebbe reagito iniziando l'assedio della Striscia e agendo in modo provocatorio per istigare Hamas a reagire col lancio di missili, a loro volta pretesto per una operazione "prima pioggia" che l'A. definisce "una spaventosa ostentazione di aggressività" il cui esito sarebbe stato quello di aumentare ancora di più il sostegno popolare verso Hamas. La sconfitta in Libano nel 2006 avrebbe portato la quotidiana pratica sionista a tali livelli di brutalità da "attagliarsi perfettamente alla definizione di genocidio così come è formulata dall’articolo 2 delle Nazioni Unite, in cui si sottolinea che essa può essere applicata ad azioni contro una parte di (e non necessariamente contro tutta) una popolazione etnica o nazionale". Aver sigillato la Striscia di Gaza come un carcere di massima sicurezza da gestire senza pietà avrebbe reso impraticabile il trasferimento graduale della popolazione, portando in pratica alla lenta distruzione della capacità di sopravvivenza degli abitanti al punto che un rapporto dell'ONU del 2016 avrebbe previsto che nel 2020 la vita a Gaza sarebbe divenuta insostenibile. Pappé ricorda le cicliche e sempre più aspre operazioni militari del 2006 e del 2007, presentate all'opinione pubblica occidentale prima come iniziative contro il jihad mondiale e poi come operazioni contro la base di un'organizzazione terrorista determinata a distruggere lo stato sionista; la popolazione di Gaza sarebbe stata posta in pratica davanti alla scelta di continuare a sostenere Hamas, arrivando allo strangolamento e alla fame, o cedere alla politica sionista andando incontro allo stesso destino dei palestinesi in Cisgiordania. Dopo un cessate il fuoco mediato dall'Egitto nel 2008 lo stato sionista avrebbe avuto un anno per preparare un'invasione massiccia all'insegna della distruzione totale predicata dalla dottrina Dahiya, in cui sarebbero state usate armi "progettate per uccidere i civili" stante la necessità di "imprimere nella coscienza palestinese la temibile potenza dell'esecito", come avrebbe affermato Moshe Yaalon.
Dopo il 2009 le aggressioni contro Gaza sarebbero servite anche a scopo di politica interna -specie per mettere la sordina a movimenti di protesta- e avrebbero perso ogni limite in materia di distruzioni causate. Nel 2014, nel primo confronto diretto coi combattenti nella Striscia, lo stato sionista avrebbe perso decine di uomini. Secondo Pappé la sostanziale immunità di cui lo stato sionista ha potuto godere per oltre cinquant'anni avrebbe avallato ovunque la convinzione che nella regione i diritti umani e civili siano irrilevanti.


Ilan Pappé - La prigione più grande del mondo. Storia dei Territori Occupati. Fazi, Roma 2022. 330 pp.