Tamar Pitch - Contro il decoro. L'uso politico della pubblica decenza
Alla fine del 2011 Mario Monti divenne Primo Ministro nello stato che occupa la penisola italiana. Il suo predecessore si era distinto per un'immagine pubblica spesso sopra le righe, e parve ai più che la nuova autorità tenesse fin dal proprio insediamento a dare prova di austerità e compostezza. Il saggio della giurista Tamar Pitch uscito due anni dopo punta invece a dimostrare che non solo decoro e indecenza non si escludono a vicenda ma anzi si implicano, delineando modalità di controllo e di disciplina utili a tenere a bada un ceto medio impoverito e impaurito. L'ideologia del decoro concorrerebbe in breve al rafforzamento dell'ideologia neoliberista.
Il neoliberismo si vorrebbe centrato sulla responsabilità individuale e assegnerebbe il titolo di buoni cittadini a quanti si dimostrano capaci di adattarsi a una vita di precarietà lavorativa evitando di pesare a qualsiasi titolo sull'erario. Tutti gli altri sarebbero passibili di criminalizzazione ed è verso di loro che è facile alimentare e dirigere il pervasivo senso di insicurezza che ha per sapiente caso accompagnato il tramonto dello stato keynesiano. I vocaboli decoro e decoroso verrebbero generalmente applicati a questo secondo gruppo per sottolineare l'adeguatezza del suo comportamento; nessuno pretende decoro dagli esponenti di una classe agiata resa tale dalla speculazione finanziaria che si è imposta dopo il 1970, e che indulgerebbero a uno stile di vita caratterizzato da un'"assoluta noncuranza verso i limiti imposti a tutti gli altri". Questo tipo di comportamento sopra le righe sarebbe avallato da un discorso pubblico che lo rende accettabile e desiderabile, e che condiziona la possibilità di emergere alla disponibilità al rischio individuale e alla rinuncia a ogni protezione, tanto a quelle del welfare quanto a quelle di appartenenza collettiva come le mai abbastanza denigrate organizzazioni sindacali. Nello stesso discorso pubblico l'uguaglianza viene presentata come un ostacolo all'affermazione individuale e la sua difesa come abitudine di chi non può che coltivare nostalgie inconfessabili. L'A. nota come la libertà che dell'uguaglianza viene postulata come il positivo opposto sia alla portata di sempre meno persone; esclusa l'uguaglianza dall'agenda, l'appello al decoro si accompagnerebbe alla paura per tenere a bada il crescente numero degli esclusi: per assumere vesti decorose sono disponibili al consumo prodotti che sono imitazioni altrettanto decorose di quelli accessibili ai ricchi; a questi comportamenti di consumo gli esclusi sono sollecitati ad attenersi. Una città decorosa è "una città dove miseria e marginalità non si vedono, dove germi e batteri portatori di contagio si identificano nei rom, nei mendicanti, nei lavavetri, nei venditori abusivi di strada, nelle prostitute, nel proliferare di negozi di cibo «etnico», e via vietando".
La Pitch considera il panorama mediatico predominante nella penisola italiana senza ravvisarvi molte tracce di un'etica protestante fatta di lavoro duro, risparmio e morigeratezza di costumi: ricchezza e lusso al contrario vi verrebbero spudoratamente esibiti come segni tangibili del "merito"; la collettività vi è concepita solo come collettività di consumatori. In questo, l'Al sottolinea come il decoro non corrisponda affatto all'austerità; l'austerità riguarderebbe l'intero corpo sociale e poggerebbe su diritti sociali robusti per promuovere solidarietà e uguaglianza, laddove il decoro sarebbe imposto per tamponare e nascondere l'esclusione dal discorso pubblico tanto dell'una quanto dell'altra. Elevare il decoro e la paura a instrumenta regni consentirebbe secondo la Pitch di identificare determinate categorie alla stregua di germi e batteri da espellere dalla casa dei buoni cittadini; il secondo capitolo del saggio passa in rassegna alcuni esempi di traduzione operazionale di questo concetto sul piano "nazionale" a spese di frequentatori di stadi, tossicodipendenti, prostitute, migranti e donne.
La Pitch ripercorre lo sviluppo delle misure che hanno portato alla legislazione sul divieto di accesso alle manifestazioni sportive e a una nutrita, sempre aggiornata e inasprita serie di misure restrittive della libertà personale, fino al caso limite del "daspo preventivo" comminabile prima e in assenza della commissione di un reato. Il tutto, maligna l'A., "in nome della sicurezza e del sacro diritto delle famigliole di poter godere una partita in pace"... se non fosse che il pallone lucra sui diritti televisivi assai più che sui biglietti e che la normativa sembrerebbe proprio volta ad assicurare che lo spettacolo televisivo si svolga senza problemi. L'imposizione della "tessera del tifoso" avrebbe poi assestato un ulteriore colpo a una forma di aggregazione popolare partecipata e diffusa. La Pitch nota anche i reiterati tentativi di applicare il Daspo anche alle manifestazioni politiche, con una ovvia estensione della divisione tra "giovani perbene e giovani permale" le cui implicazioni prendono interesse se si considera il ruolo importante che le tifoserie egiziane hanno avuto nella "primavera araba" del 2011. Una partecipazione che nella penisola italiana nessuno si è ovviamente curato di sottolineare.
I continui inasprimenti delle normative sull'uso di stupefacenti, nota la Pitch, finirebbero per ricadere anch'essi sulle spalle dei più giovani, essendo altamente improbabile che la gendarmeria si interessi ai "baby boomers ingrigiti che fumano canne dagli anni Sessanta", ai "frequentatori di feste a base di coca nelle ville dei ricchi o nei club privati, e in generale a chi ha i mezzi per comprare ciò che vuole e consumarlo dove vuole". Questo, ribadisce il libro, in un clima mediatico in cui i vizi dei ricchi vengono presentati dai mass media come altrettante virtù; di fatto lo stato che occupa la penisola italiana discriminerebbe anche in questo caso tra quelli cui tutto è permesso e quelli cui vengono imposti limiti sempre più rigidi, istituendo di fatto un confine invalicabile che è sia di classe che di generazione.
La Pitch considera il diversificarsi che ha interessato il fenomeno della prostituzione, in cui sarebbe rimasta invece costante l'appartenenza al sesso maschile dei compratori. Nello stato che occupa la penisola italiana il discorso pubblico avrebbe interessato prevalentemente la prostituzione di strada, foriero di disordine e di intralci che un'ottica coerentemente perbenista trova intollerabili. La stigmatizzazione sociale del mercato delle prestazioni sessuali servirebbe secondo l'A. a mantenerlo in una "zona grigia legalmente incerta e non protetta" anch'essa funzionale alla divisione tra perbene e permale. Tanto più che nessuno minaccia seriamente una domanda di prestazioni sessuali costituita da un target di cittadini perbene analogo a quello del mercato della droga. L'A. rileva che delle cinquanta-settantamila prostitute stimate solo il venti per cento eserciterebbe in strada e sarebbe suscettibile di sanzioni. Dei nove milioni di clienti stimati, solo i più anziani e a basso reddito si rivolgerebbero a prostitute di strada, dato che da solo rileverebbe la sostanziale ipocrisia di intenti repressivi che andrebbero a colpire solo la fascia bassa del mercato: alla promozione del decoro urbano si accompagnerebbe quella del decoro "dei maschi meno abbienti", tenuti a mantenersi entro certi limiti. Allo stesso tempo i mass media e il discorso pubblico considererebbero invece la mercificazione di sé come lodevole simbolo di libertà; nello stato che occupa la penisola italiana tutto si può comprare, dai parlamentari alle donne.
"I migranti vanno (abbastanza) bene finché sono invisibili, chiusi nei luoghi di lavoro. I problemi nascono quando la loro presenza nello spazio urbano si fa sentire", rileva la Pitch. La loro trasformazione in agenti inquinanti di totale alterità sarebbe diventata la norma, con l'abituale amplificazione di casi efferati per introdurre e giustificare i provvedimenti securitari più ossessivi.
Il "dispositivo centrale dell'intreccio fra decoro e indecenza", sostiene l'A., sarebbero le donne. Nello stato che occupa la penisola italiana sarebbero da decenni oggetto di tentativi di ricondurle a ruoli tradizionali togliendo loro le libertà conquistate in anni anche recenti. L'esaltazione delle mogli e delle madri andrebbe di pari passo coi favori alle imprese, il disinteresse per l'occupazione femminile, lo smantellamento del welfare e l'attacco alla scuola pubblica, col conseguente aggravio del lavoro domestico. L'approvazione delle perbene (mogli e madri) andrebbe di pari passo con il biasimo per le permale (prostitute), fatta salva l'approvazione che la vendita del proprio corpo riscuoterebbe se eseguita ad alti livelli. I mass media e il discorso pubblico la presenterebbero proprio come quell'esercizio di libertà per cui ha lottato il femminismo. L'A. si chiede se non esista una qualche correlazione fra clima sociale e aumento delle vittime donne pur nella costante diminuzione del tasso di omicidi.
Le ripercussioni sul piano locale della realtà fin qui descritta sono trattate con abbondanti esempi nel terzo capitolo: il rapporto più diretto con lo sporco da cancellare e con i germi da debellare sarebbe affidato al protagonismo degli amministratori locali, le cui ordinanze vengono considerate dalla Pitch autentici prodigi di inventiva. Col decentramento dei poteri, i sindaci sarebbero diventati protagonisti dell'iniziativa in materia di quell'"ordine pubblico" che era compito dello stato centrale garantire, e di quella "sicurezza" intesa come "riduzione del rischio di rimanere vittime di atti di criminalità comune". La Pitch, interessatasi da decenni al tema in qualità di giurista, rileva che il generale puntare sulla sicurezza ha significato riempire le carceri oltre ogni limite e soprettutto legittimare e fomentare la paura, per usarla in funzione di consenso. In questo, gli studi sulla sicurezza sarebbero stati utilissimi grazie alla loro distinzione tra una sicurezza oggettivamente misurabile dati alla mano, di cui nessuno pare interessarsi, e "sicurezza percepita" deducibile in modi statisticamente opinabili, ma indispensabile per giustificare le ordinanze. Il ricorso alla sicurezza percepita consentirebbe di infierire su un gran numero e varietà di situazioni e fenomeni urbani non direttamente collegati alla criminalità, ma collegabilissimi ai concetti approssimativi e discrezionali di "inciviltà", "disturbo" eccetera. I poteri dei sindaci concorrerebbero anch'essi a dividere i perbene dai permale grazie a una normativa che lascerebbe ai sindaci stessi l'individuazione dei comportamenti da sanzionare; tra questi primeggerebbero "il mercato dell'intrattenimento e l'uso dello spazio pubblico da parte delle masse giovanili, le richieste dei questuanti, i comportamenti non penalmente rilevanti di tossicodipendenti, spacciatori, prostitute di strada, nonché vagabondi". La sostanziale fine della distinzione tra illegalità e disturbo, fra criminalità e disagio, tra reati e inciviltà avrebbe fatto dei rom e dei sinti i permale per antonomasia. Nel 2008 l'esecutivo avrebbe statuito il sussistere di una "emergenza nomadi": tre anni dopo una commissione senatoriale avrebbe riferito che circa quarantamila tra rom e sinti sarebbero ancora vissuti in insediamenti formali e in condizioni spaventose, indice piuttosto chiaro su quale sia il modo corrente di affrontare emergenze statuite da anni. Il vocabolo nomadi connoterebbe rom e sinti come "altra cosa" rispetto alla popolazione stanziale fornendo appiglio a qualsiasi iniziativa ulteriormente discriminatoria. Gli insediamenti informali dei "nomadi" non sarebbero un pericolo per chi ci vive, ma per i perbene "stanziali". La Pitch ricorda come la normativa emergenziale avrebbe permesso una serie di sgomberi nel più schietto stile "occidentalista" con la distruzione dei ricoveri e dei beni personali di chi risiedeva negli insediamenti. Ad anni di distanza la deportazione dei residenti in periferie estreme e isolate sarebbe risultata nel migliore dei casi nella rottura di legami tra persone, della memoria condivisa e del senso di appartenenza. A Roma, gli sgomberi avrebbero prodotto più spesso una polverizzazione degli insediamenti informali, autoavverando la profezia dei "nomadi" come altera res insuscettibile di integrazione.
La Pitch riporta in varie e sprezzanti pagine le ordinanze con cui tra 2008 e 2010 i sindaci della penisola italiana si sarebbero accaniti contro la prostituzione da strada, scontrandosi pressoché tutti con la difficilissima definizione della fattispecie. In alcuni casi le ordinanze farebbero riferimento ad abbigliamenti che manifestino "inequivocabilmente l'intenzione di adescare", ricordando le locuzioni usate dalla polizia di realtà che gli stessi amministratori aborriscono in nome della difesa dei "valori occidentali". Il tutto, comunque, a tutela di un "senso del pudore" destinato a evaporare a fronte di programmi televisivi e "utilizzatori finali". Secondo la Pitch la lotta alla prostituzione di strada avrebbe costretto davvero molte donne a entrare nel giro degli appartamenti e dei privé, e a diventare così più vulnerabili a quei ricatti e quelle coercizioni da cui il legislatore diceva di volerle sottrarre. Con un inciso perfido, l'A. nota che "a Roma chi esercita sulle vie consolari ha adottato un abbigliamento decoroso, lasciando minigonne inguinali e tacchi a spillo alle studentesse della Sapienza".
Il potere dei sindaci si sarebbe esercitato con altrettanta inventiva contro mendicanti e lavavetri, nonostante la statuita molestia delle loro attività non avesse a che fare con l'aumento del senso di insicurezza e fosse invece facile da correlare al fastidio di bottegai e padroni di mescite. Restano i dubbi, piuttosto fondati, sulla solvibilità delle sanzioni comminate, e la certezza sullo scopo ultimo delle ordinanze, quello di contrastare la presenza di figure "anomale" e "fuori posto" in un dato territorio. In concreto, esse avrebbero determinato l'esistenza di realtà dove sarebbe sufficiente recare "disturbo o semplice turbamento" per essere sanzionabili. La comparsa di legalissime attività gestite da stranieri avrebbe portato con singolare sincronismo all'attenzione delle amministrazioni locali anche la necessità di "distribuirle in modo più omogeneo" nei territori comunali.
L'inventiva dei sindaci si sarebbe esercitata soprattutto contro il consumo di alcolici e i comportamenti rumorosi a torto o a ragione ritenuti correlati. La Pitch nota che le proteste dei residenti sfuggiti alla gentrificazione sarebbero senz'altro comprensibili e condivisibili se non avessero "il retrosapor del privilegio e del desiderio di tener lontani turisti straccioni e ragazzi -magari delle periferie- che hanno per lo più soltanto i soldi per una birra"; ordinanze e divieti -sottolinea acutamente l'A.- vengono emessi dalle stesse autorità che hanno concesso licenze, approvato i cambi di destinazione, elaborato i piani urbanistici che hanno portato a tutto questo. L'intenzione neanche tanto celata, secondo la Pitch, sarebbe quella di confinare l'utenza meno solvibile nei centri commerciali, "nuove piazze extraurbane private e sorvegliate". Altre ordinanze prese in considerazione dall'A. aggiungerebbero ulteriori sanzioni a quelle già pesanti previste dalla normativa "nazionale" sugli stupefacenti, colpendo nel dettaglio il loro uso pubblico. Più che da uno "stato etico", cui sarebbe irrealistico aspirare date "le innumerevoli inchieste sulla corruzione", il legislatore sembrerebbe ispirato dal comportamento di un ceto medio disorientato e impaurito ma in grado di autoimporsi la disciplina ritenuta adeguata alla conservazione o alla restaurazione del decoro. Di fatto ogni segno di esuberanza di chi non viene considerato appartenente alla categoria "non solo è intollerabile, ma indica disturbi psichici o disagi familiari".
Corpo, merito e pulizia sono i concetti introdotti dalla Pitch per le conclusioni finali.
Ridotto a pura materia plasmabile a piacere e interamente dominabile dalla volontà, il corpo sarebbe inteso come "qualcosa che si ha", oggetto di cure assidue e anche ossessive perché "involucro infido e potenzialmente pericoloso". Citando Foucault la Pitch indica la cura del proprio corpo come cuore dei processi di controllo sociale moderni; col declino del welfare questa cura si tradurrebbe nell'imperativo di provvedere da soli alla prevenzione dei rischi per la salute propria e dei propri familiari. Lo stato incoraggerebbe le best practices nel settore con divieti e comandi al fine di ridurre il ricorso allo stato sociale. Questa riduzione del corpo ad oggetto avrebbe avuto nel peculiare contesto dello stato che occupa la penisola italiana dei risvolti specifici, incluso l'avallo mediatico di una sessualità contrattualizzata.
Il merito individuale sarebbe premiato dall'ideologia liberista, contro il cui pieno dispiegarsi insisterebbero nella penisola italiana corporazioni, clientele e corruzioni. I recenti esecutivi avrebbero giustificato le massicce liberalizzazioni proprio con questo intento. La Pitch ricorda prima il postulato indiscutibile per cui il merito sarebbe mera questione di talento e impegno individuale e che la fine di conventicole, corporazioni e raccomandazione lo porterebbe a emergere fulgidamente, e poi la realtà peninsulare in cui si indicherebbe con merito quello che nei contesti normali altro non è che il privilegio. Nel contesto scolastico la meritocrazia altro non sarebbe che un ulteriore tassello della retorica del decoro, come attesterebbero la reintroduzione del voto di condotta e la proposta di ripristinare l'uso dei grembiuli scolastici. Si temerebbe con ragione "l'esplosione di creatività e l'esaltazione di un desiderio non riducibile al solo consumo di merci, nonché la spinta all’aggregazione orizzontale" che avrebbero caratterizzato i movimenti di protesta del 1968; un fenomeno esecrabile perché impedirebbe la valorizzazione della giovinezza come merce.
La pulizia contemplerebbe, programmerebbe ed eseguirebbe la distruzione delle alterità invise; la Pitch considera il decoro una delle sue prime manifestazioni. La distinzione fra perbene e permale avrebbe un carattere dinamico per cui l'area dei perbene tenderebbe a restringersi sempre di più, sempre più disciplinata dalla minaccia di quello che può succedere ai permale in una politica in cui il conflitto fra le classi è stato sostituito dal conflitto fra buoni e cattivi. Agli "esclusi" immeritevoli, scrive l'A., verrebbero attribuite le ragioni della loro esclusione, parzialmente emendabili grazie alla carità munificamente elargita dagli "inclusi" e non certo da diritti universali. Gli appelli al decoro sarebbero parte integrante di questo dispositivo retorico.
Nello stato che occupa la penisola italiana l'invocazione del decoro altro non denoterebbe che "un modo diverso, apparentemente più gentile, di chiamare le politiche sicuritarie" e contribuirebbe in maniera decisiva "alla depoliticizzazione del discorso pubblico e alla sua riconduzione nei binari stretti della divisione tra buoni e cattivi, meritevoli e immeritevoli, perbene e permale".


Tamar Pitch - Contro il decoro. L'uso politico della pubblica decenza. Bari, Laterza 2013. 90 pp.