Ahron Bregman - La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei territori occupati
Con la guerra dei Sei Giorni del 1967 lo stato sionista occupò il Sinai, Gaza, il Golan e la Cisgiordania. Alcuni di questi territori, con particolare riguardo alla Cisgiordania, sarebbero da allora al centro di incessanti pratiche dirette a una loro annessione informale. La più evidente di queste pratiche sarebbe stata la costruzione di insediamenti, intrapresa dapprima accampando ragioni di sicurezza e poi -soprattutto con i governi di destra a partire dal 1977- per creare situazioni di fatto che rendessero difficile abbandonare i territori occupati e per interrompere la continuità territoriale di un futuro stato palestinese. Di questo era consapevole Ahron Bregman nel presentare questa edizione de La vittoria maledetta nel 2017; l'annessione della Cisgiordania avrebbe prima o poi costretto lo stato sionista a confrontarsi col problema della crescente popolazione araba e scegliere se diventare un nuovo Sudafrica o perdere la propria specificità di "stato ebraico". L'auspicio dell'A. nella prefazione è che la soluzione dei due stati resti ancora praticabile e che le parti accettino di addivenire a compromessi pur estremamente impegnativi.
Nella introduzione Bregman nota che con la guerra dei Sei Giorni lo stato sionista avrebbe dimostrato a se stesso di essere "un Golia più che un piccolo Davide" e che nelle stesse circostanze la simpatia del mondo avrebbe iniziato a rivolgersi ai palestinesi vittime dell'occupazione. Occupazione pesantissima per sua pura e semplice natura, esperienza negativa anche per il singolo occupante "costretto a far rispettare politiche con le quali potrebbe non essere necessariamente d'accordo", come lo stesso Bregman da molti anni residente nel Regno Unito. Lo stato sionista avrebbe sostenuto di essere rimasto sorpreso per l'ostilità della prima intifada nel 1987; Bregman invece ricorda come tutte le componenti della società palestinese avrebbero accolto fin da subito l'occupazione con aperta ostilità. Con l'intento di proporre un resoconto di carattere storico sulle politiche e sulle pratiche dell'occupazione sionista, l'A. ne delinea i tre principali fondamenti: l'esercito (ordinanze militari, arresti arbitrari, espulsioni, tortura, detenzione amministrativa), le leggi e i regolamenti (controllo sulle nomine ufficiali, sull'accesso agli impieghi, restrizioni sugli spostamenti, emissione di ogni tipo di licenza o di permesso inclusi quelli necessari all'edilizia e all'urbanistica) e gli interventi fisici sul posto (espropriazioni, distruzione di villaggi arabi e costruzione di insediamenti e basi militari ebraiche, creazione di zone di sicurezza, controllo dell'acqua e delle altre risorse naturali). Dopo il 1967 la politica sionista avrebbe oscillato fra due estremi, uno avrebbe previsto l'annessione di fatto delle terre occupate (ma non delle persone residenti) tramite la costruzione di insediamenti e di installazioni militari. L'altro, toccato assai più raramente e per lo più sotto grande pressione della comunità internazionale o sotto gli attacchi della resistenza, avrebbe invece previsto il disimpegno dai Territori o almeno da parte di essi. Bregman intende anche ripercorrere la serie delle opportunità perse da entrambe le parti sia sul piano tattico che su quello strategico, a cominciare dall'irresolutezza con cui gli esecutivi sionisti si sarebbero lasciati trasportare dagli eventi e dagli umori del pubblico anziché agire in modo da arrivare a una soluzione del conflitto e alla fine dell'occupazione. L'adagio attribuito al diplomatico sionista Abba Eban per cui gli arabi non avrebbero mai perso l'opportunità di perdere un'opportunità, secondo Bregman potrebbe valere anche per gli esecutivi sionisti. Il saggio vero e proprio è preceduto da una nota sull'occupazione in cui Bregman richiama le convenzioni dell'Aia e di Ginevra e i doveri da esse imposti agli occupanti, primi tra tutti quello di non promuovere la colonizzazione dei territori occupati, di rispettarne la popolazione e i diritti di proprietà. Lo stato sionista osserverebbe una interpretazione piuttosto sui generis del diritto internazionale; considererebbe inesistente ogni "altra parte contraente" intesa come entità sovrana accampando così la inapplicabilità delle convenzioni; i confini del 1948 sarebbero linee di armistizio, cosicché nel 1967 non sarebbe stato quindi superato alcun confine vero e proprio; in Cisgiordania infine gli ebrei avrebbero diritti superiori ai palestinesi, data l'antichità della presenza ebraica. Gli stessi esponenti politici sionisti sarebbero da sempre consapevoli della difficile sostenibilità di questa interpretazione, più volte sottolineata dall'ONU.
Il testo è ripartito in due parti. La prima -quattro capitoli- tratta dei primi dieci anni dopo la guerra dei Sei Giorni. La seconda del decennio 1977-1987, la terza dei venti anni successivi fino al 2007.
Il libro presenta nel primo capitolo un inquadramento storico e geografico della Cisgiordania insistendo sull'atto di unificazione dell'aprile del 1950 con cui il Regno di Giordania proclamò l'annessione unilaterale pro tempore della regione e di Gerusalemme Est fintanto che l'obiettivo di una Palestina libera dal sionismo non fosse stato raggiunto, sulla distruzione dei villaggi nella zona di Latrun operata dallo stato sionista e sulle estese demolizioni effettuate a Gerusalemme Est a tutela e sviluppo della "ebraicità" dei luoghi immediatamente dopo l'occupazione del 1967. L'A. specifica che lo stato sionista avrebbe poi intrapreso una completa trasformazione geografica e demografica di Gerusalemme, per farne una città unita e sotto il proprio controllo. L'annessione di quasi centodieci chilometri quadrati sarebbe stata presentata a mass media per lo più molto condiscendenti come se fosse una serie di piccole questioni amministrative, in modo da far passare in secondo piano il quadro d'insieme, che costituiva una aperta violazione del diritto internazionale di cui l'esecutivo sionista sarebbe stato perfettamente consapevole. I confini di questa "integrazione municipale", presentata in questi termini anche all'ONU, sarebbero stati tracciati in modo da contenere il minor numero di abitanti palestinesi possibile, cui sarebbe stata accordata la condizione di "residenti permanenti". Bregman ricorda la politica di non ingerenza con gli affari della popolazione adottata da Moshe Dayan nei primi giorni dell'occupazione: limitare gli aspetti evidenti dell'occupazione al minimo indispensabile evitando di suscitare reazioni da parte della popolazione, avrebbe aiutato lo stato sionista a conservare a tempo indefinito il controllo dei territori occupati. Le politiche volute da Dayan -come quella dei ponti aperti tesa a favorire gli scambi con la Giordania- sarebbero state messe in atto caso per caso "dal basso" da ufficiali sionisti; l'esecutivo ne sarebbe stato informato solo a cose fatte. Lo stesso sarebbe però accaduto anche per le iniziative volte a ridurre e irreggimentare la popolazione palestinese. I militari avrebbero organizzato autobus gratuiti per Amman da Gerusalemme fin dal giorno successivo alla fine della guerra, estorcendo al confine un'attestazione che garantisse la volontarietà della definitiva partenza. Nei mesi successivi chi avesse provato a rientrare legalmente nei territori occupati si sarebbe imbattuto in una serie di legalissimi ostacoli burocratici cui avrebbe provveduto l'esecutivo. Bregman ricorda poi la "battaglia dei libri" con cui i militari sionisti avrebbero subito censurato ogni materiale di lettura in Cisgiordania a cominciare dai testi scolastici; a Nablus, una città dove il più alto livello di istruzione corrispondeva a una coscienza politica più sviluppata, la decisione levò un'ondata di scioperi e di proteste molto negativa per l'immagine pubblica dello stato sionista. Questo avrebbe indotto Dayan a passare alla repressione militare, in un crescendo di iniziative che sarebbero arrivate fino all'assedio. Il governo sionista si sarebbe seriamente preoccupato di organizzare l'occupazione dei "territori amministrati" solo nell'autunno del 1967, emanando linee guida il cui filo conduttore sarebbe stato l'incoraggiamento all'emigrazione dei palestinesi. Ogni episodio violento avrebbe dovuto ricevere una risposta "repentina e molto dura" con l'arresto delle persone sospette e la demolizione degli stabili "che si prestano a fini terroristici". Economicamente la Cisgiordania avrebbe dovuto pesare il meno possibile sul bilancio dello stato sionista, e non si sarebbe dovuto incoraggiare alcun investimento nei territori occupati. Un sistema di autorizzazioni, lasciapassare e licenze introdotto per gradi avrebbe messo la popolazione palestinese in condizione di non poter fare praticamente niente senza il permesso (non certo gratuito) dall'occupante. Le controversie sarebbero state materia per la Corte suprema dello stato sionista, cosa che avrebbe conferito un volto illuminato all'occupazione e che si sarebbe tradotta in una annessione de facto dei territori. In concreto l'operato della Corte non avrebbe fatto altro che "rafforzare l'iniquità dei termini tra occupante e occupato". L'A. descrive l'amministrazione sionista dei territori occupati definendone un settore civile e un settore di sicurezza, entrambi sottoposti al governatore militare. Il settore civile si sarebbe avvalso di impiegati e quadri palestinesi, di fatto incaricati della quotidianità dell'amministrazione civile.
Bregman introduce la figura di Abd al-Rauf al-Qudwa al-Husayni più noto come Yasser Arafat per descrivere l'inizio di una ribellione armata che avrebbe costretto lo stato sionista a reagire costruendo una rete di informatori e di collaboratori estesa a tutte le aree della vita palestinese. Lo stato sionista avrebbe iniziato a subordinare la concessione di qualche permesso o l'alleviamento di qualche sanzione alla disponibilità a collaborare da parte degli interessati. Nei rastrellamenti l'esercito sionista si sarebbe avvalso di delatori -reclutati con la corruzione o con il ricatto- chiamati scimmie, cui sarebbe spettato il compito di segnare a dito gli indiziati. Le punizioni collettive e le accurate perquisizioni in ingresso avrebbero esacerbato il risentimento palestinese verso gli occupanti.
Bregman scrive che la fondazione degli insediamenti sionisti in Cisgiordania sarebbe iniziata fin dal luglio del 1967, con la proposta del piano di Yigal Allon e con le controproposte di Dayan. Allon sarebbe stato favorevole all'annessione della riva destra del Giordano; Dayan avrebbe invece preferito la costruzione di grappoli di insediamenti sulle montagne della Cisgiordania, fiancheggiati da basi militari e uniti allo stato sionista da un sistema di strade e di allacciamenti per i servizi e le comunicazioni senza che questo comportasse l'isolamento della popolazione palestinese rispetto al territorio giordano. Allon avrebbe proceduto ad annettere il minimo indispensabile di terra occupata per garantire la sicurezza dello stato sionista, con l'auspicio di una separazione totale dai palestinesi. Dayan invece avrebbe voluto controllare tutta la Cisgiordania, convinto che col tempo i palestinesi sarebbero diventati dipendenti dallo stato sionista. L'esecutivo avrebbe respinto il piano di Dayan e "né adottato né respinto" il piano Allon; rimanere sul vago quanto ad aspirazioni territoriali avrebbe permesso di respingere molte critiche. Nonostante questo, secondo Bregman il piano Allon sarebbe diventato il progetto ufficioso per la costruzione di insediamenti per i governi laburisti. Il governo avrebbe pensato anche alla legislazione e alla burocrazia necessarie a trasformare proprietà private palestinesi in proprietà dello stato sionista, rifacendosi alla legge britannica del 1945 sullo stato di emergenza, a quella sionista del 1949 sulle "aree chiuse" che consentiva all’esercito di recintare una qualsiasi zona per destinarla a tempo indefinito alle manovre militari e a un altro provvedimento del 1953 che avrebbe consentito allo stato sionista di confiscare ai proprietari palestinesi qualunque territorio non coltivato per impiegarlo a scopi di difesa militare. La ordinanza 58 avrebbe invece consentito di incamerare come "proprietà di assenti" e al lodevole fini della loro custodia terreni e stabili il cui proprietario li avesse abbandonati il 7 giugno 1967, la ordinanza 59 di fare lo stesso con i beni appartenenti a uno "stato ostile". Ad aggirare la quarta convenzione di Ginevra col suo divieto di trasferire civili nei territori occupati avrebbe pensato la Brigata Nahal, che avrebbe costruito campi militari su territori confiscati a scopi militari per poi consegnare tutto ai civili. Come esempio -sia pure per certi tratti atipico- di traduzione operativa l'A. descrive la fondazione della colonia di Kiriat Arba a Hebron; un episodio in cui un piccolo ma determinato gruppo di persone si sarebbe rivelato in grado di imporsi al governo. Secondo Bregman lo stato sionista avrebbe intrapreso le trattative di pace del 1968 con re Hussein di Giordania avanzando richieste irricevibili in modo da conservare lo status quo di una occupazione. L'A. si sofferma sui cambiamenti intervenuti nell'economia cisgiordana nei mesi e negli anni successivi all'occupazione accennando al crollo del turismo arabo e descrivendo la modernizzazione dell'agricoltura e dell'allevamento indotta sulle prime dal personale sionista ma presto interrotta su pressione degli agricoltori sionisti. Nell'agosto 1967 lo stato sionista avrebbe trasferito il controllo delle forniture di acqua alle autorità militari subordinando al sistema dei permessi anche lo scavo di nuovi pozzi e successivamente anche l'uso di quelli esistenti, da cui sarebbe stata contingentata la quantità estraibile. I cisgiordani sarebbero stati inoltre incoraggiati a sviluppare un'industria complementare a quella sionista e non in concorrenza con essa. In meno di un anno una serie di agenzie debitamente controllate dall'intelligence avrebbe fornito mano d'opera palestinese a basso costo all'economia sionista. Bregman sottolinea alcune conseguenze paradossali: i nuovi insediamenti in Cisgiordania sarebbero stati costruiti da lavoratori palestinesi, e lavoratori palestinesi sarebbero stati assunti nei kibbutzim occupando in massa posizioni non qualificate, consentendo ai cittadini dello stato sionista di spostarsi su posizioni a più alto livello tecnologico e di tipo manageriale e amministrativo. Il calo della mano d'opera in Cisgiordania avrebbe causato l'abbandono di terreni che l'esercito avrebbe poi facilmente confiscato per costruire insediamenti; l'arrivo dell'amministrazione sionista, invece, l'esodo della borghesia palestinese alla volta di altri paesi arabi.
Bregman descrive il ruolo di mediazione tra cittadinanza e amministrazione militare svolto dagli organi amministrativi cisgiordani, ricordando come dopo il Settembre Nero del 1970 l'esecutivo sionista avrebbe avuto motivo di ritenere che nelle elezioni del 1972 i consigli comunali favorevoli all'OLP sarebbero stati pochi. L'OLP avrebbe effettivamente boicottato il voto consentendo ai moderati più o meno inclini al collaborazionismo di affermarsi ovunque, ma nei quattro anni compresi tra il 1972 e il 1976 avrebbe avuto successo sul piano internazionale come principale interlocutore per i territori occupati, inducendo l'esecutivo sionista a intervenire manu militari nella campagna elettorale con risultati pesantemente controproducenti. La vittoria dell'OLP alle elezioni del 1976 avrebbe indotto lo stato sionista a non indire altre consultazioni per i dieci anni successivi.
Nel 1977, scrive Bregman, la pretesa "occupazione illuminata" avrebbe mostrato tutti i limiti di una vita quotidiana fatta di censura, burocrazia asfissiante e dilagare degli insediamenti sotto la spinta di gruppi religiosi come Gush Emunim, in spregio al diritto internazionale. Una prosperità illusoria dovuta alle rimesse dei lavoratori e alle elargizioni dal Regno di Giordania avrebbe fatto da paravento all'instaurazione di un'economia coloniale.
Il secondo capitolo tratta della Striscia di Gaza, la cui nascita nel 1948 sarebbe stata segnata dalla perdita dell'entroterra produttivo e dallo sconvolgimento del tessuto sociale causato dal massiccio e improvviso afflusso di profughi per lo più destinati a sopravvivere per mezzo degli aiuti dell'UNRWA. Dai primi anni Cinquanta Gaza, sottoposta a una rigida occupazione egiziana, sarebbe scivolata nell'indigenza. Nel 1967 lo stato sionista avrebbe affidato all'esercito occupante ogni competenza amministrativa, rendendo la popolazione palestinese dipendente da una benevolenza garantita solo in cambio di un buon comportamento. Il piano Allon, spiega Bregman, avrebbe previsto l'annessione della zona meridionale della Striscia e il concentramento della popolazione palestinese nel nord, in una exclave assegnata al Regno di Giordania. L'A. ricorda che lo stato sionista avrebbe scoperto con fastidio che le terre conquistate "arrivavano insieme alla gente che vi risiedeva"; l'allora Primo Ministro Levi Eshkol avrebbe detto che alla "dote" della terra sarebbe corrisposta la sgradita "sposa" corrispondente alla popolazione araba. In pochi mesi l'esercito sionista avrebbe quindi organizzato una serie di vere e proprie deportazioni verso la Cisgiordania. Bregman ricorda le accuse di collaborazionismo che colpivano quanti accettavano di lavorare nello stato sionista o di mostrarsi accomodanti nei confronti dell'occupazione; Dayan sarebbe intervenuto pesantemente, tramite il comandante della piazza Ariel Sharon, solo all'inizio del 1971 quando si sarebbero avute le prime vittime tra gli ebrei. Sharon avrebbe capovolto la prassi di Dayan e avrebbe portato l'esercito direttamente nel cuore degli agglomerati urbani palestinesi facendo abituale ricorso ai delatori, a vaste distruzioni di frutteti e di edifici, alla deportazione di migliaia di palestinesi per lo più verso remote località del Sinai occupato e a una profonda militarizzazione e carcerizzazione di ogni aspetto della vita. Negli anni successivi l'economia di Gaza sarebbe stata oggetto di estesi tentativi di integrazione in quella dello stato sionista soprattutto con l'impianto di attività a Erez; persi i tradizionali sbocchi commerciali, Gaza sarebbe diventata del tutto dipendente dalle possibilità lavorative presenti nello stato sionista e le attività agricole, incentivate sulle prime, sarebbero state affossate in pochi anni sotto le pressioni del settore agroalimentare di Tel Aviv. Lo stato sionista avrebbe assunto anche il controllo della rete elettrica e della gestione dell'acqua.
L'occupazione delle alture del Golan è argomento del terzo capitolo. "Altra sponda del Giordano" e mai parte della biblica "terra d'Israele", il Golan viene descritto da Bregman come una zona economicamente povera ma relativamente autosufficiente, in cui la conquista sionista del 1967 avrebbe provocato trasformazioni rapide ed estremamente traumatiche. All'arrivo dei militari sionisti il Golan si sarebbe svuotato dei propri abitanti; Bregman sostiene che l'esercito sionista, interessato ad annettere territori ma non popolazione, avrebbe incentivato e assecondato le partenze e avrebbe impiantando immediatamente dopo la fine dei combattimenti estese zone militari per evitare il ritorno degli abitanti. L'A. cita rapporti e testimonianze di militari sionisti che attesterebbero l'estesa distruzione di abitazioni e centri abitati, ordinata da comandanti locali che avrebbero agito senza esplicita autorizzazione del governo e che avrebbero risparmiato solo la comunità drusa, i cui esponenti in Galilea si sarebbero dimostrati fin dal 1948 fedeli allo stato sionista. Il governo militare del Golan avrebbe proceduto a cancellare la presenza siriana, a impadronirsi delle terre e a modificare l'organizzazione politica, economica e sociale della popolazione rimasta cancellandone l'identità araba e trasformandone i componenti in cittadini dello stato sionista. Le amministrazioni locali sarebbero state sostituite con altre di stretta fiducia, incaricate di emettere le licenze e i permessi indispensabili a molte attività e e di distribuire aiuti agli agricoltori. L'occupazione avrebbe visto anche la rapida imposizione della burocrazia sionista e un pesante intervento sui programmi scolastici teso a enfatizzare l'identità drusa intesa come separata e distinta dall'identità siriana. Bregman scrive che i pochi drusi rimasti si sarebbero spartiti le terre collettive impiantandovi frutteti, per cercare di evitare confische da parte di un esercito sionista che avrebbe comunque fatto ricorso a una serie di ordinanze per arrivare alla fine al sequestro del 94% dei terreni. Yigal Allon avrebbe promosso fin dalla fine degli scontri la fondazione di alcuni "campi di lavoro" nel Golan, che due anni dopo sarebbero diventati dieci insediamenti a tutti gli effetti. L'A. nota che dopo la guerra dello Yom Kippur gli accordi per il cessate il fuoco avrebbero previsto la restituzione alla Repubblica Araba di Siria della cittadina di Quneytra e che l'esercito sionista avrebbe chiuso entrambi gli occhi sulla sua totale distruzione da parte dei coloni del Golan. Nel 1975 il confine con la Repubblica Araba di Siria sarebbe stato minato, separando così definitivamente il Golan da Damasco. I rapporti dei drusi del Golan con quelli della Galilea, scrive Bregman, si sarebbero presto raffreddati proprio per la contrapposizione venutasi a creare: nonostante i servizi portati dagli occupanti e il conseguenti miglioramenti nell'agricoltura e nell'economia, gli abitanti originari del Golan avrebbero continuato a dimostrarsi leali alla Siria e a considerarsi siriani.
Il quarto capitolo tratta dell'occupazione della penisola del Sinai, sotto controllo sionista dal 1967 al 1982 e anch'essa non parte di un Israele biblico. Nel 1969 sarebbe stato autorizzato un insediamento a sud di Gaza con l'idea di realizzare una barriera fisica che impedisse il contrabbando tra Gaza e l'Egitto anche dopo la restituzione del territorio restante; nel 1972 Sharon avrebbe provveduto a "mettere in sicurezza" la zona: distruzione delle abitazioni, sradicamento delle colture, interramento dei pozzi. La Corte suprema avrebbe avallato il dato di fatto rigettando le istanze dei beduini. Lo stato sionista avrebbe in ogni caso proceduto alla fondazione di insediamenti, oltre che vicino a Gaza, anche sul Mar Rosso e nel sud della penisola. Ignorando le leggi internazionali sulle occupazioni militari, lo stato sionista avrebbe fondato e sviluppato campi petroliferi e gigantesche basi militari. Dopo tre anni di guerra di logoramento Dayan avrebbe proposto il ritiro dalla zona del Canale di Suez. La contrarietà di Golda Meir sarebbe diventata argomento di polemiche tempo dopo, quando la guerra del Kippur del 1973 sarebbe finita con un cessate il fuoco a condizioni analoghe. Bregman riassume l'andamento delle relazioni diplomatiche tra gli USA e lo stato sionista negli anni successivi, col determinante intervento della lobby filosionista al Senato di Washington; con gli accordi "Sinai II" del 1975 lo stato sionista avrebbe accettato di allontanare ulteriormente dal canale di Suez (nel frattempo riaperto) le proprie posizioni, in cambio di una quantità di aiuti che Bregman considera molto simile a un assegno in bianco. Gli USA si sarebbero impegnati a fornire annualmente allo stato sionista equipaggiamento militare e fondi per la difesa, in via permanente e su ampia scala, oltre a non riconoscere e a non negoziare con l'OLP finché non avesse riconosciuto il diritto all'esistenza dello stato sionista e non avesse rinunciato alla violenza contro di esso. Una richiesta, nota l'A., "piuttosto straordinaria" dal momento che pretendeva dai palestinesi che "cessassero di opporre resistenza a un’occupazione illegale come precondizione per poter negoziare la fine della medesima".
Bregman tratta nel quinto capitolo de gli anni del Likud, iniziando con qualche cenno biografico alla figura di Menachem Begin. Begin avrebbe guidato un governo di destra richiamando Dayan come ministro degli esteri e Ariel Sharon come ministro dell'agricoltura. Si sarebbe comportato come "un fanatico convinto del diritto storico degli ebrei alla biblica Eretz Yisrael" considerando la Cisgiordania -o meglio, "Giudea e Samaria" secondo la denominazione sancita tramite ordinanza dal governo militare- una componente indissolubile dello stato sionista. La diplomazia di Begin avrebbe cercato innanzitutto un accordo definitivo con l'Egitto di Anwar Sadat, tramite la mediazione prima marocchina e poi statunitense: la restituzione del Sinai in cambio dell'accettazione da parte araba del diritto dello stato sionista a esistere. In queste circostanze Begin avrebbe proposto a Sadat una autonomia palestinese che avrebbe consentito allo stato sionista di mantenere la sovranità sui territori occupati e che il presidente egiziano, alle prese con il fronte interno e con l'intransigenza di Siria, Iraq, Algeria, Libia e Yemen del Sud, avrebbe trovato irricevibile. A sua volta Begin non avrebbe ovviamente ceduto a fronte della "inammissibilità dell'acquisizione di un territorio con la forza" invocata da Sadat. Bregman sottolinea come nel 1978 lo stato sionista, su proposta di Sharon, avrebbe continuato anche a costruire insediamenti nel Sinai secondo la già descritta politica del fatto compiuto. A Camp David nel settembre 1978 Sadat avrebbe preteso il ritiro dello stato sionista dal Sinai e dalla Gerusalemme Est araba, l’autodeterminazione palestinese, il diritto dei profughi al rientro e risarcimenti per le distruzioni arrecate e per le risorse naturali sfruttate. Carter avrebbe dovuto minacciare la rottura dei rapporti diplomatici con lo stato sionista prima che Begin accettasse di mettere ai voti del parlamento l'abbandono del Sinai. Sullo status di Gerusalemme, a Camp David non sarebbe stato raggiunto alcun accordo. Secondo l'A., i documenti sottoscritti in quelle circostanze avrebbero finito per portare in qualche anno alla "soluzione dei due Stati", ferma restando la completa estromissione dell'OLP. Menachem Begin avrebbe acconsentito alla firma perché Sadat non fosse accusato di aver abbandonato i palestinesi, ma si sarebbe poi mosso per affossare ogni iniziativa in questo senso. Bregman specifica che comportarsi come se l'OLP non esistesse si sarebbe immediatamente rivelata una pessima iniziativa; lo stato sionista sarebbe stato indotto a creare una leadership alternativa alla popolarissima OLP -e che fosse favorevole agli accordi- rifacendosi agli ambienti più conservatori della popolazione rurale cisgiordana. L'esercito sionista avrebbe posto personaggi di fiducia ai vertici delle amministrazioni locali, con l'idea di costringere la popolazione a prendere le distanze dall'OLP. Se dal marzo 1979 Begin avrebbe portato avanti con decisione l'attuazione del trattato nel Sinai -che prevedeva il ritiro completo entro il 1982- avrebbe invece fatto di tutto per affossare qualsiasi concessione in Palestina delegando le trattative a personalità della destra religiosa. Nel 1981 Ariel Sharon avrebbe introdotto nei territori una "Amministrazione civile" subordinata all'esercito, col coinvolgimento dello Shabak. Le proteste palestinesi, cui non sarebbe sfuggita la natura di un'iniziativa puramente di facciata, sarebbero state represse con la abituale intransigenza. Bregman ricorda anche come nel 1980 la decisione parlamentare di accordare la cittadinanza ai pochi abitanti rimasti nel Golan -in modo da procedere con l'annessione di fatto- si fosse scontrata con l'aperta ostilità degli interessati, per niente disposti a tagliare i rapporti con la Siria. L'anno successivo l'annessione di fatto sarebbe avvenuta ugualmente, statuita da una "Legge del Golan", in aperta violazione del diritto internazionale e scavalcando quanti sarebbero stati propensi alla sua restituzione. Alle rimostranze della popolazione avrebbe provveduto nel 1982 l'esercito, mettendo sotto completo embargo la zona; lo stato sionista avrebbe comunque annesso il Golan, ma avrebbe ceduto sulla nazionalità che sui documenti dei drusi sarebbe rimasta "indefinita".
Bregman ripercorre le vicende della guerra in Libano del 1982 notando che secondo Ariel Sharon la sconfitta dell'OLP avrebbe risollevato le sorti delle amministrazioni palestinesi collaborazioniste, ormai presenti in sette distretti regionali e dotate di budget, di milizie armate, di uniformi e di materiale per la propaganda. I nulli risultati conseguiti a riguardo e le dimissioni di Sharon dopo i massacri di Sabra e Shatila avrebbero indotto il suo successore Moshe Arens a mettere fine a tutta l'iniziativa.
Gli anni successivi alle elezioni del 1984, con l'alternanza laburisti-Likud, vengono considerati da Bregman come di calma illusoria per la Cisgiordania.
Il sesto capitolo tratta dell'esordio della prima intifada, una serie di violente sollevazioni a Gaza e in Cisgiordania iniziata nel 1987 e destinata a durare per sei anni. Bregman ritiene che l'esercito e i servizi di intelligence sionisti avessero perso contatto con la realtà, al pari di un esecutivo che avrebbe accusato Iran, Siria e OLP di aver istigato disordini che invece avevano per protagonisti nient'altro che i comuni abitanti dei territori occupati, esasperati dall'occupazione e dalle intollerabili disparità tra il loro tenore di vita e quello dei cittadini dello stato sionista. Alle proteste dei lavoratori e della parte più consapevole e istruita della popolazione si sarebbero unite le formazioni islamiche come Hamas, nata alla fine del 1987 e orientata su posizioni di liberazione nazionale. Bregman nota che "per quanto sorprendente e miope possa ora sembrare" negli anni precedenti la prima intifada sarebbe stato proprio l'esercito sionista a contribuire attivamente al rafforzamento dei gruppi islamisti, considerati un contrappeso adatto a indebolire un'OLP laica e nazionalista. L'A. ricorda anche che dopo il 1967 gli insediamenti si sarebbero espansi a scapito della poca terra e della poca acqua rimaste a disposizione dei palestinesi, e che la sconfitta dell'OLP in Libano avrebbe tolto alla popolazione dei territori occupati qualsiasi speranza di un possibile intervento dall'esterno. L'efficace resistenza di Hezbollah, in compenso, sarebbe servita da esempio anche nei territori occupati; dal campo profughi di Jabalya la rivolta avrebbe raggiunto gli altri campi profughi di Gaza per poi deflagrare in Cisgiordania. L'esercito sionista si sarebbe trovato sprovvisto di mezzi a fronte di una sollevazione civile totale e sostanzialmente disarmata, in cui donne e bambini sarebbero stati in prima fila. Il 22 dicembre 1987 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU avrebbe criticato l'esercito sionista per l'uccisione e il ferimento di civili palestinesi disarmati.
Il settimo capitolo è anche il primo della terza parte del saggio in cui vengono affrontati gli anni tra il 1987 e il 2007, ed è dedicato allo sviluppo della intifada dopo il dicembre del 1987. Bregman illustra il funzionamento del comando nazionale unitario di una sollevazione che avrebbe operato con fionde e sassi in modo più incisivo di qualsiasi formazione armata l'OLP avesse in mente di organizzare. Arafat non avrebbe tardato a imporsi ai leader locali della rivolta, per evitare di essere spinto da parte dagli eventi. L'esercito sionista invece avrebbe reagito adottando armamenti e tecniche antisommossa, mettendo al bando le organizzazioni che alimentavano la sollevazione, deportando decine di attivisti nel Libano meridionale e adottando punizioni collettive come il coprifuoco o le "zone chiuse" nonostante la loro inammissibilità fosse sancita dal diritto internazionale. Il sistema legale già sviluppato a sostegno dell'occupazione avrebbe consentito alle corti militari competenti di comminare "detenzioni amministrative" fino a sei mesi senza la formulazione di accuse specifiche. Bregman afferma con sicurezza che il ricorso alla tortura da parte dello Shabak nei confronti dei detenuti amministrativi sarebbe stato prassi abituale. Dal 1988 il ricorso alla demolizione delle abitazioni come misura punitiva sarebbe stato lasciato alla discrezionalità dei comandanti militari. Bregman descrive l'operazione con cui nel 1988 una missione speciale consentì allo stato sionista di uccidere il capo dell'OLP Abu Jihad in Tunisia. L'acutizzarsi delle proteste che ne seguì avrebbe portato Hussein di Giordania a rinunciare a ogni pretesa territoriale su una Cisgiordania in cui anche dopo il 1967 aveva finanziato personale, servizi e opere pubbliche potendo contare sulla tolleranza dei sionisti. Dall'agosto 1988 vi l'OLP sarebbe rimasta l'unico potenziale interlocutore dello stato sionista. Yasser Arafat avrebbe reagito proclamando formalmente l'indipendenza di una Palestina comprendente Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, accettando la risoluzione 242 dell'ONU sul diritto all'esistenza dello stato sionista. Una serie di mosse che avrebbe reso molto più difficile delegittimare l'OLP, non fosse che per il fatto che negli anni successivi Arafat avrebbe cercato di portare avanti lotta armata e negoziati al tempo stesso, erodendo gradualmente la propria credibilità agli occhi degli USA e dello stato sionista. Nello stesso periodo l'esercito sionista, subissato di pesanti critiche a livello internazionale, sarebbe ricorso ad armi e metodi meno letali: fracassare le ossa ai manifestanti, ricorda Bregman, avrebbe permesso di metterli fuori combattimento senza ingombrare campi di detenzione. Nel 1989 Yitzakh Shamir avrebbe cercato di allentare la pressione internazionale sullo stato sionista proponendo un irricevibile piano sull'autonomia palestinese; per ammissione del suo stesso ideatore, l'intenzione sarebbe stata solo quella di guadagnare tempo: la fine dell'URSS avrebbe lasciato gli USA come unica superpotenza mondiale e provocato anche un massiccio afflusso di immigrati qualificati verso lo stato sionista.
Bregman scrive che verso il 1990 la prima intifada si sarebbe gradatamente spenta per logoramento, indebolita dalla contrazione dei redditi e dalla repressione. A infondere nuovo vigore alle istanze palestinesi sarebbe giunta, inaspettata, la prima guerra del Golfo. Come si legge nelle prime pagine dell'ottavo capitolo, che si apre con alcuni cenni all'invasione irachena del Kuwait, Saddam Hussein si sarebbe detto disponibile a lasciare l'emirato se lo stato sionista avesse lasciato i territori occupati. Gli USA, decisi ad avere la Repubblica Araba di Siria dalla propria parte nell'imminente guerra, avrebbero dovuto tenere conto di questo stato di fatto e promettere il proprio impegno nel "processo di pace". L'esercito sionista avrebbe approfittato dell'affievolirsi dell'attenzione mediatica in concomitanza con l'inizio della guerra del Golfo per imporre il coprifuoco nei territori occupati e per cercare di stroncare definitivamente l'intifada. L'A. nota anche che l'atteggiamento filoiracheno dei vertici dell'OLP e della popolazione palestinese avrebbero fornito alle monarchie del Golfo il pretesto per cacciare la manodopera palestinese. Il ritorno a Gaza e in Cisgiordania di migliaia di disoccupati avrebbe devastato l'economia locale.
Dopo la guerra gli USA avrebbero impiegato otto mesi per organizzare una conferenza di pace a Madrid con stato sionista, Siria, Libano, Giordania e rappresentanti palestinesi non dell'OLP; Bregman descrive la pessima atmosfera di una serie di incontri da cui sarebbe comunque risultato un meccanismo a doppio binario per i futuri negoziati. Nel 1992 a Mosca i partecipanti avrebbero discusso congiuntamente su acqua, ambiente, armi, profughi e sviluppo economico. A Washington lo stato sionista avrebbe negoziato separatamente con ciascun vicino. In tutti i casi i colloqui non avrebbero portato a nessuno sbocco concreto, fino a quando la diplomazia non avrebbe tentato la strada dei colloqui in Norvegia lontano dall'attenzione dei mass media. Ad Oslo sarebbe stata adottata una strategia per cui un processo graduale -in cui lo stato sionista avrebbe ceduto porzioni di territorio in cui i palestinesi avrebbero mantenuto la legge e l'ordine- avrebbe potuto rafforzare la fiducia di entrambe le parti e portare a una situazione in cui si sarebbero potute affrontare le questioni più difficili. L'A. descrive anche gli avvenimenti che nel frattempo avrebbero interessato i territori occupati, dalla cacciata nel Libano del sud di centinaia di attivisti di Hamas nel dicembre 1992 alla "chiusura di marzo" dei territori occupati nel 1993 con cui lo stato sionista reagì all'uccisione di quindici suoi cittadini. L'A. descrive l'andamento dei negoziati segreti che avrebbero comunque portato al riconoscimento reciproco tra OLP e stato sionista nel settembre del 1993, pochi giorni prima della firma a Washington di una Dichiarazione dei principî che avrebbe reso praticabile la "soluzione dei due Stati". L'A. nota -scrivendo ad anni di distanza dai fatti- che il testo avrebbe fatto nascere il sospetto che lo stato sionista, forte di una superiorità militare e diplomatica schiacciante, volesse riorganizzare l'occupazione concedendo ai palestinesi qualche briciola. I palestinesi avrebbero inoltre dovuto ottemperare immediatamente alle richieste dello stato sionista, mentre le loro necessità più sentite -dall'indipendenza al rientro dei profughi- sarebbero state affrontate praticamente sine die. La fine dell'intifada, scrive Bregman, avrebbe sulle prime consentito il ritiro dell'esercito sionista da alcune zone di Gaza e da Gerico, la fondazione di una Autorità Palestinese e l'organizzazione da parte di essa del sistema sanitario, di quello di istruzione, dell'assistenza sociale e delle imposte sul reddito. L'Autorità Palestinese avrebbe avuto solo il potere di confermare la normazione secondaria, e le intromissioni dello stato sionista sarebbero continuate come prima in moltissimi campi della vita quotidiana. Nel 1995 la tripartizione della Cisgiordania in zone di controllo palestinese, congiunto e sionista avrebbe confermato l'estensione raggiunta dagli insediamenti: nella zona a controllo sionista sarebbe rientrato il 72% del territorio. La scarsa competenza amministrativa dell'OLP e il fatto che lo stato sionista continuasse a costruire insediamenti e infrastrutture che li collegassero, ad uso esclusivo dei coloni e dei cittadini dello stato sionista. L'A. rileva come in pochi anni la popolazione palestinese sarebbe stata ridotta a vivere in piccoli cantoni isolati, mentre l'occupazione peggiorava invece di finire. Secondo Bregman Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista il 4 novembre 1995, avrebbe avuto il merito di intuire le potenzialità dell'iniziativa norvegese e di avocarsene la direzione.
Bregman considera gli anni successivi all'assassinio di Rabin quelli delle opportunità perse. Il nono capitolo descrive l'ascesa di Benjamin Netanyahu, che avrebbe ereditato da Primo Ministro un processo di pace che da esponente dell'opposizione aveva sempre contestato. L'A. ricorda come nel 1996 Netanyahu avrebbe permesso la riapertura di una antica galleria a Gerusalemme -ribadendo coi fatti la pretesa di sovranità sulla città intera- considerando Arafat direttamente responsabile dei successivi e prevedibili scontri. Bregman ricorda anche la strage di Hebron del 1994, di come le poche centinaia di coloni ebrei fossero sempre stati "la comunità più estremista, violenta e rissosa" e di come dopo aspri negoziati sarebbe stata decisa nel 1997 la spartizione della città fra Autorità Palestinese e stato sionista. L'A. nota che per la prima volta la destra del Likud avrebbe acconsentito a una concessione territoriale in Cisgiordania, a suo dire "confermando la realtà del processo di Oslo". Nello stesso 1997 Netanyahu avrebbe approvato la costruzione di migliaia di abitazioni su terreni espropriati a palestinesi a Har Homa; un anello di insediamenti ebraici avrebbe dovuto separare di fatto Gerusalemme Est dalla Cisgiordania. Bregman scrive di come l'iniziativa sarebbe andata avanti nonostante la sentita deplorazione degli ambienti diplomatici occidentali, e di come un attentato di Hamas del luglio 1997 avrebbe indotto l'esecutivo sionista a estendere la guerra contro i militanti palestinesi anche oltre i confini dei territori occupati. L'A. descrive a proposito la disastrosa operazione clandestina contro Khaled Meshal in Giordania e i suoi esiti imbarazzanti: chiudere l'incidente diplomatico con la Giordania avrebbe imposto allo stato sionista, tra le altre cose, la liberazione di Ahmed Yassin.
Nel 1998 l'opposizione all'esecutivo sionista e i vertici dell'OLP avrebbero cercato di forzare la mano a Netanyahu perché ultimasse il ritiro dalle aree sotto responsabilità palestinese. Le risoluzioni elaborate in una serie di incontri a porte chiuse sarebbero state presentate all'esecutivo sionista come se fossero un'idea statunitense. Il memorandum di Wye River avrebbe previsto, oltre al ritiro sionista, anche l'operatività di porto e aeroporto a Gaza e un collegamento via terra fra Gaza e Cisgiordania. Bregman scrive che il complotto avrebbe funzionato, provocando all'inizio del 1999 la caduta dell'esecutivo sotto i veti incrociati di destra e sinistra.
Il decimo capitolo, intitolato prima il Golan, tratta dei rapporti tra gli USA del governo Clinton e lo stato sionista del governo Barak. Ehud Barak avrebbe cercato, nei pochi mesi rimasti prima delle successive elezioni statunitensi, di riprendere i colloqui con una Repubblica Araba di Siria cui anni prima sarebbe stata già presentata la prospettiva di un ritiro completo dal Golan in cambio della rinuncia a qualsiasi atto aggressivo. Bregman descrive un insuccesso diplomatico dovuto anche all'impopolarità dell'abbandono del Golan, che avrebbe comportato lo spostamento dei confini siriani fino al Mare di Galilea; l'aggressività siriana durante le fasi finali della trattativa avrebbe peraltro servito a Barak un motivo per temporeggiare. L'A. espone poi dettagliatamente le vicende che avrebbero portato al fallimento i colloqui tra Bill Clinton, mediatore per il primo ministro sionista, e Hafez Assad nel marzo del 2000.
Il fallimento dei colloqui con la Siria avrebbe portato Barak a riconsiderare i negoziati con Arafat, argomento dell'undicesimo capitolo. Bregman spiega come Barak fosse stato contrario alla "gradualità" degli accordi di Oslo, che avrebbe lasciato il processo di pace in ostaggio agli estremisti di entrambe le parti e privato man mano lo stato sionista di molta presenza sul terreno senza adeguate contropartite. L'A. scrive di come Barak avrebbe cercato per mesi di indurre Arafat da accettare un approccio del tipo "o tutto o niente" intanto che sul terreno l'espansione degli insediamenti e delle infrastrutture continuava senza apprezzabili rallentamenti. Nel giugno 2000 il malcontento palestinese sarebbe stato ben noto ai servizi di intelligence dello stato sionista; secondo Bregman, Barak avrebbe continuato la preparazione di un vertice -in cui avrebbe posto ad Arafat condizioni irricevibili- pur essendo consapevole che il suo prevedibile fallimento avrebbe portato a pesantissimi scontri. Bregman scende nei particolari del vertice di Camp David in cui il presidente degli USA Clinton avrebbe agito come mediatore; rileva che probabilmente la sua intenzione di compiacere ambo le parti, la scarsa fermezza dimostrata e il non aver consultato altri leader mediorientali avrebbero impedito qualsiasi progresso sostanziale. Secondo L'A., Barak avrebbe voluto che il vertice si trasformasse "in una pentola a pressione" e che Clinton "vi gettasse dentro Arafat e alzasse la fiamma". Il fallimento sarebbe emerso nella sua interezza con il mancato accordo per la sovranità sullo Haram al Sharif di Gerusalemme, questione che a detta di Arafat avrebbe riguardato tutto il mondo islamico e non solo il nazionalismo palestinese. "Additando Arafat come colui che non era disposto al compromesso" Barack sarebbe riuscito anche a interrompere il trasferimento di territori all'Autorità Palestinese.
Due mesi dopo il fallimento del vertice, scrive Bregman nel dodicesimo capitolo, la visita di Ariel Sharon allo Haram al Sharif avrebbe rotto la precarissima calma dei territori occupati. Secondo l'A. Barack avrebbe potuto impedire la provocazione -compiuta da Sharon per consolidare il proprio sostegno nel Likud- tanto più che sarebbe stato avvertito da Arafat delle sue conseguenze. Il gesto di Sharon avrebbe fatto da catalizzatore per la intifada di al Aqsa, le cui cause profonde vengono identificate dall'A. nella "disparità tra ciò che i palestinesi si aspettavano dal processo di pace e ciò che di fatto ricevevano, che non riusciva a soddisfare nemmeno le loro necessità fondamentali". In particolare l'espansione degli insediamenti e delle loro infrastrutture, oltre al drenaggio di risorse naturali ad esclusivo favore del loro mantenimento, non avrebbero conosciuto pause dopo i negoziati di Oslo. Bregman scrive che all'indomani della provocazione di Sharon lo stato sionista avrebbe identificato in Arafat l'unica fonte di autorità e il solo responsabile di ogni violenza e di ogni rimostranza. A differenza di quanto accaduto nel 1987, la reazione sarebbe stata immediata e violenta anche e soprattutto contro civili disarmati; Bregman sostiene che l'esercito sionista avrebbe alzato di proposito il livello dello scontro portandolo sul piano meramente militare, in cui contava di avere la meglio forte della propria superiorità tecnologica. L'esercito sionista avrebbe anche imposto coprifuoco e posti di blocco impermeabili anche alle emergenze sanitarie. Bregman nota anche che i cittadini arabi dello stato sionista avrebbero manifestato contro l'esecutivo e contro il comportamento dell'esercito e che i rapporti tra arabi ed ebrei ne sarebbero usciti gravemente incrinati. In ogni caso, scrive Bregman, i cittadini arabi dello stato sionista "erano sempre stati trattati alla stregua di cittadini di seconda classe, quotidianamente discriminati e remunerati mediamente con i salari più bassi di qualunque gruppo etnico nel paese". A fronte della vastità e della pesantezza della repressione sionista Arafat -considerato da Tel Aviv e sempre più spesso anche dalle capitali occidentali colpevole di qualsiasi cosa succedesse- non avrebbe cessato di invocare l'intervento della comunità internazionale. Bregman scrive che per fermare l'erosione dell'immagine dello stato sionista causata dalle violenze indiscriminate Barak si sarebbe risolto ad adottare la politica degli omicidi mirati, a partire dal novembre del 2000. Anche i contraddittori tentativi di Barak di trovare contatti con il "non partner" Arafat sarebbero stati mossi dalla stessa necessità; nel corso di uno di questi Arafat avrebbe rifiutato una serie di proposte presentata da Bill Clinton -a detta di Bregman le più generose mai presentata- che avrebbe garantito ai palestinesi la sovranità sullo Haram al Sharif (lo stato sionista la avrebbe esercitata sul sottosuolo, ovvero sui resti dell'antico tempio) in cambio della pesante rinuncia al diritto al ritorno.
Nel marzo 2001, si legge nel tredicesimo capitolo, Sharon avrebbe vinto le elezioni e sarebbe diventato primo ministro manifestando una tale ostilità nei confronti del leader palestinese da indurre il nuovo presidente degli USA George W. Bush da chiedergli esplicitamente di non ordinarne l'eliminazione. Sharon avrebbe comunque iniziato a impiegare bombardamenti aerei contro obiettivi palestinesi per contrastare la campagna di attentati suicidi che avrebbe caratterizzato la intifada di Al Aqsa. Secondo Bregman, Sharon avrebbe preteso che l'esercito sionista uccidesse i palestinesi a decine, in pratica consentendogli di agire senza limiti. La maggior parte degli attentati suicidi sarebbe stata opera di Hamas e del Jihad islamico su cui Arafat non avrebbe avuto alcun controllo diretto; Bregman nota che in ogni caso Sharon avrebbe continuato a considerare Arafat responsabile di tutto (pur definendolo "irrilevante") e avrebbe poi esteso la pratica degli omicidi mirati anche alle personalità politiche palestinesi. Bregman descrive le circostanze che alla fine di marzo 2002 avrebbero portato l'esercito sionista a invadere l'intera Cisgiordania dopo un attentato suicida particolarmente sanguinoso al Park Hotel di Netanya, e a mettere fisicamente sotto assedio Arafat a Ramallah. Una rottura drammatica degli accordi di Oslo, scrive l'A., che "ribaltava anni di negoziati". Bregman racconta come nel corso della "Operazione Scudo Difensivo" l'esercito sionista avrebbe raso al suolo la città di Jenin, non sempre curandosi di evacuare le abitazioni prima di abbatterle con i bulldozer. La Scudo Difensivo avrebbe indebolito la campagna di attentati ma non la avrebbe interrotta, tanto più che la maggioranza di essi sarebbe stata opera di Hamas, un movimento che opponendosi al processo di pace non sentiva obblighi nei confronti dello stato sionista. Per uccidere il fondatore di Hamas Salah Shehadeh, si legge, l'aviazione sionista avrebbe usato a Gaza il 22 luglio 2002 un ordigno da una tonnellata; oltre a Shehadeh ci sarebbero state quattordici vittime collaterali delle quali il generale Dan Halutz avrebbe mostrato di non curarsi affatto. Nel frattempo l'amministrazione Bush avrebbe proposto una "roadmap" per la soluzione del conflitto, uno dei cui prerequisiti era la richiesta di una "nuova e diversa leadership palestinese". Sotto gli auspici statunitensi, russi, della UE e dell'ONU, la roadmap avrebbe previsto la fine del ricorso alla forza da parte palestinese, la predisposizione di una riforma politica totale che mettesse da parte Arafat, e infine la fondazione di uno Stato palestinese indipendente. Lo status di Gerusalemme, il problema dei profughi, dei confini e degli insediamenti sarebbero stati affrontati con un trattato di pace finale da ratificarsi nel 2005. In una successiva conferenza tutti gli stati arabi avrebbero firmato trattati di pace con lo stato sionista. L'A. scrive che il 7 marzo 2003 Arafat avrebbe invitato pubblicamente Abu Mazen a diventare premier, e che nei mesi successivi i palestinesi avrebbero rispettato gli impegni; la roadmap avrebbe potuto funzionare. Alla fine di luglio 2002, scrive Bregman, Abu Mazen si sarebbe recato a Washington per cercare di persuadere Bush a condannare il muro con cui lo stato sionista stava separando il proprio territorio da quello della Cisgiordania, appropriandosi al tempo stesso di un quantità significativa di terre palestinesi. Bush non si sarebbe dimostrato comprensivo; la corte internazionale di giustizia non avrebbe invece avuto dubbi ad esprimersi molto negativamente. Il 14 agosto 2002 lo stato sionista avrebbe rotto la tregua uccidendo il capo del braccio armato del Jihad islamico; Bregman descrive il riaccendersi degli scontri, in uno scambio di attentati suicidi e di omicidi mirati. Sharon avrebbe nuovamente incolpato Arafat, "un vero e proprio ostacolo alla pace".
Nel quattordicesimo capitolo Bregman scrive che dopo il 2004 nello stato sionista si sarebbe affermata la propensione a separarsi fisicamente dai palestinesi piuttosto che a negoziare la fine del conflitto. Il ritiro da Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania ordinato da Sharon nel 2005 sarebbe stato espressione di questo atteggiamento, oltre ad essere stato deciso per sviare l'attenzione da una roadmap che lo stato sionista avrebbe avuto molto interesse a considerare lettera morta. L'A. scrive che intanto che procedeva a pianificare l'abbandono di Gaza, Sharon avrebbe ordinato di uccidere Ahmed Yassin e poi il suo successore Abdel Aziz Rantissi. Con gli USA, Sharon avrebbe voluto ottenere garanzie sul confine con la Cisgiordania -senz'altro diverso da quello del 1967 in modo da includere i grossi insediamenti sorti nei precedenti trentacinque anni- e sulla non sussistenza del "diritto al ritorno" dei palestinesi. Nei contatti diplomatici con la Giordania mediati dagli Stati Uniti "le nuove realtà sul campo" avrebbero avuto un loro peso nel far presentare come irrealistica la pretesa di un ritorno ai confini del 1967. In pratica, scrive Bregman, gli USA avrebbero accettato e sancito la nullità di due principi cari ai palestinesi: il diritto al ritorno dei profughi, e il ritiro dello stato sionista entro i confini del 1967. Arafat sarebbe morto in Francia l'11 novembre 2004: Bregman scrive che Sharon aveva detto non molto tempo prima in una intervista di considerarsi libero circa qualsiasi impegno sulla sua incolumità. Un elemento, così come la documentazione dello Shabak prodotta dall'A., che non consentirebbe di escludere la responsabilità dello stato sionista. Il saggio specifica anche che l'abbandono di Gaza e dei quattro insediamenti in Cisgiordania si sarebbe tradotto soprattutto in una riorganizzazione del modo di operare dell'esercito sionista, che avrebbe continuato a mantenere il controllo effettivo ed esclusivo delle zone evacuate, con particolare riferimento allo spazio aereo e alle acque territoriali, ai punti di confine, all'acqua potabile, all'energia e alle fognature. Secondo Bregman, un controllo effettivo anche in assenza di presenza fisica. E una situazione che avrebbe favorito l'ascesa dei movimenti radicali.
Nelle pagine finali Bregman riassume la cronistoria dell'occupazione sostenendo che lo stato sionista abbia perso nei primi dieci anni dopo il 1967 un'opportunità unica per stringere accordi di pace con i propri vicini. Solo dopo il 1977 sarebbero state perseguite politiche tali da rendere irreversibile l'occupazione tramite la costruzione di insediamenti, e solo con la prima intifada l'opinione pubblica avrebbe iniziato a porsi seri dubbi sulle possibilità di successo del progetto di occupazione. Dal 1998 in poi, riconoscendo il diritto all'esistenza dello stato sionista, i palestinesi avrebbero rinunciato alle pretese sul 78% della Palestina storica; sarebbero stati quindi riluttanti a fare concessioni sul 22% rimanente. Dal 2006 la rivalità tra Hamas e il governo in Cisgiordania avrebbe permesso allo stato sionista di non portare avanti il processo di pace con la scusa delle divisioni nella controparte, e la guerra in Siria avrebbe messo fuori discussione la fine dell'occupazione del Golan. Bregman ritiene che il tentativo di inglobare i territori occupati sia fallito, e che dal 1967 lo stato sionista sia riuscito a dimostrare che "anche nazioni che hanno sofferto inenarrabili tragedie possono agire in modi altrettanto crudeli quando hanno il potere nelle loro mani". Occupante "dalla mano pesante e brutale", lo stato sionista avrebbe guardato alla popolazione sottomessa solo come a un mercato vincolato e a un serbatoio di mano d'opera a basso costo, senza curarsi del fatto che facendo indurire nello squallore e nella mancanza di speranza le persone sottoposte alla sua autorità non avrebbe fatto altro che aumentare la loro determinazione a lottare con ogni mezzo per la fine dell'occupazione.


Ahron Bregman - La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei territori occupati. Einaudi, Torino, 2014. 384pp.